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Impiego di minori nell´accattonaggio: la connotazione culturale della pratica non decriminalizza la condotta
nota di Lorenzo Litterio
La Suprema Corte nella sentenza in commento conferma le decisioni di merito che riconoscevano l’imputato colpevole del reato di cui all’art. 600 octies c.p. L’istruttoria dibattimentale accertava come questi, di etnia rom, si fosse servito di una bambina ai fini di accattonaggio. La minore infatti era stata vista dagli operanti di P.G. chiedere l’elemosina sotto la pioggia battente e consegnare il denaro all’uomo.
I Giudici di legittimità, nel respingere le doglianze difensive avverso la sentenza di secondo grado, si occupano di tre questioni. Se il rigetto del terzo motivo di ricorso relativo alla mancata applicazione della particolare tenuità del fatto in riferimento unicamente al “disvalore sociale della condotta” appare ispirato a criteri di ragionevolezza, così non sembra per il secondo. Qui la difesa sollecitava l’applicazione dello stato di necessità (art. 54 c.p.). Non convince del tutto infatti l’apodittica risposta della Suprema Corte sul punto allorquando, al fine di escludere l’attualità e l’inevitabilità del pericolo di un grave danno alla persona, suggerisce come sempre percorribile – in luogo della commissione del reato - la possibilità per chi versi in condizioni di indigenza di rivolgersi ad istituti di assistenza sociale.
Tema centrale è tuttavia quello del rilievo penalistico della condotta “culturale” del reo. Nel primo motivo di ricorso infatti la difesa sosteneva come la condotta in questione andasse decriminalizzata in quanto l’imputato aveva agito seguendo le tradizioni culturali di appartenenza. Vengono in rilievo pertanto i cosiddetti reati culturalmente motivati.
In una società sempre più multietnica, tale tipologia di reati rappresenta un fenomeno di stretta attualità nelle Aule di Giustizia e nei dibattiti dottrinali. Accade spesso infatti che un soggetto appartenente ad un gruppo minoritario vìoli una norma penale dell’ordinamento di accoglienza attuando invero una condotta consentita o persino imposta nel contesto di provenienza. Come è stato osservato, oltre a causare ripercussioni sulla struttura del reato, ciò conduce ad una inevitabile crisi dell’”unità del soggetto di diritto” secondo cui tutti i destinatari delle norme penali hanno stessi diritti ed obblighi e pertanto la stessa posizione dinanzi alla Legge. In letteratura si individua solitamente un numero chiuso di tale categoria di reati.
Si evidenziano generalmente due politiche criminali contrapposte. Da un lato il modello “assimilazionista” volto a non valorizzare le differenze culturali, ponendosi lo Stato in atteggiamento di formale neutralità verso di esse; dall’altro quello “multiculturalista”, ispirato a principi di uguaglianza sostanziale, volto a tollerare tali condotte. Il primo conduce, stante l’irrilevanza del fattore culturale nella valutazione del fatto, ad un trattamento sanzionatorio non garantista, se non addirittura discriminatorio. Il secondo, invece, determina scelte politico-criminali non ostili nei confronti della differenza culturale, anche prevedendo per le minoranze specifiche norme di esenzione dalle conseguenze penali in riferimento a reati bagatellari.
Se taluni Autori ritengono che l’ordinamento italiano si accosti al modello assimilazionista, con elementi della versione c.d. discriminatoria, vi è chi lo pone in bilico tra i due. Da ciò deriva una giurisprudenza il più delle volte ancorata ai principi assimilazionisti, pur con una graduale apertura negli ultimi anni al fattore culturale. Non è così in ordinamenti quali quello inglese e statunitense, da sempre a contatto con il fenomeno migratorio. In questi Paesi, infatti, oltre alla previsione spesso di sistemi penali sostanziali e processuali specifici in relazione a siffatti reati, viene in rilievo la c.d. cultural evidence, cioè l’insieme di prove sulla cultura d’origine dell’imputato.
Ciò posto, la sentenza difende il convincimento dei giudici di merito sulla base di due argomenti. In primo luogo, si sostiene che “per l’integrazione del reato contestato non è richiesto che il minore sia sottoposto a “sofferenze e/o mortificazioni”, come risulta chiaramente dal tenore della norma incriminatrice, che punisce, "salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici e, comunque, non imputabile".
Inoltre, viene enucleato il limite di tolleranza della matrice culturale di una condotta. La Suprema Corte infatti afferma che “i "valori" della cultura rom non rilevano quando - come nel caso di specie - contrastino con i beni fondamentali riconosciuti dall'ordinamento costituzionale, quali il rispetto dei diritti umani e la tutela dei minori”.
In ogni caso, a prescindere da tale confine invalicabile, bisogna osservare come la dottrina sia generalmente propensa a considerare il fattore culturale quale elemento di decriminalizzazione della condotta. Sembra quasi che l’approccio sociologico al fenomeno possa precedere, se non addirittura sostituire, la riflessione giuridica. Ciò, come è evidente, presenta i suoi limiti. Ci si riferisce in particolare all’ipotesi de iure condendo di creare una speciale causa di non punibilità “culturale”. Non può sfuggire infatti come tale istituto non possa prefigurare ogni possibile condotta né sarebbe possibile una formulazione generica.
Sotto il profilo giurisdizionale, inoltre, se è vero che la tolleranza favorisce la deterrenza dei conflitti sociali tra le minoranze e i gruppi dominanti, non si può richiedere al Giudice di giustificare tout court – operando pericolose scelte discrezionali - la condotta culturale in forza di una sua presunta funzione di pacificazione delle tensioni sociali. Funzione questa – è utile sottolinearlo - che gli è del tutto estranea.
Più semplicemente invece sarà opportuno per il Giudice, fermo il limite invalicabile dei diritti fondamentali espressi nella Carta Fondamentale e nella più generale cornice della CEDU, attenersi alle regole di diritto sostanziale già esistenti. Il fattore culturale quindi potrà essere valorizzato analizzando le sfumature del dolo ed ogni circostanza del reato (incluse quelle ex art. 62 bis c.p.) e, ai fini del trattamento sanzionatorio, i criteri dell’art. 133 c.p. con particolare riguardo alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 1 marzo 2022, n. 7140)
Stralcio a cura di Lorenzo Litterio
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