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Caso Vos Thalassa: il naufrago che opponga resistenza necessitata agisce per legittima difesa

Emanuele Vannata 

 

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione interviene in tema di applicazione della scriminante della legittima difesa (art. 52 c.p.) alla condotta illecita posta in essere dal migrante che si opponga alla riconsegna verso un Paese ove sarebbe esposto al concreto pericolo di torture e trattamenti inumani o degradanti, facendo valere il suo diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro.

La Suprema Corte si pronuncia, in particolare, sui ricorsi proposti da Tijani Ibrahim Mirghani Bichara e Amid Ibrahim, avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Palermo il 3 giugno 2020[1], la quale – riformando la sentenza di primo grado – condannava gli imputati per i reati di violenza o minaccia (art. 336 c.p.) e resistenza a pubblico ufficiale (337 c.p.), nonché per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12, D.Lgs. 286/98), per avere in concorso tra loro e con altri, “[usato] violenza e minaccia per opporsi all'equipaggio ed al comandante del rimorchiatore battente bandiera italiana ‘Vos Thalassa’, al fine di costringer[li] al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio”[2].

Dalla ricostruzione dei fatti proposta dalle sentenze di primo e secondo grado, emerge che il rimorchiatore Vos Thalassa, soccorsi in mare 67 migranti di diversa nazionalità, riceveva dalla Guardia Costiera libica la direttiva di dirigersi verso le coste africane e di seguire le indicazioni delle autorità locali.  Sopraffatti dalla tensione e dalla concitazione derivante dal rientro verso il territorio libico, i naufraghi soccorsi richiedevano di invertire la rotta, assumendo condotte violente e minacciose[3] che costringevano il comandante del rimorchiatore a fare ritorno presso il punto di soccorso[4], a richiedere l'intervento delle autorità italiane – onde evitare l'incontro con motovedette libiche e l’aggravarsi della situazione di pericolo creatasi – e, quindi, a dirigersi verso le coste italiane per ricevere i soccorsi dalla nave militare “Diciotti”. In tal modo, gli imputati avrebbero compiuto atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato italiano di un numero imprecisato di migranti clandestini di varie nazionalità, trasbordati, a causa della condotta illecita descritta, sulla nave militare “Diciotti”, che giungeva al porto di Trapani.

Con sentenza resa in data 23 maggio 2019, il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) di Trapani riconosceva la sussistenza della scriminante della legittima difesa di cui all’art. 52 c.p., valutando le condotte ascritte ai due migranti non punibili, sul presupposto che avessero agito per tutelare il proprio diritto a non venire rinviati in Libia, dove sarebbero stati esposti al concreto pericolo di violenze e trattamenti inumani o degradanti. Il GUP, infatti, riteneva che gli imputati “stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro”[5] e che il pericolo derivante dalla riconsegna alle autorità libiche “non era stato volontariamente determinato dai migranti”, trattandosi di un viaggio in mare “parte di un lungo percorso intrapreso per allontanarsi da luoghi per loro pericolosi e non più vivibili”[6].

Di diverso avviso, invece, si mostrava la Corte d’Appello di Palermo, la quale ribaltava la sentenza del giudice di prime cure sulla scorta, inter alia, di una (mal supposta) errata applicazione della legittima difesa nel caso di specie. Ad opinione dei giudici di secondo grado, la situazione di pericolo sarebbe stata volontariamente creata dai migranti avendo essi pianificato una traversata in condizioni pericolose ed avendo chiesto i soccorsi al fine di essere “recuperati” dalle imbarcazioni di salvataggio. Secondo il Collegio d’Appello nel caso di specie non poteva in alcun modo ritenersi applicabile la scriminante della legittima difesa “in quanto le azioni violente e minacciose attuate in danno del marinaio [...], del primo ufficiale [...] e del comandante [...] non [erano] state poste in essere per la necessità di difendere un proprio diritto dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio (per i migranti) di non essere portata a termine a causa dell’adempimento da parte del Vos Thalassa di un ordine impartito da uno stato sovrano che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi”[7]. I giudici di secondo grado non si pronunciavano, invece, sulla esistenza del diritto messo in pericolo (ovvero il diritto al non respingimento), ritenendo la questione assorbita in quella del difetto del presupposto della non volontaria causazione del pericolo.

La Suprema Corte è intervenuta sulla sentenza impugnata cassando in toto il (mancato) ragionamento condotto, rilevando come il Collegio  d’Appello “non abbia sostanzialmente affrontato e risolto nessuno dei temi e dei punti a lei devoluti, su cui il Giudice di primo grado, il Pubblico Ministero impugnante e le parti si erano a lungo impegnati; essendosi limitata a mostrare dubbi e perplessità - in realtà non esplicitati - sia sulla ricostruzione giuridica recepita dal Tribunale, sia su quella portata alla sua cognizione da parte del Pubblico ministero appellante”[8]. Nel riformare la sentenza di assoluzione in primo grado, la valorizzazione del principio per cui la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell'ingiustizia dell'offesa, ma per difetto del requisito della necessità della difesa, non convince la Suprema Corte.

