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Diffamazione a mezzo social e diritto di critica: la cassazione sul requisito della continenza
Martina Nicolino
In primo grado, i coniugi C.F. e C.d.P. venivano riconosciuti dal Tribunale di Lucca colpevoli del reato di diffamazione, a ciascuno rispettivamente attribuito, commesso a mezzo di pubblicazione sulla bacheca di Facebook di commenti offensivi dell’onore e della reputazione di L.P.
Veniva presentato gravame dai coniugi condannati presso la Corte di Appello di Firenze che, tuttavia, confermava la sentenza di condanna di primo grado.
Proponevano, dunque, ricorso per Cassazione entrambi gli imputati, sulla base di n.2 motivi.
Con il primo motivo lamentavano violazione degli artt. 599 e 59 c.p. e correlato vizio di motivazione, mancante e contraddittoria, con riferimento alla valutazione della causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p., questo perché la Corte avrebbe negato la sussistenza dei presupposti di fatto della provocazione.
Secondo la difesa, l’origine dello stato d’ira sarebbe stata ricondotta (erroneamente) secondo la difesa nel fatto che la persona offesa, ciclista professionista appartenente al team del C.F. non avesse partecipato alla gara del “Giro degli Appennini”, giustificando lo stato di impossibilità con certificazione medica.
Quest’ultima ovvero l’ira degli imputati o, comunque, l’errore percettivo circa il fatto ingiusto altrui (599 c.p.) sussisterebbe, invece, per i ricorrenti, in un insieme di comportamenti “sleali” dell’atleta, sia sul piano umano che sportivo, come risultati dalla prova dichiarativa non valutata però dal giudice di merito.
Con il secondo motivo denunziavano l’errata valutazione della scriminante del diritto di critica, di cui agli artt. 51 e 59 c.p., attenzionando il fatto che le parole incriminate erano state pronunciate entro il limite della continenza.
Con requisitoria scritta del 27.12.2020 il P.G. presso la Corte di Cassazione, P.F., concludeva per l’inammissibilità del ricorso.
La Corte di Cassazione riteneva i ricorsi non fondati con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
In particolare, rispetto al primo motivo, gli Ermellini rilevano come il Giudice di prime cure si sia attenuto “al condiviso orientamento di legittimità secondo cui il comportamento provocatorio, costituente il fatto ingiusto, che causa lo stato di ira e la reazione diffamatoria dell'offensore, anche quando non integrante gli estremi di un illecito codificato, deve comunque potersi ritenere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l'agente. Non è dunque sufficiente che questi si sia sentito provocato, ma è necessario che egli sia stato oggettivamente provocato[1]”.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno assunto in maniera oltremodo generica che la reazione diffamatoria fosse stata una diretta conseguenza di molteplici atteggiamenti professionalmente scorretti, laddove, è certo, a contrario, che il giorno di cui si discute, il giovane ciclista fosse effettivamente ammalato, tanto da ricorrere alle cure di un Ospedale: proprio dalle fonti di prova dichiarative si ricava, infatti, che l’L.P. “fu effettivamente ricoverato e sottoposto a cure ospedaliere, come da certificazione rilasciata e acquisita in atti, in quanto affetto da una severa infezione in corso, e che, pertanto, alcun bluff era stato messo in pratica per evitare di partecipare alla gara ciclistica in Italia”. Insomma, secondo la Suprema Corte, “si tratta di allegazioni a sostegno di una provocazione solo soggettivamente ritenuta, in mancanza di un comportamento univocamente valutabile come violazione di una regola della civile convivenza e, quindi, del tutto inidonee a costituire una valida piattaforma su cui fondare la valutazione della condotta degli imputati in termini di reazione giustificabile ai sensi dell'art. 599 c.p. Correttamente, dunque, il giudici di merito hanno escluso l'attenuante di cui all'art. 599 cod. pen., non prospettabile neppure in forma putativa, non ravvisandosi, nella stessa prospettazione, fatti capaci di fondare la ragionevole, anche se erronea, opinione dell'illiceità del fatto altrui; l'errore, infatti, in tali casi, deve essere plausibile, ragionevole e logicamente apprezzabile[2].”
