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La responsabilità del contribuente in caso di delega di funzioni a un professionista di fiducia
Adriana Arcari
La vicenda, da cui la pronuncia della Corte di Cassazione trae origine, riguarda un caso di omessa dichiarazione, con conseguente evasione di imposta per oltre € 100.000,00, dunque, ben al di sopra della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 d. lgs. 74/2000, fissata in € 50.000,00.
Il ricorrente in Cassazione, condannato in primo grado, con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Torino, alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie e alla confisca della somma costituente profitto del reato, adiva il Supremo Collegio lamentando, tra i motivi di doglianza, il vizio di violazione di legge circa l'erronea valutazione sulla sussistenza del dolo generico.
Nel caso di specie, a dire del ricorrente, non era stato integrato l’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice, in virtù del fatto che, per la presentazione della dichiarazione, era stata conferita delega ad un professionista di fiducia.
Tale circostanza, già sottolineata nei precedenti gradi dinanzi ai Giudici di merito, era risultata non adeguatamente valutata.
Gli Ermellini, esaminata la questione postagli al vaglio, hanno rigettato il ricorso ritenuto inammissibile per genericità, nonché manifestamente infondato.
In particolare, la Suprema Corte, richiamando la costante giurisprudenza[1], ha affermato che: “La prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), può essere desunta dall'entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell'esatto ammontare dell'imposta dovuta”.
In riferimento alle possibili implicazioni, in termini di responsabilità penale del contribuente conseguenti al conferimento di una delega per la presentazione della dichiarazione ad un professionista, i giudici di legittimità, aderendo al consolidato indirizzo giurisprudenziale[2], hanno evidenziato come l’obbligo dichiarativo avrebbe natura personale, in quanto incombente direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (art. 1, co. 4, d.P.R. 322/1998).
La facoltà, riconosciuta al contribuente dall’art. 3, co. 3 e 3-bis, d.P.R. 322/1998, di avvalersi di persone incaricate della materiale predisposizione e trasmissione della dichiarazione, non è circostanza idonea a trasferire in capo a tali soggetti l’obbligo dichiarativo, il quale, infatti, permane a carico del contribuente.
Dal principio della personalità dell’obbligo tributario, argomenta la Corte, “consegue che il solo fatto di aver affidato ad un professionista, già incaricato della tenuta della contabilità, il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi, non è circostanza che giustifichi di per sé la violazione dell'obbligo o possa escludere la consapevolezza della inutile scadenza del termine”.
Solo la forza maggiore potrebbe giustificare tale omissione, tenuto conto, ai fini della valutazione della sua sussistenza, che il reato di omessa dichiarazione si consuma, ai sensi dell’art. 5, co. 2, d. lgs. 74/2000, decorsi novanta giorni dalla scadenza del termine per l’adempimento dell’obbligo.
In tema di omessa dichiarazione, l’obbligo dichiarativo non è delegabile, infatti, trattasi di reato omissivo proprio, essendo soggetti attivi solo coloro che sono obbligati alla presentazione della dichiarazione individuata dalla norma penale.
Qualora si ammetta il trasferimento del contenuto dell’obbligo in capo al delegato, si “finirebbe per modificare l'obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull'adempimento da parte del soggetto delegato”.
La Corte, inoltre, chiarisce come la natura personale dell’obbligo dichiarativo non ammetta “sostituti ed equipollenti”, essendo lo stesso imposto per rispondere a una speciale finalità di diritto tributario, quale quella di colpire il complesso dei redditi tassabili.
Il conferimento dell’incarico a un professionista non è, dunque, circostanza idonea ad adempiere l’obbligo fiscale, in quanto ne deriverebbe una estrema facilità di evasione.
La personalità dell’obbligo dichiarativo non esime dall’indagare la natura del coefficiente psichico di cui l’agente risulta investito.
Infatti, ha precisato la Corte, attesa la struttura dolosa del reato di omessa dichiarazione, va esclusa la responsabilità penale del contribuente laddove l’inadempimento del dovere tributario derivi da mera negligente inerzia, da semplice imperizia o, come può tipicamente avvenire in caso di delega a un professionista, da culpa in vigilando.
Richiamando precedenti pronunce, gli Ermellini affermano che “la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell'obbligo dichiarativo né da una "culpa in vigilando" sull'operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l'atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l'omessa dichiarazione all'evasione dell'imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale”.
Concludendo, nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito abbiano correttamente individuato delle circostanze concrete ed idonee a provare la sussistenza del dolo in capo al ricorrente.
In particolare, in sede di appello, era stato evidenziato come il ricorrente “non fosse stato vittima di un errore professionale da parte del proprio commercialista, per una serie di concrete ragioni (il commercialista presentava la denuncia di sinistro all'assicurazione professionale due anni dopo rispetto alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione e in coincidenza con l'esecuzione del sequestro preventivo disposto dal GIP; il ometteva di presentare anche la propria dichiarazione dei redditi per l'anno 2014; il tentativo di dedurre costi non più inerenti all'attività esercitata, con riferimento ai punti vendita oggetto di cessione di ramo di azienda cui, tuttavia, non seguiva la dichiarazione di cessazione di attività; l'omissione della dichiarazione IVA ed IRAP anche per l'anno 2015, successivo a quello in contestazione)”.
Pertanto, secondo il giudizio della Suprema Corte, “a rafforzare il convincimento dei giudici di appello circa la responsabilità del ricorrente, nonché della sua volontà di non presentare la dichiarazione al fine di evadere le imposte, milita, come si legge in sentenza, la circostanza, desunta dal comportamento successivo del reo, desumibile dal mancato pagamento delle imposte dovute e non dichiarate non solo per l'anno in contestazione, ma anche per l'anno 2015”.
[1] Ex multis Cass. pen., Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 18936
[2] Cass. pen., Sez. III, 10 marzo 2020, n. 9417
Sezione: Sezione Semplice
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