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Social e post di discriminazione razziale: quando un like è grave indizio di colpevolezza
Adriana Arcari
La pronuncia trae le sue origini dalla decisione del Tribunale di Roma confermativa dell'ordinanza con la quale il Gip aveva applicato all'imputato la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in ordine al reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa di cui agli artt. 604-bis, comma 2 c.p. e 604-ter c.p., escludendo tale aggravante.
Nel caso esaminato il ricorrente era ritenuto responsabile di avere messo dei “likes” su alcuni post antisemiti e di averli rilanciati dai propri account social.
Il monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme operanti su facebook, vkontacte e whatsapp, aveva disvelato la creazione di una comunità virtuale Internet, caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l'incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee online fondate sull'antisemitismo, sul negazionismo, sull'affermazione della superiorità della razza bianca nonché sugli incitamenti alla violenza per le medesime ragioni. Risultava, a seguito di attività investigative, che l'imputato, oltre ad incontrare di persona alcuni dei principali esponenti, si era posto ripetutamente in contatto con le piattaforme social della comunità virtuale, attraverso l'uso di account a lui riconducibili, consentendo, con l'inserimento dei likes, il rilancio di post e dei correlati commenti dal contenuto negazionista ed antisemita.
Avverso l'ordinanza del Tribunale, l'imputato proponeva ricorso per Cassazione adducendo due motivi: violazione di legge in relazione all'art. 604-bis c.p. e vizio di motivazione in merito alla ricorrenza della fattispecie delittuosa.
Secondo il ricorrente, il provvedimento non solo non aveva fornito una adeguata analisi alle valutazioni difensive sul carattere lacunoso e scarno del compendio indiziario, ma aveva continuato a valorizzare in chiave accusatoria i contatti fisici fra i presunti aderenti all'organizzazione.
Tali contatti, a dire del ricorrente, erano irrilevanti in riferimento ai reati contestati e l'inserimento di soli tre likes risultava essere costitutivo esclusivamente di una espressione di gradimento.
Pertanto, non erano dimostrativi né dell'appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti.
Tra l’altro, il contenuto dei post ai quali l'imputato aveva inserito il "mi piace" non sfociava né nell'antisemitismo nè travalicava i confini della libera manifestazione del pensiero.
L'imputato lamentava, inoltre, l’assenza di messaggi idonei nonché finalizzati a raccogliere adesione o ad influenzare il comportamento ed il pensiero di un ampio pubblico.
Gli Ermellini hanno giudicato inammissibile il ricorso ritenendo rilevante e significativo il così detto “like” ai fini della valutazione circa la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in materia cautelare.
Secondo la Corte, l’ordinanza impugnata ha correttamente ravvisato gli estremi del reato di cui all’art. 604-bis c.p.; i giudici di legittimità, infatti, ritengono che scrivere un post razzista su un social network e mettere “mi piace” sotto quel contenuto abbiano pressappoco lo stesso effetto: quello di contribuire alla diffusione di un messaggio dal contenuto perseguito dalla legge perché istiga all’odio razziale.
Il Tribunale del riesame ha logicamente desunto l'appartenenza dell'imputato alla comunità virtuale non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle diverse piattaforme social dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, e ha considerato concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento dei social, incentrati sull'utilizzazione di un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i likes.
Pertanto, commette reato di istigazione all’odio razziale, non solo chi scrive un post sui social incitando alla violenza o disprezzando qualcuno per motivi etnici, religiosi o razziali ma anche chi sostiene e amplifica, volontariamente o involontariamente, la diffusione di questi messaggi.
La diffusione dei messaggi dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti; la funzionalità news-feed, ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente, è condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio.
Le interazioni sui messaggi consentono la visibilità ad un vasto numero di utenti che, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto: l'algoritmo utilizzato dai social assegna visibilità maggiore ai post con più commenti o, comunque, contrassegnati da più likes.
La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4534, 9 febbraio 2022, ha, dunque, affrontato un tema che, sebbene ancora poco trattato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità[1], risulta essere molto diffuso e di particolare interesse in riferimento alla valutazione in termini di responsabilità penale di coloro che, non essendo autori di un post sui social, ne mostrano apprezzamento mediante il tasto “mi piace”.
Pertanto, la condotta istigatrice o apologetica, posta in essere attraverso l'uso di strumenti informatici o telematici è caratterizzata da maggiore offensività poiché, così sviluppata, ha potuto raggiungere un numero di destinatari indeterminabile.
[1] In riferimento al reato di apologia inerente ai delitti di terrorismo, (art. 414, comma 4 c.p.), la Corte di Cassazione, ad esempio, ha affermato che integra il reato la condotta di chi condivide su social network (nella specie twitter e whatsapp) links a materiale "jihadista" di propaganda, senza pubblicarli in via autonoma, in quanto, potenziando la diffusione di detto materiale, accresce il pericolo, non solo di emulazione di atti di violenza, ma anche di adesione, in forme aperte e fluide, all'associazione terroristica che li propugna :“Poco importa, ai fini dell'integrazione del reato, che il ricorrente abbia condiviso link a materiale già esistente sulle piattaforme in cui ha pubblicato e non già abbia postato e cioè pubblicato in via autonoma i link medesimi. In ogni caso ha potenziato la diffusione del materiale propagandistico, accrescendo il pericolo che altri potesse non solo emulare atti di violenza, il martirio e l'adesione alla jihad, ma anche solo che potesse aderire, in quelle forme aperte e fluide di cui si è detto, all'associazione terroristica”( Cass. pen., sez. I, n. 51654/2018).
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 9 febbraio 2022, n. 4534)
Stralcio a cura di Ilaria Romano
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