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Notifica alla p.o. della richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari nei delitti commessi con violenza alla persona

Rosaria Mariagrazia Fiorentino 

 

Nella tradizione penalistica dell'Europa continentale per lungo tempo si è affermato il brocardo societas delinquere non potest ritenendosi che soggetto attivo del reato possa essere solo una persona fisica.

Nel nostro ordinamento la non configurabilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche è stata desunta dal principio costituzionale di cui all'art. 27 che, consacrando la natura personale della responsabilità penale, postula un coefficiente di partecipazione psichica in capo all'autore idonea a giustificare una risposta sanzionatoria.

Ma dinanzi al crescente fenomeno di delinquenza societaria sulla scorta di scelte generali di organizzazione o di politica dell'impresa nasce l'esigenza di scelte di criminalizzazione intese a coinvolgere anche la persona giuridica come responsabile della condotta societaria penalmente rilevante.

Nel tentativo di conciliare le esigenze di criminalizzazione con il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale si è giunti alla disciplina dettata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Dopo il richiamo in materia di importanti principi di matrice penalistica come legalità e tassatività, la norma precisa che “l'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso “ (art.5 lett lettera a)  nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso (cd. soggetti in posizione apicale), oltre che da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti appena indicati (cd. sottoposti), salvo che non ricorra una delle cause di esclusione puntualmente delineate all'art.6.

La riforma dei reati tributari introdotta con la legge di conversione del decreto fiscale ha inserito l'articolo 25-quinquiesdecies per cui sono illeciti amministrativi connessi alla commissione dei delitti di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) l'emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8), l'occultamento o la distruzione di documenti contabili (art. 10), la sottrazione fraudolenta al pagamento d'imposte (art. 11) prevedendo le relative comminatorie edittali per la sanzione pecuniaria aggravabili se l'ente ne ha tratto un profitto di rilevante entità e l'applicabilità delle sanzioni interdittive ex articolo 9, comma 2, lett. c), d) ed e), d.lgs. 231/2001.

Tale riforma trova la sua origine nella direttiva 2017/1371 del 5 luglio 2017 nota come direttiva PIF (Protezione Interessi Finanziari) il cui scopo è non solo quello di conformare il nostro ordinamento ai criteri contenuti nella direttiva europea con l'ampliamento di fattispecie di reato dirette a garantire interessi finanziari dell'Unione ma di introdurre all'interno dei sistemi penali degli Stati membri forme di responsabilità giuridica a carico degli Enti con riguardo alle ipotesi di reato più gravi contro il sistema comune dell'IVA, agganciando il concetto di “gravità” al carattere transfrontaliero delle condotte illecite.

Su tale scia si pone la recente sentenza di legittimità nella quale la Corte di Cassazione è stata chiamata a considerare in merito all'applicazione in subiecta materia confermando per la prima volta l'applicazione dell'illecito previsto dagli artt. 5 lett. a), 6 lett. a), 25-quinquiesdecies d.lgs. 8 giugno 2001 n.231 verso una società di capitali i cui amministratori sono stati condannati per il reato di cui all'art.2 d.lgs 10 marzo 2000, n.74.

Nel caso di specie, alla DHL Supply Chain S.p.a. veniva contestato il reato di dichiarazione fraudolenta ai fini IVA perché gli amministratori della medesima avvalendosi di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti e simulando contratti d'appalto invece di contratti di somministrazione di manodopera indicavano elementi passivi fittizi nelle dichiarazioni IVA per un ammontare complessivo pari a circa 20 milioni di euro.

Di qui il sequestro preventivo disposto dal GIP del Tribunale di Milano finalizzato alla confisca dei beni per la commissione di reati tributari da parte degli amministratori reati dai quali la società aveva conseguito un ingente vantaggio patrimoniale.

E il Tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento cautelare reale emesso.

Di qui il ricorso in Cassazione per  violazione di legge dell'interpretazione e dell'applicazione dell'art.2, comma 1 e dell'art.1, comma 1, lett. b), d. lgs. 74/2000; violazione di legge degli artt.1704, 1705 e 2602 ss. c.c., e dell'art.42, comma 2, del "CCNL logistica, trasporto merci e spedizione 2016-2019" del 3 dicembre 2017; violazione o erronea applicazione delle leggi e di altre norme giuridiche necessarie per la corretta qualificazione delle prestazioni fornite alla società e l'illegittimità della ordinanza impugnata per inosservanza o erronea applicazione dell'art.12-bis d.lgs. 74/2000.

La Suprema Corte, ritenendo tra loro strettamente collegati i quattro i motivi, li esamina congiuntamente e preliminarmente ritiene che l'iter utilizzato dal Tribunale cautelare per giungere alla censurata decisione sia del tutto “esemplare per tecnica espositiva, per impostazione sistematica delle questioni risolte e per il conseguente contenuto della pronuncia, avendo i giudici della cautela affrontato funditus tutte le doglianze sottoposte al loro vaglio mediante la precisa e diffusa indicazione delle ragioni per le quali hanno ritenuto di confermare il decreto di sequestro impugnato” avendo tenuto conto di tutte le  dichiarazioni annuali IVA presentate,esiti delle intercettazioni attivate, documentazioni contabili ed extra.

