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Autenticazione differita: non integra un illecito purché il legale sia certo dell'identità del sottoscrittore

Lorenzo Candido

 

Con una recente sentenza del 27 aprile 2022 la Suprema Corte si è espressa in merito alla c.d. autenticazione differita della firma dell’assistito da parte del difensore.
Il ricorso innanzi alla Corte di Cassazione trae origine dalla vicenda processuale che vede imputato un avvocato, accusato di aver attestato falsamente l’autenticità della firma del proprio assistito, apposta in calce al mandato difensivo. Il capo d’imputazione, in sostanza, è quello di falso ideologico ex art. 481 c.p.
La Corte di appello di Bari aveva confermato la sentenza di primo grado in relazione agli effetti civili; quanto alla rilevanza penale della condotta, invece, interviene il termine prescrittivo, per cui il collegio dispone di non doversi procedere.
L’imputato ricorre innanzi alla Corte sollevando due motivi d’impugnazione.
Quanto al primo, egli ritiene che, in forza del comma 3 dell’art. 83 c.p.p., onere del difensore sia quello di certificare la proprietà e l’autenticità della firma apposta dal proprio assistito, non sussistendo, dunque, alcun obbligo procedurale in merito all’esigenza che tale firma sia apposta in presenza del difensore, come invece hanno ritenuto i giudici di merito, evidenziando, per tale ragione, la rilevanza penale della condotta dell’imputato.
Altresì, il ricorrente solleva un secondo motivo di gravame, ritenendo sussistente un vizio di motivazione lì dove i giudici di secondo grado, una volta rilevato che l’illecito penale de quo fosse prescritto, non hanno proceduto all’esame dei motivi d’appello, se non esclusivamente ai fini degli effetti civili della condotta.
I giudici della Suprema Corte hanno dichiarato manifestamente infondato il secondo motivo di gravame appena citato ritenendo che «contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte si è puntualmente attenuta ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in merito all'applicazione dell'art. 578 c.p.p., esaminando i motivi d'appello proposti dall'imputato non solo alla luce della regola di giudizio posta dall'art. 129 cit. codice».
Quanto al primo motivo d’impugnazione, invece, la Corte dichiara la parziale fondatezza delle doglianze avanzate dal ricorrente.
In primo luogo, la Corte si esprime lapidariamente in merito alla consistenza del potere certificativo attribuito al professionista, che ha «ad oggetto esclusivamente l'autografia della sottoscrizione e non anche l'apposizione in presenza della medesima».
A seguire, la Corte rivolge la propria attenzione all’operato dei giudici di secondo grado constatando che, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, «la Corte non ha [...] ritenuto integrato il reato perchè l'imputato avrebbe attestato l'apposizione in sua presenza della firma risultata apocrifa, bensì ha tratto dalla incontestata falsità la prova che questa non poteva essere stata apposta in sua presenza e che, pertanto, altrettanto falsamente egli ne ha attestata l'autenticità».
Rebus sic stantibus, il ricorrente, attraverso la condotta de qua, ha posto in essere materialmente un fatto tipico, oggetto di censura da parte dei giudici della Corte di Appello.
Il ricorso risulta fondato, invece, per quanto attiene alla sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito: la Corte di Cassazione, di fatto, ritiene che «con la censura della prassi asseritamente seguita all'interno dello studio del difensore [...] il giudice dell'appello ha sostanzialmente ritenuto assolto il suo onere motivazionale sul punto, considerando in maniera apodittica superflua ogni ulteriore indagine sull'eventuale errore in cui sarebbe incorso l'imputato al momento dell'autenticazione della firma della Lo. circa il fatto che fosse stata la stessa ad apporla realmente». I giudici, dunque, avrebbero dovuto svolgere una più accurata analisi circa l’effettiva sussistenza del dolo dell’imputato nella commissione del fatto, elemento del quale la Corte di Cassazione esclude in ogni caso la sussistenza, anche qualora l’errore del ricorrente fosse stato da ricondurre a negligenza, esplicitando che, anche in tale circostanza, «sarebbe comunque idoneo ad escludere il dolo del reato, anche nella sua forma eventuale».
La Suprema Corte, con lucida aderenza alla voluntas del legislatore penale, ammette che, di fatto, «quella dell'autenticazione "differita" è prassi tutt'altro che inusuale e comunque non illecita [...] fermo restando per l'appunto che il legale nell'esercizio del suo potere attestativo sia certo dell'identità del sottoscrittore».
Nel caso di specie, dunque, non può essere ritenuta integrata la violazione della fattispecie di cui all’art. 481 c.p. stante la provata certezza dell’identità dell’assistita da parte del difensore.
La ratio legis della norma, se applicata al caso concreto, sarebbe da ricondurre alla volontà del legislatore di tutelare quel patto di fiducia fra sottoscrittore e professionista che si instaura al momento dell’attestazione.
Nel caso in esame appare evidente che simile violazione non possa essere ritenuta sussistente per la sola messa in pratica dell’autenticazione c.d. differita della firma, stante, del resto, il duraturo rapporto professionale intercorrente fra il legale e l’assistita.
I giudici della Corte di Cassazione, per tali ragioni, hanno annullato la sentenza impugnata, disponendo il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
È dunque pacifica la regolarità del ricorso all’autenticazione c.d. differita che, nell’esercizio della professione legale, in particolare a seguito dell’avvento della pandemia da covid-19, che ha, come è noto, rideterminato e limitato gli spostamenti da luogo a luogo oltreché le distanze tra gli individui, si è stabilizzata come prassi consolidata.
Appare estremamente attuale ed aderente al presente fattuale, pertanto, la lettura e l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte che, nel rigoroso esercizio della sua funzione nomofilattica, ha fornito al giudice più prospettive di veduta sostanziali, necessarie al fine di applicare correttamente la norma penale.

