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Responsabilità dell´ente: proporzionalità della misura cautelare e consenso al dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo
Marco Misiti
Con la sentenza n. 13936 del 2022, la Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione ha elaborato una soluzione innovativa, volta a scongiurare la minaccia di una definitiva cessazione dell’attività economica svolta da enti destinatari della normativa di cui al d.lgs. n. 231 del 2001. Una minaccia che trova la propria fonte nella permanenza degli effetti di una misura cautelare reale.
Il caso in esame sfiora plurime e complesse tematiche, quali: il principio di proporzionalità nella materia delle misure cautelari; l’imponibilità dei proventi da fatti illeciti e, quindi, anche da reato; l’interrelazione tra oneri tributari e misure reali.
Anticipando il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte, il giudice di legittimità ha affermato la legittimità della revoca parziale del sequestro disposto ex art. 53 d.lgs. n. 231 del 2001 qualora, in assenza di ulteriori alternative, il richiedente il dissequestro si impegni a utilizzare tali risorse per l’assolvimento di oneri tributari.
Il caso sottoposto all’esame della Sesta Sezione atteneva ad una ipotesi di traffico di influenze illecite, presuntivamente commesse dai rappresentanti legali di una società nell’interesse della stessa. Nel corso del procedimento penale, il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro preventivo ai fini di confisca dei saldi attivi intestati alla società e delle polizze assicurative, per un ammontare complessivo di circa 70 milioni di euro.
Il difensore dell’ente aveva avanzato istanza di dissequestro parziale, poiché la società necessitava di risorse economiche, non altrimenti ottenibili, per l’adempimento degli oneri tributari relativi al provento del citato reato.
Così fissate le coordinate del caso concreto, è opportuno richiamare e approfondire la normativa rilevante per la risoluzione della questione. In particolare, l’attenzione deve focalizzarsi sulle condizioni per la imponibilità dei proventi illeciti e sui tratti essenziali della normativa 231.
È ormai dato consolidato in giurisprudenza il fatto che anche i proventi da reato costituiscano reddito tassabile, ai sensi dell’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993. Il presupposto necessario per la imponibilità di tali ricchezze è che l’autore del reato ne abbia avuto la effettiva disponibilità.
In ragione di tale condizione, la giurisprudenza ha precisato che non si dà luogo alla tassabilità dei profitti illecitamente ottenuti nel caso in cui questi ultimi, nello stesso periodo di imposta in cui sono maturati, siano stati oggetto di sequestro o confisca[1].
Nel caso concreto, il destinatario del provvedimento ablatorio era un ente destinatario del d.lgs. n. 231 del 2001. La citata normativa effettua un continuo bilanciamento tra esigenze repressive e la finalità di assicurare la prevenzione di futuri illeciti e la continuità dell’attività economica.
Le coordinate così fissate permettono di affrontare le complesse questioni risolte nella sentenza ora in commento.
Nel caso concreto, il ricorrente lamentava la possibilità che la persistenza della misura del sequestro preventivo, privando l’ente della quasi totalità delle proprie risorse economiche, impedisse alla società l’adempimento degli oneri tributari, con tutte le conseguenze sul piano sanzionatorio per il ritardato pagamento del debito fiscale.
Al fine di escludere tale pericolo, la Corte di Cassazione ha elaborato una soluzione che garantisce un perfetto equilibrio tra tutte le esigenze in gioco. Infatti, solo in tal modo, come già precisato da una pronuncia a Sezioni unite, una misura cautelare può dirsi effettivamente «proporzionata all’obiettivo da perseguire[2]».
Invero, se da un lato bisogna garantire la «apprensione del prezzo o del profitto illecitamente lucrato ai fini della successiva ablazione» funzione assolta dal sequestro preventivo ai fini di confisca dall’altro lato bisogna anche assicurare la tutela «della libertà di esercizio dell'attività d'impresa (art. 41 Cost., art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione Europea), del diritto di proprietà (art. 42 Cost., art. 1 del Prot. n. 1 CEDU), del diritto al lavoro (art. 4 Cost., art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione Europea)» così come bisogna evitare di «[mettere] a rischio la stessa esistenza giuridica dell'ente».
D’altronde, il principio di proporzionalità «non esaurisce il suo rilievo nel divieto di attingere beni di valore superiore al profitto confiscabile stimato», ma anzi impone al giudice di vigilare che, al di là della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, la misura cautelare reale «non determini un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica dell'ente attinto dal vincolo reale, eccedendo quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito».
Secondo il giudice di legittimità, tale soluzione è pienamente aderente alle finalità perseguite dal legislatore nella disciplina della responsabilità amministrativa da reato dell’ente. Una affermazione pienamente condivisibile, poiché l’esigenza di garantire la continuità aziendale emerge oltre che dall’art. 53, indicato dalla Suprema Corte anche dagli artt. 14, 15 e 16 del d.lgs. n. 231 del 2001.
