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Abuso d´ufficio riformato: chiarimenti della Cassazione in ordine ai margini di discrezionalità

Antonio Verderosa 

 

Con la sentenza n. 8057 del 1.03.2021, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione penale analizza il reato di abuso di ufficio ex art. 323 c.p. alla luce delle recenti modifiche normative che hanno interessato la fattispecie incriminatrice.

La decisione origina dal ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari, confermativa della pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Nuoro nei confronti di F.A., il quale, nella veste di responsabile di polizia municipale, affidava ad una società determinata il servizio di misurazione elettronica della velocità delle autovetture lungo una strada statale utilizzando la procedura di affidamento diretto e senza una preventiva determinazione della giunta comunale in tal senso.

Nella scelta della procedura da seguire per l’affidamento del servizio, tuttavia, l’imputato ometteva di indicare dei costi che, unitamente a quelli già calcolati, avrebbero reso necessario un bando di gara. L’abuso d’ufficio da parte dell’imputato, dunque, si sostanziava nell’aver procurato, con la scelta della procedura diretta, un ingiusto vantaggio patrimoniale alla società vincitrice dell’appalto, nonché un danno per l’Amministrazione comunale.

Il decisum della Suprema Corte ha il pregio non solo di richiamare e ribadire i propri orientamenti di legittimità in materia di abuso di ufficio, ma soprattutto di dare delucidazioni sulla portata applicativa della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 323 c.p. così come novellata dal D.L. n. 76 del 16.07.2020, convertito con L. n. 120 dell’11.09.2020.

Infatti, tenuto conto che la modifica normativa ha comportato la sostituzione della parole “di norme di legge o di regolamento”, riportate nella disposizione penale, con l’espressione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, i giudici di legittimità chiariscono quali siano ed in cosa consistano gli elementi di novità del novellato delitto, ridefinendo i confini tra le condotte lecite e l’area del penalmente rilevante.

In particolare, gli Ermellini danno atto che la norma in argomento è stata interessata da una parziale abolitio criminis, dal momento che, a seguito della modifica, la condotta penalmente rilevante è solo quella violativa di regole determinate, precise, dettate da fonti primarie (con esclusione dei regolamenti o comunque di qualsiasi fonte subprimaria), che in ogni caso non  presuppongano l’esercizio di un potere, sia pur in minima parte, discrezionale.

Dato questo quadro normativo di riferimento, l’innovatività della pronuncia è da rinvenirsi nell’operazione interpretativa posta in essere dalla Suprema Corte da cui è scaturita la riespansione dell’ambito applicativo della norma penale. Infatti, a giudizio della Corte, nel caso in specie, la specifica regola richiesta dal riformato abuso d’ufficio per configurare il reato va individuata nell’art. 125 del D. Lgs. n. 163/2006 (vigente al momento del fatto), che prevedeva criteri tecnici vincolanti per la stazione appaltante nella scelta del modus di individuazione del soggetto cui affidare l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture.

Proseguendo nella motivazione, gli Ermellini non ritengono neanche rilevante che il criterio di scelta adottato dal pubblico ufficiale scaturisca da un calcolo- intrinsecamente opinabile- di dati tecnici, ossia di elementi oggetto di discrezionalità tecnica posti alla base della valutazione sul superamento o meno della soglia di valore, prevista ex lege, oltre la quale si rendeva necessaria la scelta obbligata della procedura di affidamento tramite bando di gara ad evidenza pubblica.

Infatti, l’abuso d’ufficio è integrato, secondo la Corte di Cassazione, ogniqualvolta «la violazione di una regola di condotta prevista da una norma di legge dovesse sostanziarsi nella preventiva totale rinuncia da parte del pubblico agente dell’esercizio di ogni potere discrezionale; ovvero laddove la violazione della regola di condotta dovesse intervenire in un momento del procedimento nel quale è possibile affermare che ogni determinazione dell’amministrazione è oramai espressione di un potere caratterizzato dall’essere in concreto privo di qualsivoglia margine di discrezionalità».

E’ evidente che il legislatore, nell’indicare le specifiche regole di condotta da cui non residuino margini di discrezionalità, abbia fatto riferimento non solo ai casi in cui il potere connesso alla regola di condotta sia previsto ab origine come vincolato, «ma anche ai casi riguardanti l’inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto […] in cui si sostanzia l’abuso di ufficio». Tali argomentazioni sarebbe confermate, a fortiori, da attento orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento ex art. 21 octies L. 241/90, a rigor del quale il provvedimento amministrativo è annullabile «anche quando esso sia esplicazione di un potere, in astratto discrezionale, che sia divenuto vincolato in concreto».

Pertanto, nel caso in specie, la Corte ritiene integrato l’elemento oggettivo del reato, stante la violazione del già citato art. 125 d. lgs 163/2006 (esplicativo della procedura utilizzabile a seconda del valore economico dell’appalto) e dell’art. 29 del medesimo decreto legislativo (che prevede il divieto di scegliere un determinato metodo di calcolo del valore al solo scopo di eludere la disciplina in tema di appalti di rilevanza comunitaria).