Di fatto risultava una “simulazione del contratto di appalto stipulato con una società terza e la sua strumentalità a realizzare una intermediazione di manodopera, in considerazione della simulazione a cascata dei subappalti correlativi e la loro riconduzione ad una somministrazione di manodopera da parte delle cooperative finali”.

Una strategia di "serbatoi di manodopera" funzionale a esigenze gestionali del "sistema" che aveva creato un fumus criminis.

Il giudice di legittimità rinviando ad alcune sue pronunce ha, inoltre, sostenuto “come nell'interposizione di manodopera, se vi è illiceità dell'oggetto e se la natura del contratto tra committente e datore di lavoro terzo è fittizia, il committente, non solo non potrà detrarre l'Iva, ma avrà anche l'obbligo di eseguire degli adempimenti fiscali in qualità di sostituto d'imposta. Nel pervenire a tali conclusioni, è stato affermato che, in tema di divieto d'intermediazione di manodopera, in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalto di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile una prestazione dell'appaltatore imponibile ai fini Iva”.

In più “non si è mai dubitato che l'indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anziché relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, non incide sulla configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta previsto dall'art. 2 del D. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale, nel riferirsi all'uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo (Sez. 3, n. 4236 del 18/10/2018, dep. 2019, Di Napoli, Rv. 27569201; Sez. 3, n. 30874 del 02/03/2018, Hugony; Rv. 273728), con la conseguenza che il delitto di frode fiscale ex art. 2 D. lgs. n. 74 del 2000 è astrattamente configurabile nel caso di intermediazione illegale di manodopera, stante la diversità tra il soggetto emittente la fattura e quello che ha fornito la prestazione. Da ciò discende pure la configurabilità del concorso di reati fra la contravvenzione di intermediazione illegale di mano d'opera (art. 18 D. lgs. n. 276 del 2003) ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera”.

E sul tema dell'indetraibilità dell'Iva, come è stato reiteratamente precisato dalla Sezione tributaria “se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura è esplicita nel senso di imporre il versamento dell'imposta, ma di precluderne la detrazione”.

Pertanto, il diritto alla detrazione dell'IVA non può  prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in particolare dalla fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa.

In particolare, secondo il Supremo Collegio il beneficio è stato conseguito avendo “il committente, attraverso un appalto non genuino, azionato il diritto alla detrazione dell'Iva dopo aver articolato un meccanismo in forza del quale, attraverso il pagamento di fatture per “finti” appalti di opere e servizi, ha “scaricato” l'Iva da un consorzio che, a sua volta, ha “scaricato” il tributo dalle cooperative consorziate che l'avrebbero dovuto versare allo Stato ed invece, dopo qualche anno, hanno cessato l'attività, rimanendo in debito verso l'erario, che è risultato impedito nel recupero dell’imposta, con conseguente accollo dell'evasione fiscale alla collettività”.

Tale vantaggio ha fatto ritenere sussistenti “tutti i presupposti fattuali e giuridici della ipotizzata responsabilità della società ricorrente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-quinquiesdecies risultando infondato il primo motivo di ricorso e manifestamente infondati o non consentiti gli altri.”

Argomento: Notifica
Sezione: Sezioni Unite
Cass. Pen., SS.UU., 3 maggio 2022, n. 17156
 
Stralcio a cura di Giovanni de Bernardo
“1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite sono formulate nei seguenti termini: «Se, nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari di cui all'art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. debba essere notificata, a cura della parte richiedente, alla persona offesa anche in mancanza di dichiarazione ed elezione di domicilio». «Se, ai fini dell'obbligo della notificazione suddetta, sia richiesta o meno l'esistenza di un pregresso rapporto tra autore del reato e vittima o la sussistenza di un concreto pericolo di recidiva specificamente riferita a quest'ultima e se, quindi, in caso di reato di omicidio, per persone offese, cui deve essere effettuata la notifica, possano intendersi anche gli eredi della vittima». (…) 4. Le questioni devolute attengono sostanzialmente all'ambito applicativo del vigente art. 299, comma 4-bis, secondo periodo, cod. proc. pen., aggiunto, unitamente al secondo periodo del precedente comma 3, dall'art. 2 d.l. 14 agosto 2013, n. 93, (…). (…) 7. (…) Con riguardo alla prima questione si contrappongono, come segnalato con l'ordinanza di rimessione, distinti orientamenti della giurisprudenza di legittimità̀. 7.1. Un primo orientamento "estensivo" procede da una prospettiva di ampia tutela delle facoltà della vittima del reato in rimarcata coerenza con la Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, che persegue la finalità di «garantire che le vittime di reato ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali» e prevede che «Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria, in tutti i contatti con servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa o con un’autorità competente operante nell'ambito di un procedimento penale [...]» (art. 1). (…) 7.2. Nell'ambito di questo orientamento si sostiene anche l'opzione ermeneutica che, procedendo dal criterio della "esigibilità" dell'adempimento dell'obbligo a carico dell'istante, ritiene necessaria la compiuta ed effettiva identificabilità della persona offesa sulla base dei dati ricavabili dagli atti presenti [continua ..]

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