Il principio di diritto elaborato nella sentenza rappresenta una novità assoluta nel panorama delle misure cautelari reali.
Difatti, la Suprema Corte ha riconosciuto la possibilità di disporre il dissequestro per questioni attinenti alla continuità dell’attività economica, profilo questo che prescinde dalle ordinarie dinamiche delle misure cautelari legate alla gravità indiziaria e alle esigenze cautelari.
La portata innovativa emerge anche mediante l’accostamento tra la soluzione ora in esame e la situazione attuale in materia di sequestro di risorse economiche provento di reati tributari.
Infatti, con riferimento a quest’ultimo ambito, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non sussiste alcun potere in capo al giudice di disporre il dissequestro delle somme di denaro, sottoposte a vincolo per un importo pari alle imposte evase, per permettere al richiedente di adempiere ai propri oneri tributari[3].
Tra l’altro, la Suprema Corte ha dimostrato di tenere conto non solo di quanto astrattamente previsto dalle norme, ma anche di quanto concerne le concrete dinamiche dell’impresa.
Infatti, la normativa contenuta nel d.lgs. n. 231 del 2001 prevede forme di attenuazione o sospensione della efficacia delle misure cautelari solamente in riferimento a quelle interdittive.
Nulla toglie però, come precisato da più Autori[4], che anche le misure cautelari aventi natura reale possono pregiudicare l’operatività di un’attività economica, privando l’ente delle risorse necessarie per garantire la continuità aziendale.
Infatti, bisogna notare che le misure cautelari reali di cui al d.lgs. 231 del 2001 trovano applicazione rispetto a qualsiasi illecito presupposto, mentre le misure cautelari interdittive necessitano di una espressa previsione nella parte speciale del citato decreto[5].
Inoltre, come sostenuto dai ricorrenti nel caso in esame, la privazione di risorse economiche dell’ente può in alcuni casi trascendere la provvisorietà delle esigenze cautelari e causare invece la definitiva cessazione dell’impresa.
Le affermazioni appena svolte acquistano maggiore pregnanza, se solo si considera la nozione di profitto accolta dalla giurisprudenza di legittimità.
Infatti, se è vero che l’utilità conseguita dal danneggiato non può essere considerata come vantaggio e, quindi, come profitto confiscabile, tuttavia, si è anche detto che il profitto confiscabile non può essere individuato ricorrendo a criteri economici[6].
L’individuazione del profitto confiscabile, perciò, prescinde da eventuali oneri tributari che l’imputato debba adempiere in relazione agli illeciti proventi ottenuti.
L’attenzione mostrata dal giudice di legittimità per le esigenze concrete degli enti non cede però il passo a un atteggiamento eccessivamente indulgente.
Infatti, la sentenza ora in esame precisa che non basta presentare una istanza di dissequestro sostenuta da affermazioni assertive. Anzi, è necessaria la «dimostrazione» che il sequestro, «nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico».
Se i principi espressi nella sentenza ora in esame sono senza alcun dubbio degni di lode, tuttavia bisogna notare che la portata innovativa della pronuncia risulta smussata dal peculiare contesto del caso concreto.
Infatti, la Suprema Corte ha sottolineato il principio ispiratore della propria decisione, ossia la volontà di evitare la definitiva cessazione dell’attività economica di una società o, come è stata anche definita, «l’enticidio[7]».
Di conseguenza, non sembra che il citato principio possa essere esteso a settori diversi e ulteriori rispetto a quello della responsabilità amministrativa da reato degli enti.
[1] Per un approfondimento sul punto, si rinvia a D. Irollo, La tassazione dei proventi dell’illecito nell’esegesi del disposto di cui all’art. 14, comma 4, legge 537/1993, in Riv. dir. trib., 1/2001, 33 e ss.
[2] Così Cass. pen., Sez. U, 27 luglio 2018, n. 36072.
[3] Tra molte, si veda Cass. pen., Sez. 3, 13 maggio 2020 n. 14738.
[4] Si veda sul punto, in commento alla sentenza ora annotata, C. Santoriello, Sì allo svincolo parziale delle somme sequestrate per consentire all’ente di pagare le imposte, in Ilpenalista.it e, più in generale, E. Mezzetti, L’enticidio, cit., 137 ss.
[5] Sul punto, si rinvia a S. Pizzotti, Le misure cautelari prevista dal d.lgs. n. 231/2001, Parte II, in Resp. civ. e prev., 2/2009, 445 s
[6] Così è stato affermato da Cass. pen., Sez. U, 2 luglio 2008, n. 26654.
[7] Così si esprime E. Mezzetti, L’enticidio: una categoria penalistica da ricostruire ed una categoria per l’azienda da evitare, in Diritto penale contemporaneo, 1/2018, 133 ss.
Sezione: Sezione Semplice
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