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(Ancora) sull´automatismo sanzionatorio di cui all´art. 69 c. 4 c.p. costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza dell´attenuante del “fatto di lieve entità” sulla recidiva reiterata in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione

Nota di Giulio Baffa

Il concetto di automatismo sanzionatorio viene genericamente inteso come vincolo apposto dal legislatore al potere discrezionale del giudice, anzitutto, nella determinazione della specie e dell’ammontare della pena base tra il massimo e il minimo edittale previsto dalla norma incriminatrice e, in secondo luogo, nella commisurazione della pena in senso lato che concerne tutti i momenti di individuazione della sanzione da eseguirsi in concreto, quali, a titolo meramente esemplificativo, il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, le circostanze generiche di cui all’art. 62-bis c.p., la scelta di applicazione delle misure alternative e delle pene sostitutive. Gli automatismi sanzionatori, detto altrimenti, limitano il potere dell’autorità giudiziaria nella scelta della soluzione sanzionatoria.
L’attribuzione al giudice del potere discrezionale, non solo in sede di commisurazione della pena in senso stretto, alla quale si riferiscono in modo specifico gli artt. 132 e 133 c.p., ma anche in sede di commisurazione della pena in senso ampio, risponde alla necessità di individuare la più adeguata “misura” della pena in rapporto alle concrete note del fatto di reato così come accertato durante il processo. Il legislatore, infatti, nel delineare la fattispecie incriminatrice astratta può solo indicare in termini di massima, secondo tipizzazioni, il disvalore del fatto, spettando invece all’autorità giudiziaria il compito di definire la risposta sanzionatoria il più possibile corrispondente alle peculiarità che caratterizzano la vicenda storica oggetto di giudizio.
Si tratta evidentemente di una logica che permette di conciliare il principio di stretta legalità con le ineludibili esigenze di giustizia materiale, dettate dai principi costituzionali di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1, Cost., del finalismo rieducativo della pena, inteso nella sua accezione sostanziale e orientato dalla proporzione della pena.
Le contrastanti esigenze di politica criminale, tuttavia, hanno determinato importanti squilibri nel tradizionale bilanciamento tra il potere discrezionale del giudice e il principio di legalità penale: invero, gli interventi legislativi registratisi negli ultimi decenni sono andati in direzione molto diverse tra loro.
Mentre con la cosiddetta mini-riforma del 1974 che ha radicalmente mutato i tratti originari del reato continuato e del concorso formale di reati, e con la legge Gozzini del 1986 che ha proceduto all’abolizione delle presunzioni di pericolosità previste dal codice penale, la discrezionalità giudiziale ha raggiunto livelli eccessivi che ne suggerivano un importante ridimensionamento; la legge n. 251 del 2005 (cosiddetta legge ex Cirielli) ha ridotto in maniera significativa il potere discrezionale del giudice in sede di commisurazione di pena (intensa in senso lato), privilegiando l’introduzione di automatismi sanzionatori come affermazione del principio di legalità penale.
Tra gli interventi realizzati con la legge ex Cirielli del 2005 riveste particolare importanza, anzitutto, la deroga di portata generale alla disciplina del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee di cui all’art. 69 c.p. Più nel dettaglio, l’art. 3 della legge n. 251 del 2005 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 c.p., reintroducendo il divieto di prevalenza di eventuali circostanze attenuanti sulle aggravanti operanti in caso di concorso di persone nel reato, quali quelle di cui agli artt. 111 c.p. (determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile) e 112, comma 1, n. 4, c.p. (numero di concorrenti pari o superiore a cinque unità) e sull’aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma 4, c.p., lasciando comunque impregiudicato un possibile esito di equivalenza.
Anche quest’ultima disciplina ha attirato molte critiche poiché ritenuta incompatibile con il principio di eguaglianza/ragionevolezza e il principio di necessaria offensività. Ciò nonostante, il Giudice delle leggi in diverse occasioni (ad esempio con la sentenza n. 192 del 2007) ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 69, comma 4, c.p., come sostituito dalla legge ex Cirielli, sulla base della natura facoltativa della recidiva reiterata e degli effetti di tale facoltatività sul giudizio di bilanciamento.
Al contrario, si è sindacato negativamente il meccanismo che deroga alla disciplina generale della comparazione tra circostanze eterogenee rispetto a singole e particolari ipotesi di attenuazione del trattamento sanzionatorio, per lo più incentrate sulla tenuità dell’offesa e tali da comportare una forte diminuzione di pena, dalla quale risultava irragionevolmente escluso il recidivo reiterato. In questo senso e in un contesto di opposizione agli automatismi sanzionatori, la Corte costituzionale, attraverso la tecnica della sentenza di accoglimento parziale, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui escludeva la possibile subvalenza della recidiva reiterata rispetto alle circostanze attenuanti del fatto di lieve entità in materia di stupefacenti ex art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del 1990 (sentenza n. 251 del 2012), della particolare tenuità del fatto in materia di ricettazione ex art. 648, comma 2, c.p. (sentenza n. 105 del 2014), dell’ipotesi di violenza sessuale di minore gravità ex art. 609-bis, comma 3, c.p. (sentenza n. 106 del 2014), della collaborazione nei procedimenti per fatti di narcotraffico di cui all’art. 73, comma 7, D.P.R. n. 309 del 1990 (sentenza n. 74 del 2016), del danno patrimoniale di speciale tenuità in materia di reati fallimentari ex art. 219, comma 3, r.d. 16 marzo 1942, n. 267), del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 c.p. (sentenza n. 73 del 2020) e, infine, della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, c.p. (sentenza n. 55 del 2021).
Nihil novi sub sole, dunque, con la sentenza che qui si annota. Il giudice delle Leggi, infatti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 c.p. – sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p.
Nel caso di specie, la particolarità riguarda la natura “giurisprudenziale” dell’attenuante de qua: in effetti, la Corte costituzionale, muovendo dalla comparazione con la fattispecie di reato di cui all’art. 289-bis c.p., punita anch’essa con la reclusione da venticinque a trenta anni, ha ritenuto ingiustificato il trattamento sanzionatorio differenziato e ha dichiarato – con una pronuncia addittiva – l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità», come già previsto, ai sensi dell’art. 311 c.p., per il delito di sequestro terroristico o eversivo.
Ora, posto che la funzione dell’attenuante in esame «consiste propriamente nel mitigare (…) una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale», precludere al giudice la possibilità di prevalenza della diminuente del «fatto di lieve entità» sulla recidiva reiterata, finirebbe per disconoscere il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto, «con ciò frustrando, irragionevolmente, gli effetti che l’attenuante mira ad attuare e compromettendone la necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio» (sentenza n. 55 del 2021).
Il divieto inderogabile di prevalenza dell’attenuante in esame non risulta dunque compatibile con il principio di determinazione di una pena proporzionata, idonea a tendere alla rieducazione del condannato ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost., che implica «un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 185 del 2015).
La Corte, inoltre, ritiene violato il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), in quanto il divieto censurato vanifica la funzione che l’attenuante tende ad assicurare, ossia sanzionare in modo diverso situazioni differenti sul piano dell’offensività della condotta. Per effetto di tale divieto si ha, invece, che fatti di minore entità possono essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell’art. 630 cod. pen., per le ipotesi più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo i medesimi beni giuridici, sono completamente differenti con riguardo «alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo».
Per tirare conclusivamente le fila del discorso sulle insormontabili problematicità sollevate dagli automatismi sanzionatori, si deve rilevare come l’unica soluzione davvero praticabile per ricondurre a sistema questa tipologia di meccanismi presuntivi sia la ricerca di un punto di equilibrio tra la legalità e la discrezionalità giudiziale.
La valorizzazione dei principi generali in materia penale, sia quelli che attengono all’autore (come il principio di personalità della responsabilità penale), sia quelli che attengono al fatto (come il principio di offensività), appare quindi la strada da perseguire per preservare il necessario volto costituzionale della pena, i cui connotati essenziali andrebbero ricostruiti in base al canone della proporzione, idea guida che, ormai da tempo, “regola” il rapporto tra delitti e pene.

