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Ergastolo ostativo e benefici penitenziari: la parola al legislatore

Francesco Martin 

 

Con l’espressione ergastolo ostativo si intende il particolare tipo di regime penitenziario, previsto dall’art. 4-bis O.P., che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) gli autori di reati di particolare gravità e allarme sociale, che non abbiano collaborato con la giustizia, ovvero nel caso di accertata impossibilità o inesigibilità della stessa.

 

Accade dunque che la pena, in queste ipotesi, venga scontata interamente in regime detentivo intramurario, divenendo quindi perpetua, senza considerare l’eventuale ravvedimento del reo e trasformando l’ergastolo in un vero e proprio fine pena mai.

Questo sistema si fonda su una presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto, in conseguenza della tipologia e gravità del reato commesso, che sottrae totalmente al giudice il potere di valutare caso per caso l’accesso ai benefici penitenziari, in considerazione dell’entità della pena inflitta, della personalità del soggetto e della progressione trattamentale.

 

L’ergastolo ostativo è quindi la forma più estrema e grave prevista dall’ordinamento; i soggetti sottoposti a tale regime, infatti, sono assoggettati al trattamento differenziato di cui agli artt. 4-bis e 41-bis O.P. che prevede limitazioni ulteriori e più stringenti rispetto al regime detentivo ordinario.

 

A livello comunitario, la Corte EDU, con la pronuncia Marcello Viola c. Italia del 13 giugno 2019, ha rilevato una violazione della dignità umana, costituzionalmente garantita, in quanto una pena in cui è impossibile ogni ideazione o illusione di liberazione futura si traduce in un trattamento inumano del detenuto.

La CEDU ha quindi esortato l’Italia a modificare la disciplina che regola il carcere a vita ed in particolare lo sbarramento automatico ai benefici penitenziari per mancata collaborazione con la giustizia, poiché viola il diritto del detenuto a non esser sottoposto a trattamenti inumani e degradanti.

 

A seguito di tale decisione, la Corte costituzionale si è espressa con la sentenza n. 253 del 23 ottobre 2019 rilevando che, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, vi è un aggravio del trattamento carcerario del condannato non collaborante, rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, un’agevolazione data dalla collaborazione, in palese violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

 

Recentemente la Consulta è ritornata sulla questione con l’ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021.

 

Il giudice delle leggi ha infatti esaminato le questioni di legittimità, sollevate dalla Suprema Corte di Cassazione, in merito al regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di associazione mafiosa che abbiano scelto di non collaborare con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale, rilevando come la vigente normativa dell’ergastolo ostativo precluda in modo assoluto la possibilità di avanzare istanze per la concessione di misure alternative (anche solo ipoteticamente), a coloro che non abbiano utilmente collaborato con la giustizia, al netto di qualsivoglia valutazione che tenga conto di un sicuro ed evidente ravvedimento e sulla scorta di una presunzione che non lascia spazio a contestazioni.

 

La Corte evidenzia infatti che: “Anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino”.

Orbene l’ergastolo ostativo incarna la vera a propria pena perpetua ed immutabile, la cui fine coincide con la morte del reo.

Tale declinazione, così come rilevato dalla Consulta, nasce come risposta al proliferarsi di organizzazioni criminali associate; ed infatti la previsione di cui all’art. 58-ter O.P., che concerne la collaborazione con la giustizia, rappresenterebbe la probatio diabolica dell’estraneità del condannato dal mondo della criminalità organizzata[1].

La sua assenza comporta, di conseguenza, il rigetto della concessione dei benefici penitenziari.

 

Nella sentenza in commento tuttavia la Corte costituzionale, su tale questione, rileva che: “Come si è detto, la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica. Appartiene perciò alla discrezionalità legislativa, e non già a questa Corte, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.: scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione. Si tratta qui di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri di questa Corte. Come detto, esse pertengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa, e possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale”.

 

La Consulta ritiene quindi che una pena che nega completamente una seconda possibilità al reo, difficilmente potrà garantire l’esistenza dignitosa del condannato: si rende quindi necessario un intervento del legislatore che tenga conto di quanto evidenziato dalla Corte costituzionale, dalla Corte di Strasburgo e dalle garanzie sancite agli artt. 3 e 27 Cost. ed all’art. 3 CEDU.

 

Appare infatti evidente che la finalità rieducativa della pena, principio cardine del nostro ordinamento in materia di esecuzione penitenziaria, risulta disatteso nel momento in cui si impedisce ad un soggetto di poter usufruire di tutti quegli istituti che il legislatore ha predisposto per consentire ai condannati di reinserirsi nel tessuto sociale.

La questione, volendo ampliare la visuale, concerne non solo aspetti prettamente giuridici, ma anche profili psicologici e sociali; se difatti un soggetto è ben conscio che la fine della pena da espiare coinciderà con la sua morte, non avrà alcuno stimolo o interesse nel migliorare la propria situazione, ovvero di effettuare percorsi rieducativi.

Al contrario, potrà eventualmente porre in essere successivi delitti, sapendo già di essere sottoposto alla forma di detenzione più grave che il nostro ordinamento prevede.

 

La Corte ha quindi deciso di fornire uno stimolo al legislatore, rinviando l’udienza al 10 maggio 2022, nella speranza che lo stesso provveda con una modifica normativa.

Questo sulla base del fatto che: “La normativa risultante da una pronuncia di accoglimento delle questioni, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da tratti di incoerenza. In esso, i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., pur se non collaborino utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio (in virtù, come appena ricordato, della sentenza n. 253 del 2019). All’esito di una pronuncia di accoglimento delle odierne questioni – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà. Un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame”.

 

Proprio recentemente la Camera dei deputati ha approvato il testo, risultante dall’unificazione dei d.l. 1951, 3106, 3184 e 3315, di modifica della disciplina dell’ergastolo ostativo (e non solo), ora trasmesso per l’approvazione definitiva al Senato.

 

In conclusione, così come evidenziato da autorevole dottrina[2], una eventuale pronuncia di accoglimento da parte della Corte costituzionale non significherebbe un “liberi tutti”, ma anzi rappresenterebbe la strada da percorrere al fine di applicare correttamente ed equamente i principi costituzionali in tema di pena e di esecuzione penale, incidendo anche sul modus operandi della Magistratura di Sorveglianza, chiamata a valutare il singolo percorso umano e detentivo senza che tale decisione sia influenzata dai contegni precedentemente serbati (anche in sede processuale), dagli ambienti di provenienza e dalla mancata collaborazione con l’autorità giudiziaria, che ben potrebbe risiedere in timori legittimi e non invece in esplicazioni dell’attuale appartenenza a contesti criminogeni.

 

[1] S. Ciaffone, “Ergastolo ostativo”: verso il superamento di una pena disumana e degradante sulla scia garantista della Corte Costituzionale. Un anno di tempo al legislatore per adeguare l’istituto ai principi costituzionali e comunitari, in Giur. Pen., n. 5, 2021.

[2] E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sist.Pen., 25.05.2021.

Sezione: Corte Costituzionale

(C. Cost., 11 maggio 2021, ord. n. 97)

stralcio a cura di Giuliana Costanzo 

“1.- La Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 […], nonché dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 […], nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia. […]. 7.– […] valgono per le questioni all’odierno esame alcune rationes decidendi già poste a fondamento della sentenza n. 253 del 2019. La presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente. Non è affatto irragionevole, come meglio si dirà tra breve, presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza. Il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, infatti, alla magistratura di sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n. 149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost. L’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere contraddetta, ad esempio, alle determinate e [continua ..]

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