L’imputato, quale responsabile del procedimento de quo, avrebbe solo formalmente rispettato le norme in materia, dal momento che lo stesso aveva evitato qualsiasi valutazione in ordine ai costi del servizio di gestione dei verbali di accertamento, tenendo in considerazione ai fini della determinazione dei costi totali esclusivamente il costo del noleggio delle apparecchiature, così sottostimando deliberatamente il valore dell’appalto. Pertanto, la valutazione dei dati tecnici da parte di F.A., come dimostrato ampiamente dai giudici di merito, non si poneva quale operazione di discrezionalità tecnica, ma era una consapevole scelta dell’imputato, il quale avrebbe dovuto semplicemente applicare la normativa corretta a seguito di un mero accertamento tecnico. Tale conclusione è ben supportata dalle evidenze processuali emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale: infatti, in primo luogo, è acclarato che già nei primi due mesi di attività gli importi derivanti dai verbali sarebbero stati di gran lunga superiori rispetto alla soglia di € 200.000,00 prevista dall’art. 125 citato; in secondo luogo, l’imputato aveva presentato all’ufficio ragioneria del Comune uno studio sperimentale che dimostrava il numero elevato di verbali di contestazione che sarebbero scaturiti dal servizio; infine, da tenere in debito conto è anche l’atteggiamento delle pubbliche amministrazioni di comuni limitrofi, che per l’affidamento di un servizio analogo avevano preventivamente deciso di utilizzare il metodo della gara ad evidenza pubblica. 

Di portata più modesta, invece, appaiono le argomentazioni della Suprema Corte sul requisito della ‘doppia ingiustizia’, ossia del ‘doppio dolo’ necessario a configurare il reato. Secondo i giudici di legittimità, tale elemento va provato attraverso due accertamenti distinti ed autonomi, non essendo possibile «far discendere l’ingiustizia del vantaggio e del danno dall’accertata illegittimità della condotta». D’altro canto, la prova del dolo intenzionale non deve necessariamente basarsi sulla prova dell’accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e la persona che lo stesso intende favorire, essendo l’elemento psicologico desumibile, secondo giurisprudenza consolidata, dalla microscopica illegittimità della condotta, a patto che la stessa trovi riscontro in elementi estrinseci e non sia accertata esclusivamente avuto riguardo al comportamento non iure dell’agente.

Nel caso di specie, i giudici di legittimità ritengono che la Corte territoriale abbia fatto buon governo dei principi in materia, dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio il danno occorso all’ente comunale, che aveva dovuto annullare il contratto di appalto ed invalidare in autotutela i numerosi verbali di accertamento. In aggiunta a ciò, il dolo intenzionale, consistente nell’aver procurato ingiusto vantaggio alla ditta affidataria del servizio, era stato provato dalla Corte di Appello valorizzando il fatto che l’imputato, da un lato, aveva stipulato il contratto e adottato la determina dirigenziale prima che la giunta comunale potesse esaminare la spesa scaturente dal servizio e senza autorizzazione da parte dell’Anas, dall’altro,  aveva permesso al responsabile della società appaltatrice di installare ed utilizzare le apparecchiature per la rilevazione della velocità prima ancora della stipula e della registrazione del contratto.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto dall’imputato e condanna lo stesso al pagamento delle spese processuali.

 

Argomento: Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. VI, 1 marzo 2021, n. 8057)

stralcio a cura di Ilaria Romano 

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“3. (…) in via prioritaria occorre chiedersi se il fatto contestato al ricorrente non sia più previsto dalla legge come reato a seguito della parziale abolitio criminis conseguente alle modifiche apportate all'art. 323 cod. pen. dall'art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, disposizione con la quale le parole "di norme di legge o di regolamento” contenute nell'art. 323 sono state sostituite con quelle "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Le novità sono tre. Fermi restando l'immutato riferimento all'elemento psicologico del dolo intenzionale e l'immodificato richiamo alla fattispecie dell'abuso di ufficio per violazione, da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti(ipotesi di reato che non è variata nei suoi elementi costitutivi), il delitto è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell'agente pubblico abbia avuto ad oggetto "specifiche regole di condotta" e non anche regole di carattere generale; solo se tali specifiche regole sono dettate "da norme di legge o da atti aventi forza di legge", dunque non anche quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte subprimaria; e, in ogni caso, a condizione che quelle regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all'agente, restando perciò oggi escluse dalla applicabilità della norma incriminatrice quelle regole di condotta che rispondano, anche in misura marginale, all'esercizio di un potere discrezionale (…). Tali indicazioni legislative - che, destinate all'evidenza a restringere sotto l'aspetto oggettivo la rilevanza penale di talune condotte, sono operanti in via retroattiva giusta il principio di cui all'art. 2, quarto comma, cod. pen. - non sono applicabili al caso di specie. E ciò perché all'odierno ricorrente è stata addebitata la violazione di una specifica regola di condotta prevista da una norma di legge, quella contenuta nell'art. 125 del d.lgs. aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti) che all'epoca dei fatti disciplinava il metodo che l’ente pubblico appaltante avrebbe dovuto [continua ..]

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