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HIV: il nesso di causalità al vaglio della Cassazione, quando la vittima sia indotta a rifiutare le terapie antiretrovirali
Giorgia Fucito
Con la sentenza in commento, i giudici della I Sezione penale della Corte di Cassazione hanno affermato un importante principio di diritto nell’ambito della responsabilità penale da contagio per HIV, aggiungendo un ulteriore tassello al dibattuto tema relativo al rapporto di causalità tra condotta ed evento.
Più precisamente, la Suprema Corte è stata chiamata a chiarire se il rifiuto della vittima, contagiata dal virus HIV, di sottoporsi alle terapie salvavita, perché indotta dal partner, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta dell’agente, che trasmette l’infezione, e l’evento morte della persona offesa, ai sensi dell’art. 41, cpv., c.p.
La vicenda da cui origina la pronuncia in esame vedeva come imputato un uomo affetto da HIV che, consapevole del suo stato di sieropositività, aveva intrattenuto diversi rapporti sessuali con l’allora compagna, senza renderla edotta circa la propria contagiosità, e senza adottare alcuna protezione.
In tal modo, infettava la donna, e ne cagionava il decesso, intervenuto per complicazioni infettive di un linfoma non Hodgkin B a grandi cellule, patologia oncologica AIDS definente, riferibile all’immunodepressione determinata dall’infezione contratta e non trattata. Infatti, la vittima, anche su induzione dell’imputato, aveva deciso di non sottoporsi alle terapie antiretrovirali, facilitando il decorso della malattia.
L’imputato, condannato dalla sentenza di appello per omicidio volontario, proponeva ricorso per Cassazione, adducendo che la decisione della vittima di non seguire la profilassi consigliata dai sanitari costituisse causa sopravvenuta idonea ad interrompere il nesso di causalità, ai sensi dell’art. 41, co. 2, c.p., tra la condotta dell’agente e la morte della vittima.
Prima di affrontare la specifica questione sollevata dalla difesa, il Collegio evidenzia come il capo di imputazione relativo all’omicidio volontario contempli due distinte condotte. Infatti, veniva contestato al prevenuto, da un lato, il fatto di aver consumato rapporti sessuali non protetti con l’allora compagna, tacendo sul proprio stato di salute e, dall’altro, quello di averla indotta a non sottoporsi alle cure per l’infezione contratta, così facilitando la comparsa di una patologia oncologica AIDS definente ed il suo sviluppo fino all’esito letale.
La prima, precisa la Corte, è una condotta istantanea, che si consuma in un momento determinato. Al contrario, l’induzione a rifiutare le terapie salvavita è un comportamento permanente protrattosi, secondo la ricostruzione accolta dai giudici del merito, per diversi anni.
Pertanto, le due condotte non possono essere ritenute equivalenti e concorrenti, sotto un profilo causale, nella produzione dell’evento nefasto.
Invero, lo stesso capo di imputazione riconduce la morte della vittima ai rapporti sessuali non protetti, mentre descrive l’ulteriore condotta induttiva dell’imputato senza riferirla causalmente all’evento letale[1].
Tale impostazione viene condivisa dai giudici di legittimità, i quali chiariscono che l’infezione da HIV, inguaribile e potenzialmente letale se non trattata, conseguì ai rapporti sessuali non protetti; la morte [della vittima] fu, quindi, conseguenza di tali rapporti sessuali che produssero l’infezione che, a sua volta, determinò l’insorgere di una patologia AIDS definente, risultata letale.
Dopo aver accertato, attraverso il c.d. procedimento di eliminazione mentale, che i rapporti sessuali furono condicio sine qua non della morte della vittima, il Collegio ritiene che le circostanze intervenute in seguito al contagio possano assumere rilevanza solo nel caso in cui abbiano integrato cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento ex art. 41, co. 2, c.p.
Appare allora evidente come la questione sollevata dalla difesa, relativa al rifiuto delle terapie salvavita da parte della donna, debba essere analizzata in tale prospettiva.
Al riguardo, nel contestare l’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dell’imputato e la morte della vittima, il ricorrente valorizza la libera determinazione della donna nelle proprie scelte terapeutiche; scelte, queste, che avrebbero integrato un contributo causale autonomo da solo sufficiente a determinare l’evento.
Sul punto, occorre precisare che la Corte territoriale aveva ritenuto che il condizionamento esercitato dall’imputato nei confronti della donna avesse integrato, non una forma di costrizione – come invece sostenuto dal giudice di primo grado –, bensì una mera induzione.
In merito, il Collegio chiarisce che la distinzione tra i due concetti non risulta affatto secondaria. Invero, nella costrizione, le pressioni esercitate dall’agente si caratterizzano per privare il soggetto passivo della propria libertà di autodeterminazione, tanto da rendere inefficaci le sue manifestazioni di volontà.