Sezione: Corte Costituzionale

(C. Cost., 8 luglio 2021, n. 143)

stralcio a cura di Giulio Baffa 

“1.– Con ordinanza dell’8 settembre 2020 (…) la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (…) nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza dell’attenuante del «fatto di lieve entità» – introdotta dalla sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen. – sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. (…) In particolare, la Corte rimettente osserva che, in considerazione dell’eccezionale asprezza del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 630 cod. pen., l’impossibilità di applicare la diminuzione di pena prevista dall’attenuante in esame, secondo un giudizio di prevalenza, lede il principio di proporzionalità della pena in quanto impedisce il necessario adeguamento della stessa al fatto di particolare tenuità. Per effetto del divieto di prevalenza dell’attenuante del fatto di lieve entità sull’aggravante della recidiva reiterata si determinerebbe un trattamento sanzionatorio sproporzionato rispetto al reato commesso, che sarebbe percepito come ingiusto dal condannato e, perciò, risulterebbe inidoneo a svolgere la funzione rieducativa prescritta dall’art. 27 Cost. Ciò ridonderebbe anche in violazione del principio di eguaglianza in ragione dell’ingiustificatezza della risposta sanzionatoria, così marcatamente differenziata rispetto agli imputati concorrenti nel reato. (…) 4.– [Nella] (…) nuova formulazione l’art. 630 cod. pen. ha previsto al primo comma – e prevede tuttora – che chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni (…). Questa Corte, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., non ha mancato di osservare che si è trattato di «una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza» (sentenza n. 68 del 2012), che finiva per trovare applicazione [continua ..]

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