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Impianti audiovisivi di controllo sui luoghi di lavoro: un bilanciamento fra interessi costituzionali
Maria Strino
L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) è sempre stato al centro di un acceso dibattito interpretativo che, da ultimo, ha mostrato plurimi segnali di rinvigorimento, in considerazione della rinnovata attualità della tematica connessa al cosiddetto controllo a distanza dei lavoratori.
La sentenza in commento rappresenta, per i giudici della Corte di Cassazione, una proficua occasione di riflessione sui “limiti di configurabilità” della fattispecie penalmente rilevante, attraverso il vaglio degli orientamenti sviluppatisi in argomento, anche alla luce dei principi sovranazionali.
La vicenda, da cui origina l’intervento giurisprudenziale in parola, riguarda il titolare di un esercizio commerciale al dettaglio, dichiarato colpevole di aver installato un impianto di videosorveglianza dei propri dipendenti, in assenza delle garanzie previste dalla legge (accordo sindacale o autorizzazione amministrativa).
Sulla scorta delle motivazioni dedotte nel ricorso, la Suprema Corte individua il nodo problematico nell’esatta perimetrazione del reato, allorquando venga in rilievo la tutela del patrimonio aziendale.
Ai fini dell’analisi, è apparsa utile una premessa sul quadro normativo delineatosi nel tempo, dato che la fattispecie incriminatrice, originariamente ricavabile dalla lettura combinata degli articoli 4 e 38 della legge n. 300/1970, scaturisce attualmente dalla previsione dell’articolo 171 del Codice in materia di protezione dei dati personali: “risulta evidente, quindi, che la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge n. 300 del 1970 costituisce illecito penale in forza di quanto dispone l’art. 171 d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo vigente dopo la riforma di cui alla legge n. 101 del 2018, il quale rinvia all’art. 38 della legge n. 300 del 1970 per la individuazione delle sanzioni applicabili”.
Il nucleo di disvalore continua a risiedere, pertanto, nell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, la cui vigente formulazione risente della novella operata dal cosiddetto Jobs Act (decreto legislativo n. 151/2015) e, poi, dal decreto legislativo n. 185/2016. A tal proposito, nonostante il succedersi di interventi normativi, la sentenza in esame considera inalterata la fattispecie penale, posto che “la condotta vietata consisteva e consiste nella installazione degli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e che possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro”.
Siffatta impostazione consente di valorizzare i criteri interpretativi adottati in riferimento alla primigenia versione del citato articolo 4, con la finalità di enucleare gli elementi costitutivi della fattispecie.
Frequentemente, infatti, il fulcro della rilevanza penale è stato esteso anche alla mera “potenzialità del controllo a distanza dei dipendenti”, non ritenendosi necessario accertare il funzionamento o l’effettivo utilizzo delle attrezzature (Cassazione Penale, Sezione III, n. 45198/2016 e n. 4331/2013). “A fondamento di questa conclusione, si è rilevato che la fattispecie in esame costituisce reato di pericolo, essendo diretta a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori”.
Nel caso di specie, tuttavia, il Collegio giudicante ha ampiamente scandagliato i precedenti giurisprudenziali che si sono occupati, a vario titolo, dei controlli difensivi, ricavandone importanti spunti di ragionamento.
È stata sottolineata, così, la necessità “che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)”.
Nella medesima direzione si innesta, altresì, il richiamo all’indirizzo ermeneutico venutosi a consolidare in relazione all’efficacia probatoria, nel processo penale, “dei risultati delle videoriprese effettuate sul luogo di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, in assenza di previo accordo con le rappresentanze sindacali competenti e di previa autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro”. Si è fatto notare, al riguardo, che il presidio di riservatezza approntato, a favore dei lavoratori, dalla legge n. 300 del 1970 non confligge con i controlli datoriali finalizzati alla difesa del patrimonio aziendale e non giustifica, pertanto, “l’esistenza di un divieto probatorio”.
Sul punto, particolare interesse riveste, sotto il profilo argomentativo, la menzione di una relazione direttamente proporzionale, ravvisabile fra la tutela della riservatezza del lavoratore e il rispetto dell’obbligo di fedeltà su quest’ultimo gravante. In altri termini, sembra di potersi desumere che l’apparato protettivo, intessuto dallo Statuto dei lavoratori, non possa spingersi fino a tollerare comportamenti lesivi del patrimonio aziendale.
Tale assetto ermeneutico trova ulteriore conforto all’interno della giurisprudenza civile di legittimità, che esclude dalla sfera applicativa dell’articolo 4 “i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa”.
Una simile statuizione si fonda, invero, su un’interpretazione dell’articolo 4 “ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell’esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), ed il libero esercizio delle attività imprenditoriali (art. 41 Cost.).
Altrettanto significativa appare la congruità di siffatta soluzione interpretativa rispetto ai principi di "ragionevolezza" e "proporzionalità", enucleabili dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Alla stregua del percorso ricostruttivo finora tracciato dalla sentenza in commento, dunque, “deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
Decisiva risulta, allora, l’ampiezza dei limiti posti all’operatività del divieto penale, nel tentativo di armonizzare i valori di libertà che contraddistinguono, a livello costituzionale, sia la sfera dei lavoratori, sia quella dell’attività d’impresa.
Ne consegue, innanzitutto, che, in virtù del dato letterale, la dimensione penalmente rilevante non può avvincere l’installazione di impianti o attrezzature che si traduca in un controllo solo occasionale dell’attività dei lavoratori. Dal punto di vista sistematico, inoltre, “appare persuasiva l’osservazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore – in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con il licenziamento – una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa”.
Gli argini interpretativi appena evidenziati, peraltro, rinvengono il proprio contemperamento nelle garanzie (accordo sindacale o autorizzazione amministrativa) legislativamente contemplate, anche quando sussistano esigenze di tutela del patrimonio aziendale. “Una conferma di questa opzione ermeneutica, ancora, sembra offerta dalla giurisprudenza della Corte EDU. In effetti, i giudici di Strasburgo, pur affermando la possibilità, per gli ordinamenti giuridici nazionali, di prevedere limiti al diritto al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza nell’ambito lavorativo, hanno anche sottolineato l’esigenza di contenere tali limiti nel rispetto del principio di proporzionalità” (Corte EDU, Grande Camera, 05.09.2017, Bărbulescu c. Romania).
Sulla scorta delle predette argomentazioni, nel caso di specie la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, indicando gli accertamenti da effettuare per colmare le lacune motivazionali evidenziate nel ricorso.
Sezione: Sezione Semplice
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