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Sfruttamento del lavoro: per l'integrazione del reato occorre l'approfittamento dello stato di bisogno
Ciro Maria Ruocco
La pronuncia in esame analizza la nota problematica attinente alla necessità della presenza dell’approfittamento dello stato di bisogno ai fini della configurazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p. In particolare, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza del Tribunale delle Libertà di Cosenza, la quale annulla l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Castrovillari che dispone il sequestro preventivo del complesso aziendale di un’impresa individuale.
L'art. 603 bis c.p., nella sua originaria formulazione, puniva chiunque svolgesse "un'attività organizzata di intermediazione, reclutandone manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori". La condotta tipica, dunque, era quella di intermediazione, che poteva essere espletata solo dal caporale; il datore di lavoro, invece, avrebbe potuto concorrere nel delitto ex art. 110 c.p. soltanto nel caso in cui lo sfruttamento del lavoro fosse posto in essere attraverso l’attività di intermediazione. Inoltre, era necessario che l’attività di intermediazione illecita fosse organizzata ed esercitata mediante violenza, minaccia o intimidazione.
Così congegnata, tuttavia, la norma aveva subito nei suoi pochi anni di vigenza una scarsa applicazione, alla quale aveva certamente contribuito, oltre alla mancata incriminazione diretta delle condotte del datore di lavoro, la difficoltà di prova della violenza, minaccia o intimidazione nonché la non agevole delimitazione dei confini rispetto alle ipotesi più gravi tipizzate dall'art. 600 c.p. L'art. 603 bis c.p., nel testo previgente, finiva per assumere, così, una funzione residuale e un ambito di operatività molto ridotto. Con la L. 29 ottobre 2016 n. 199 il legislatore riformulava la fattispecie, ampliandone indubbiamente l’ambito applicativo sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo.
In particolare, si prevedono chiaramente due distinte ipotesi di reato, equiparate sul piano sanzionatorio: al comma 1 n. 1, rimane l'ipotesi di intermediazione illecita, c.d. caporalato, che può essere integrata da parte di chi recluta lavoratori al fine di destinarli allo sfruttamento; al comma 2 n. 2 si reprime invece la condotta propria del datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera, anche, ma non solo, mediante l'attività di intermediazione. L’espletamento della condotta tipica mediante violenza o minaccia costituisce ora circostanza aggravante.
A seguito della riforma, si registra una maggiore operatività in concreto della norma, che trova applicazione non solo nel contesto del caporalato agricolo che ha ispirato l’originaria introduzione, ma anche nel settore industriale e in quello dei servizi, motivo per il quale la Corte ha ritenuto di doversi soffermare sulla peculiare tecnica di incriminazione utilizzata e sugli elementi cardine su cui ruota il disvalore della fattispecie.
L’occasione è colta dalla Suprema Corte per chiarire alcuni rilevanti profili in materia di sfruttamento del lavoro. La Corte di legittimità, dopo avere sottolineato come il Legislatore per facilitare la produzione di prove in sede processuale abbia preferito non definire il concetto di sfruttamento (qualificato dalla dottrina come condizione caratterizzante tanto l’attività di reclutamento quanto quella di impiego della manodopera), afferma che le quattro condizioni di cui al terzo comma dell’art. 603 bis c.p. sono devi semplici indici da cui dedurre la sussistenza del reato in parola.
Le quattro condizioni, inoltre, sono non necessariamente concorrenti, nel senso che, secondo la Corte, ai fini dell’integrazione del reato di sfruttamento del lavoro è sufficiente la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; ovvero la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; ovvero la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; ovvero la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Ovviamente, la presenza di due o più di queste condizioni, sebbene non necessaria per l’esistenza del reato, è indice maggiore di configurabilità della fattispecie.
Sottolinea, inoltre, la Corte come tali indici siano meramente indicativi dello sfruttamento e che essi non siano tassativi, ben potendo il giudice rilevare la condotta di sfruttamento del lavoro da indici diversi da quelli tipizzati, purché si concretizzi la situazione di costrizione a condizioni di lavoro inammissibili. Nella stessa pronuncia si sottolinea la necessarietà della reiterazione delle condotte di sfruttamento. Infatti, è proprio quest’ultimo elemento a distinguere il reato in esame da semplici ipotesi di inadempimento delle obbligazioni del datore di lavoro. A rilevare non è neppure il numero dei lavoratori offesi, poiché ben si può essere in presenza di una pluralità di inadempimenti singoli nei confronti di una molteplicità di soggetti. Invece, a rilevare è segnatamente il dato della reiterazione per cui la condotta è punibile, se reiterata, anche qualora riguardi un singolo lavoratore.
L’ulteriore condizione richiesta dalla norma è quella dello sfruttamento ed approfittamento dello stato di bisogno. Il Tribunale Supremo, continuando, si sofferma anche in questo caso sulla mancanza di definizione legislativa dello stato di bisogno, pure richiesto dalla fattispecie nel senso che lo sfruttamento debba derivare proprio da tale condizione.
In ordine, poi, proprio alla definizione di tale stato, gli Ermellini distinguono dallo “stato di bisogno”, espressione usata altrove dal Legislatore, sia all’interno del codice civile che del codice penale (era ad esempio utilizzata per il reato di usura nella sua formulazione originaria), l’altra espressione “posizione di vulnerabilità” di cui all’art. 600 c.p. Infatti, non è necessario ai fini dell’art. 603 bis c.p. “indagare sulla sussistenza di una posizione di vulnerabilità, da intendersi, secondo le indicazioni sovranazionali, come assenza di un'altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall'accettazione dell'abuso - indagine che, peraltro, anche nella fattispecie di cui all'art. 600 cod.pen. è alternativa rispetto alla verifica di altre e diverse situazioni di debolezza della vittima, specificamente indicate dal legislatore". Lo stato di bisogno, infatti, continua la Corte, non si identifica "con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose".
A seguito di tale premessa la Corte di Cassazione giunge alla conclusione che il reato di sfruttamento del lavoro non è punibile in quanto tale, ma solo qualora ricorra l’approfittamento della situazione di grave inferiorità del lavoratore, sia essa economica o di altro genere. Pertanto, si conclude, non è punibile ex art. 603 bis c.p. la situazione di sfruttamento che non di avvantaggi dello stato di bisogno, sebbene nei fatti ricorrano gli indici di cui al terzo comma della norma.
Ad avviso di chi scrive, è condivisibile la decisione adottata dalla Suprema Corte in quanto tale pronuncia restringe nuovamente l’ambito del penalmente rilevante sanzionando soltanto le condotte avvinte dall’abuso della condizione di bisogno della persona. Sembra, così, perfettamente bilanciata l’esigenza avvertita con la riforma del 2016 n. 199 di ampliare l’ambito oggettivo e soggettivo di incriminazione e di facilitare la produzione probatoria con la contrapposta esigenza di evitare sovrapposizioni normative con l’art. 600 c.p. che, come sottolineato dalla Cassazione, richiede il requisito della posizione di vulnerabilità, ben diverso dallo stato di bisogno.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. IV, 4 marzo 2022, n. 7861)
Stralcio a cura di Ilaria Romano
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