La Cassazione, pur ribadendo l'involontarietà del pericolo quale requisito strutturale anche della legittima difesa[9], stigmatizza il ragionamento dei giudici di secondo grado, “sfornito di ogni evidenza probatoria”[10] circa la causazione volontaria da parte dei migranti del pericolo di naufragio. Più a monte, invero,  l’elemento chiave del reasoning degli Ermellini risulta essere l’erronea sovrapposizione tra il pericolo di naufragio (situazione che, al momento in cui la condotta fu compiuta, aveva cessato di essere attuale per effetto dei soccorsi) e la diversa situazione di pericolo (per evitare la quale gli imputati tennero i contegni aggressivi a loro rimproverati) derivante da un respingimento in un luogo non sicuro (la Libia), con conseguente rischio per le persone di trattamenti inumani, “in relazione al quale, solo, avrebbe dovuto essere verificata la sussistenza della legittima difesa”[11].

Tre sono gli interrogativi che la Cassazione pone nelle sue argomentazioni: a) il respingimento verso la Libia causò una situazione di “pericolo di offesa ingiusta”?; b) i migranti, in particolare, erano titolari di un diritto a non essere respinti verso un Paese in cui sarebbero stati esposti al pericolo di torture e trattamenti inumani o degradanti?; e, infine, c) era legittima la loro reazione?.

Quanto al primo interrogativo, il ragionamento operato dalla Suprema Corte si fonda sull’accertamento che la Libia, all’epoca dei fatti (luglio 2018), non era un luogo sicuro e il respingimento, dunque, non poteva essere disposto ed eseguito, esistendo una situazione di pericolo “nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti”[12], quindi, reale ed attuale di una offesa ingiusta per i diritti fondamentali delle persone coinvolte, derivante da una condotta antigiuridica.

In merito alla titolarità di un diritto al non respingimento, la Corte di Cassazione ricorda che esso trova la sua consacrazione sul piano internazionale all’art. 33 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 ed ha ormai assunto carattere consuetudinario (finanche di jus cogens)[13] – vigente nell'ordinamento interno ai sensi dell'art. 10 Cost. A ciò si aggiunga che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo a partire dal caso Soering c. Regno Unito[14] ha, in maniera continuativa, ritenuto che il respingimento (in qualsiasi forma esso sia attuato) di una persona verso un Paese dove sussista il rischio che essa sia soggetta a tortura o trattamenti inumani o degradanti si colloca nell'ambito di operatività dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU)[15].

Il principio di non-refoulement – ora confluito anche nell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU, oltre che codificato nell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – ha costituito l'oggetto di una progressiva evoluzione che ne ha gradualmente potenziato l'estensione applicativa, soprattutto a seguito della sentenza Hirsi Jamaa e aa. c. Italiadel 2012[16], con cui i giudici di Strasburgo condannarono unanimemente il governo italiano per il modo in cui aveva operato il respingimento di un considerevole numero di profughi verso la Libia, non considerato un “luogo sicuro”[17].

Infine, a proposito della legittimità della reazione, v’è da assumere che, nella costruzione della scriminante di cui all'art. 52 c.p. – ritenuta, perciò, sussistente dalla Suprema Corte – le persone che erano sul rimorchiatore Vos Thalassa “subirono un grado di costrizione elevato rispetto al quale vi era una ‘necessità della condotta”[18], peraltro ritenuta proporzionata[19].  La Corte, nel rammentare che “la reazione lesiva deve essere l'ultima ed unica possibilità per la persona”[20], evidenzia nel caso di specie la non sostituibilità della stessa mediante condotte alternative, tenuto conto che “le persone a bordo, anche se avessero deciso di gettarsi in mare, avrebbero neutralizzato il pericolo che correvano solo con l'annegamento”[21].

Con tali condivisibili motivazioni, la Suprema Corte perviene ad un (inevitabile) annullamento senza rinvio perché i fatti non sussistono, cassando una sentenza “viziata sul piano della motivazione e nell'applicazione della legge penale in ordine ad entrambe le imputazioni, ai temi fondanti relativi alla oggettiva configurabilità dei reati contestati, alla responsabilità degli imputati”[22].

 

[1] Corte di Appello di Palermo, IV Sezione penale, sentenza n. 1525/2020 del 3 giugno 2020.

[2] Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza n. 15869 del 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), par. 1.

[3] Ivi, par. 2.

[4] Il rimorchiatore aveva proceduto al soccorso in area Search and Rescue (SAR) libica, dandone comunicazione al Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) di Roma, che a sua volta aveva interessato la Guardia Costiera libica.

[5] Tribunale di Trapani, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza del 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), p. 65.

[6] Tribunale di Trapani, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza del 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), pp. 66-67.