Argomento: Falso ideologico
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. pen., Sez. V, 27 aprile 2022, n. 16214)

Stralcio a cura di Pamela D’Oria

“Svolgimento del processo1. (…) L'imputato è accusato di aver falsamente attestato, nell'esercizio della professione di avvocato, l'autenticità della firma di (…) apposta in calce al mandato difensivo redatto a margine di un ricorso (…).2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato articolando due motivi. Con il primo (…) rileva come, ai sensi dell'art. 83 c.p.p., comma 3, compito del difensore sia esclusivamente quello di certificare l'autografia della firma apposta in calce al mandato difensivo. (…)Motivi della decisione3. (…) è pacifico che il potere certificativo attribuito all'esercente la professione di avvocato abbia ad oggetto esclusivamente l'autografia della sottoscrizione e non anche l'apposizione in presenza della medesima. (…) [L]a Corte non ha però ritenuto integrato il reato perché l'imputato avrebbe attestato l'apposizione in sua presenza della firma risultata apocrifa, bensì ha tratto dalla incontestata falsità la prova che questa non poteva essere stata apposta in sua presenza e che, pertanto, altrettanto falsamente egli ne ha attestata l'autenticità. (…)Deve quindi ritenersi che il fatto materiale contestato e ritenuto dai giudici di merito sia indiscutibilmente tipico, risultando conseguentemente infondate le doglianze del ricorrente sul punto.Colgono invece nel segno le critiche formulate dal ricorrente con riguardo alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Con la censura della prassi asseritamente seguita all'interno dello studio del difensore - senza peraltro precisare se abbia ritenuto la stessa effettivamente provata - il giudice dell'appello ha sostanzialmente ritenuto assolto il suo onere motivazionale sul punto, considerando in maniera apodittica superflua ogni ulteriore indagine sull'eventuale errore in cui sarebbe incorso l'imputato al momento dell'autenticazione della firma della (…) circa il fatto che fosse stata la stessa ad apporla realmente. Invero quella dell’autenticazione "differita" è prassi tutt'altro che inusuale e comunque non illecita, come già ricordato, fermo restando per l'appunto che il legale nell'esercizio del suo potere attestativo sia certo dell'identità del sottoscrittore. Certezza che, come accennato, la Corte ha apoditticamente escluso, senza spiegare perchè l'imputato non possa averla invece coltivata sulla base di un'erronea convinzione [continua ..]

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