Al contrario, l’induzione presuppone forme di insistenza meno pregnanti, tali cioè da lasciare un margine di scelta al destinatario della pretesa.
Tanto premesso, sussistendo nel caso di specie un mero condizionamento del paziente da parte del terzo, la Corte ritiene ineludibile la questione relativa all’interruzione del nesso eziologico tra condotta e decesso conseguente al rifiuto delle cure salvavita da parte della donna.
Preliminarmente, occorre evidenziare come la questione relativa all’interpretazione dell’art. 41, cpv., c.p. rappresenti uno degli argomenti più discussi della causalità penale.
La formulazione letterale della norma citata, nello stabilire che le cause sopravvenute sufficienti a produrre l’evento escludono il rapporto di causalità, sembra riferirsi ad una serie causale del tutto autonoma rispetto alla precedente azione del soggetto agente.
Tuttavia, una simile lettura finisce per ridurre la disposizione in esame ad un mero duplicato di quanto già desumibile dall’applicazione del principio condizionalistico recepito dall’art. 40, co. 1, c.p.
Per tale ragione, l’orientamento attualmente dominante, in ossequio al principio di conservazione delle norme, ritiene che l’art. 41, cpv., c.p., rappresenti un correttivo alla teoria della condicio sine qua non, diretto a scongiurare l’eccessiva dilatazione dell’area di punibilità che deriverebbe da una sua rigida applicazione.
Più in particolare, come precisa anche la sentenza in commento, la giurisprudenza di legittimità è ormai sufficientemente consolidata nel ritenere che la disposizione in esame si riferisca non solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, ma anche a quello di un processo non completamente avulso dall’antecedente, ma caratterizzato da un percorso completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.
Il Collegio, nel ripercorrere gli approdi raggiunti dalla giurisprudenza sull’art. 41, cpv., c.p., rammenta alcuni recenti arresti della Suprema Corte in cui i giudici hanno affermato che la volontaria e consapevole autoesposizione della vittima al pericolo, quando l’agente non possa influire su tale decisione, rappresenti un fattore autonomo e determinante dell’evento[2].
Implicitamente, la Corte sembra escludere l’applicabilità di una simile soluzione al caso di specie, tenuto conto del fatto che tale prospettiva presuppone una decisione della vittima libera e scevra da condizionamenti, che impedisce di imputare ad un individuo le conseguenze di un gesto assunto da un terzo in piena coscienza e volontà e sul quale non si può influire[3].
Pertanto, la Corte si interroga sulla possibilità di ricondurre, ai fini dell’art. 41, co. 2, c.p., il rifiuto della donna di sottoporsi alle cure salvavita all’ipotesi di un fattore sopravvenuto che, inserendosi nella serie causale attivata dalla condotta dell’agente, ne determini uno sviluppo atipico ed eccezionale.
Al riguardo, i giudici di legittimità ritengono che, nel caso di specie, manchi proprio il carattere dell’eccezionalità.
Invero, sebbene possa apparire anomala la decisione del soggetto, affetto da una malattia incurabile, di non seguire le terapie prescritte dai sanitari per impedire la degenerazione della patologia sino all’esito mortale, tale valutazione di eccezionalità non avrebbe, secondo la Corte, natura giuridica.
Ciò in quanto il diritto del paziente di rifiutare le terapie, anche quelle salvavita, trova attualmente positivo riconoscimento nella L. 219/2017, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
Infatti, l’art. 1, co. 5, della citata legge, dopo aver sancito che ogni persona capace di agire può rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia, estende espressamente la validità di un simile rifiuto anche al caso in cui i trattamenti sanitari proposti al paziente risultino indispensabili per la sua sopravvivenza.
In altri termini, alla luce del quadro normativo di riferimento, la Corte esclude che il rifiuto del paziente di seguire terapie salvavita possa essere considerato una scelta anomala ed eccezionale.
Al contrario, sulla base della legislazione vigente, tale decisione rappresenta uno dei possibili esiti ordinari della proposta di una terapia conseguente all’insorgere di una patologia potenzialmente letale.
In definitiva, la sentenza esaminata, pur collocandosi nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, se ne discosta laddove, ai fini dell’art. 41, co. 2, c.p., esclude l’eccezionalità del fattore sopravvenuto riferendosi, non già all’id quod plerumque accidit, bensì ad una “possibilità giuridica”, ovverosia ad un concetto di possibilità desunto dalla previsione normativa che legittima il rifiuto di curarsi.
[1] “inducendola altresì a non sottoporsi ad alcun tipo di cura per l’infezione contratta”.
[2] Cfr. ex multis, Cass., IV Sez. pen., n. 5898/2019.
[3] Così Cass., IV Sez. pen., n. 36920/2014.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 14 aprile 2022, n. 14560)
Stralcio a cura di Ilaria Romano
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