In ordine al secondo motivo, in ordine al diritto di critica e alla sua applicazione come scriminante, ai sensi dell’art. 51 c.p., rispetto al reato di diffamazione, la Corte osserva: “Il diritto di critica, rappresentando l'esternazione di un'opinione relativamente a una condotta ovvero a un'affermazione altrui, si inserisce nell'ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 della Carta costituzionale e dall'art. 10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminate, ai sensi dell'art. 51 cod. pen., rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva”.
Proprio in merito a questo ultimo aspetta, ovvero il concetto di continenza, la Corte si sofferma, delineando, approfonditamente, la cornice entro cui essa possa dirsi rispettata.
Preliminarmente, la continenza concerne un aspetto sostanziale e un profilo formale: “La continenza sostanziale, o "materiale", attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all'interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione dell'informazione in funzione del tipo di resoconto e dell'utilità/bisogno sociale di esso. La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una forma espositiva proporzionata, "corretta" in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere”. Peraltro, in linea generale, la Corte ritiene che essa non sia astrattamente incompatibile con l'uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti.
In realtà, in ottemperanza al “consolidato canone ermeneutico” della Corte, “al fine di valutare il rispetto del criterio della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto (...) e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione, proporzionati al fatto narrato e funzionali al concetto da esprimere[3]”. Tuttavia, precisa la Corte, “il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta (...) non può mai scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale[4]”.
Rispetto alla situazione in esame, il Collegio ha ritenuto sussistente, nelle parole incriminate quali “uomo di merda”, “briaco in bicicletta”, “suonato”, espressioni che, lungi dal rappresentare una consentita critica all’operato professionale dell’atleta, “possono valere - oggettivamente e con i connotati del dolo di chi le scrive - a ledere la reputazione e quindi la considerazione sociale del soggetto passivo. In quanto dirette alla persona, piuttosto che al comportamento del professionista, e idonee a esporre allo scherno e al ludibrio pubblico il destinatario, siffatte parole si risolvono in un gratuito argumentum ad hominem, che la giurisprudenza di questa Corte, richiamandosi a quella costituzionale ed europea, considera, infatti, condotta non consentita dal diritto di critica[5], in quanto, piuttosto che esprimere un dissenso motivato, manifestato in termini misurati e necessari[6], è diretta a screditare l'avversario mediante la evocazione di una sua presunta indegnità o inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni[7]”.
Secondo gli Ermellini, sarebbe potuta riconoscersi una condotta scriminabile ex art. 51 c.p. alla condotta dei due odierni imputati laddove essi, “piuttosto che dare sfogo a pulsioni soggettive su una virtuale “pubblica piazza” (bacheca di Facebook), avessero inoltrato, al fine di far emergere l'eventuale violazione di regole deontologiche da parte dell'atleta, una missiva, un esposto, una segnalazione alle autorità sportive competenti, (...) che sono i soggetti istituzionalmente preposti a raccogliere le eventuali lamentele sull'operato di uno sportivo professionista”.
La Suprema Corte, conclude, affermando che “ai fini del riconoscimento dell'esimente prevista dall'art. 51 cod. pen., qualora le frasi diffamatorie siano formulate a mezzo social network, il giudice, nell'apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi sempre superati quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al pubblico disprezzo”.
[1] Sez. 5, n. 25421 del 18/03/2014, Rv. 259882 ; Sez. 5, n. 21133 del 09/03/2018 Rv. 273131 - 01
[2] Sez. 5, n. 13942 del 16/10/1986, Rv. 174568; Sez. 5, n. 37950 del 20/06/2017, Rv. 270789
[3] Sez. 5 n. 32027 del 23/03/2018, Rv. 273573
[4] Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866
[5] Ex multis, Sez. 5, n. 3477 del 8/02/2000, Rv. 215577; Sez. 5 n. 38448 del 26/10/2001, Rv. 219998; Sez. 5, sent. n. 10135 del 12/03/2002, Rv. 221684; Sez. 5, n. 13264 del 2005; Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, Rv. 249239
[6] Sez. 5, n. 35992 del 05/06/2013, Bosco, Rv, 256532; Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010 - dep. 07/03/2011, Morelli e altri, Rv. 250218
[7] Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, P.M. in proc. Simeone e altri, Rv. 249239; Sez. 5, n. 38448 del 25/09/2001, Uccellobruno, Rv. 219998
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