[7] Corte di Appello di Palermo, IV Sezione penale, sentenza n. 1525/2020 del 3 giugno 2020 (dep. 24 giugno 2020), p. 7.

[8] Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza n. 15869 del 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), par. 5.1.

[9] Espressamente previsto dal codice penale (solo) per lo stato di necessità (art. 54 c.p.), ma oggetto di orientamento ben radicato nella giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 33112 dell’8 ottobre 2020; Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 22040 del 21 febbraio 2020; Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 15090 del 29 novembre 2019; Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 32381 del 19 febbraio 2015; Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 7635 del 16 novembre 2006), sebbene ampiamente criticato dalla dottrina prevalente. Si veda, fra tutti, F. Viganò, Art. 52 c.p., in E. Dolcini, G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, IV ed., 2015, p. 924 ss.

[10] Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza n. 15869 del 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), par. 5.3.

[11] Ibid.

[12] Ivi, par. 7.

[13]Su questo e, più in generale, sul non-refoulement sul piano internazionalistico ed europeo, in dottrina, v. R. Palladino, La tutela dei migranti irregolari e dei richiedenti protezione internazionale (artt. 3, 5, 8 e 13 CEDU; art. 4 Protocollo 4), in A. Di Stasi (a cura di), CEDU e ordinamento italiano. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e l'impatto nell'ordinamento interno (2010-2015), CEDAM, Padova, 2016, pp. 167-203; S. Amadeo, F. Spitaleri (a cura di), Le garanzie fondamentali dell’immigrato in Europa, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015; B. Nascimbene, Lo straniero nel diritto internazionale, Giuffrè Editore, Milano, 2013; J. Allain, The Jus Cogens Nature of Non-refoulement, in International Journal of Refugee Law, Vol. 13, 2001, pp. 533-558.

[14] Corte eur.dir.uomo, Plenaria, sentenza del 7 luglio 1989, ric. n.14038/88, Soering c. Regno Unito. Più recentemente, si veda Corte eur.dir.uomo, Grande Camera, sentenza del 26 febbraio 2008, ric. n. 37201/06, Saadi c. Italia.

[15] V. Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), Note on International Protection, 13 settembre 2001, A/AC.96/951, par. 16.

[16] Corte eur.dir.uomo, Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2012, ric. n. 27765/09, Hirsi Jamaa e aa. c. Italia.

[17] Circostanza, nel caso in commento, confermata al Tribunale, con dovizia di particolari, dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. V. Tribunale di Trapani, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza del 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), pp. 46-65.

Tutto ciò nonostante il Memorandum d'intesa sulla gestione dell'immigrazione tra l’Italia e la Libia del 2 maggio 2017, sul quale ben note sono le riserve espresse dall’ UNHCR, il quale continua a ritenere la Libia Paese terzo (e porto) non sicuro.  V. UNHCR, UNHCR Position on Returns to Libya (Update II), Settembre 2018, parr. 37-40-41-42.

[18] Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza n. 15869 del 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), par. 7.

[19] Ibid. Si veda, anche, Tribunale di Trapani, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza del 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), pp. 67-68.

[20] Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza n. 15869 del 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), par. 7.

[21] Ibid.

[22] Ivi, par. 8.

Argomento: Cause di giustificazione
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. VI, 26 aprile 2022, n. 15869)

Stralcio a cura di Lorenzo Litterio

“5.1. (…) la Corte di appello (…) ha ritenuto non configurabile la causa di giustificazione, di cui all'art. 52 cod. pen.(…). In tale prospettiva, nel riformare la sentenza di assoluzione, la Corte, ha valorizzato il principio per cui "la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa (…) per difetto del requisito della necessità della difesa" (…) sulla base di tale presupposto, i Giudici hanno affermato” (…) Venne dunque posta in essere una condotta da parte dell'organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità (…).5.2. Quello della Corte di appello è un ragionamento (…) che viola l'obbligo di motivazione rafforzata (…) e che non fa corretta applicazione della legge penale. Ciò che rileva nel caso in esame (…) è la diversa situazione di pericolo derivante dal respingimento verso la Libia, per evitare la quale gli imputati tennero i contegni aggressivi a loro rimproverati (…).6.1. Il principio di non respingimento (…) ha trovato compiutezza a seguito della sentenza Hirsi Jamaa e a. c. Italia pronunciata dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo il 23 febbraio 2012. Si è chiarito come (…) trovi riconoscimento nell'art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati, secondo cui «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche» (…). 6.2. In tale quadro di riferimento si è posta la questione relativa (…) ai respingimenti effettuati nel mare internazionale (…). Il 23 febbraio 2012 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo (…) ha ritenuto nella specie violato l'art. 3 della Convenzione (…).6.3. Si pone l'ulteriore tema (…) se, al momento in cui i fatti si verificarono (estate 2018), la Libia continuasse a non essere un "luogo sicuro", con conseguente divieto di respingimento. Occorreva cioè accertare se il quadro di riferimento descritto dalla [continua ..]

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