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Il carattere diffamatorio di una pubblicazione va parametrato rispetto al lettore medio e non a quello “frettoloso”

Roberto Landi 

 

La pronuncia de qua si innesta sulla vexata questio della diffamazione a mezzo stampa: segnatamente, la Suprema Corte ribadisce l’arresto in forza del quale “deve escludersi il carattere diffamatorio di una pubblicazione quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore c.d. «frettoloso»), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell’articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l’immagine, l’occhiello, il sottotitolo e la didascalia[1].

La vicenda origina dalla pubblicazione su una testata online di un articolo rubricato: “M.M., il politico imputato per tangenti, scopre il business turistico. Ma debutta con una multa per abusivismo”. L’inchiesta si soffermava sulle attività imprenditoriali svolte dal politico, nonché sulle vicende giudiziarie coinvolgenti, altresì, la famiglia dello stesso, inclusa – per quanto rileva in questa sede – una multa inflitta dalla polizia locale ad una società gestita dai suoi familiari.

Per effetto della querela proposta dal politico e imprenditore, il giudice di prime cure condannava, anche agli effetti civili, l’autore dell’articolo per il reato di diffamazione aggravato dall’utilizzo del mezzo della stampa ex art. 595, comma 3, c.p.; si imputava, inoltre, al direttore della testata l’omesso controllo necessario ad evitare l’offesa all’altrui reputazione ex art. 57 c.p.

In sede di gravame, venivano confermati i predetti addebiti di responsabilità, con condanna dei rei alla sanzione pecuniaria ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento del danno non patrimoniale patito dall’offeso.

Segnatamente, la Corte d’Appello ravvisava la lesione alla reputazione nella locuzione “multa per abusivismo” presente nel titolo della pubblicazione, rilevando che il registro linguistico adoperato fosse idoneo ad ingenerare nel lettore l’erronea convinzione in ordine ad una responsabilità penale del soggetto de quo nel settore dell’edilizia. A contrario, veniva in rilievo una mera sanzione amministrativa – peraltro comminata non al presunto reo, bensì ad una compagine sociale facente capo ai suoi familiari – per aver destinato un’area di sosta a parcheggio senza aver previamente conseguito il rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative.

Ciò premesso, l’autore dell’articolo e il direttore del periodico online ricorrevano in Cassazione, lamentando l’erronea applicazione dell’art. 595 c.p. in ordine al carattere diffamatorio dell’inciso contestato. Ritenuto il motivo fondato e ravvisatone il carattere assorbente rispetto agli ulteriori rilievi, la Suprema Corte cassava senza rinvio la pronuncia di secondo grado, assolvendo gli imputati per insussistenza del fatto.

Il Supremo Collegio, invero, si discosta dal vaglio della Corte di Appello, che attribuisce al lettore medio l’assimilazione del lemma “multa” a una sanzione penale, rilevando come nell’esperienza comune il predetto vocabolo evochi, piuttosto, una contravvenzione al codice della strada. Parimenti appare ingiustificata l’assimilazione della parola “abusivismo” agli illeciti edilizi, giacché, avuto ancora riguardo al lettore medio, l’abusivo è comunemente chi svolge senza autorizzazione un’attività ovvero accede sine titulo in un determinato luogo.

Come rilevato dagli Ermellini, “i giudici di merito hanno offerto un’interpretazione che è frutto di una non consentita forzatura in malam partem, proponendo una lettura surrettizia del testo, del tutto estranea al contesto comunicativo, al significato letterale e al senso palese delle frasi incriminate[2]. La sentenza impugnata si traduce, dunque, in un errato inquadramento della fattispecie concreta in quella legale, derivando il presunto contenuto offensivo da una lettura mistificante dello scritto.

Nella motivazione offerta dalla Suprema Corte, il criterio ermeneutico del “lettore medio” si presta ad impiego bifronte: da un lato, come parametro per determinare l’effettiva offensività delle espressioni utilizzate; dall’altro, quale indice per stabilire il livello di attenzione ed approfondimento mediamente prestato nella fruizione dell’articolo in esame, dovendosi determinare se il lettore medio si limiti a guardare le parti in risalto (come, per l’appunto, il titolo) ovvero ad esaminare l’elaborato nel suo complesso[3].

Nel caso di specie, assunto l’angolo prospettico del lettore medio, l’inciso viene ritenuto privo di carattere diffamatorio sulla scorta di due rilievi: anzitutto, il fruitore medio del quotidiano non ha le competenze giuridiche per accostare i lemmi “multa” ed “abusivismo” all’area del penalmente rilevante, bensì, per comune sentire, tende a ricollegarli ad un illecito amministrativo; in secondo luogo, il lettore medio, in quanto “non frettoloso” per definizione, non si limiterebbe ad una lettura approssimativa del titolo, ma leggerebbe perlomeno il sommario, che tratteggia expressis verbis i caratteri essenziali dalla vicenda, legittimando l’operatività della scriminante del diritto di cronaca.

 

[1] Cass. pen., sez. V, 14 novembre 2019, n. 10967.

[2] Cass. pen., sez. V, 24 settembre 1998, n. 11928.

[3] E. Turetta, Diffamazione a mezzo stampa, autonoma portata diffamatoria del titolo e riflessioni sull’attualità del criterio della percezione del “lettore medio” nell’era del giornalismo online, in Sistema Penale, 2023, V, pp. 102-103.

Argomento: Delitti contro l'onore
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. V, 10 gennaio 2023, n. 503)

Stralcio a cura di Fabio Coppola

(….) La premessa necessaria è che, secondo incontrastato orientamento di legittimità, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato ( ex plurimis, Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005 (dep. 2006 ) Rv. 233749; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Rv. 256706; Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014 Rv. 261284; Sez. 5 n. 2473 del 10/10/2019 (dep. 2020 ) Rv. 278145). 3.2. Va poi richiamato quanto affermato da un recente arresto di questa Corte, che ha escluso il carattere diffamatorio di una pubblicazione quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l'altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore cd. "frettoloso"), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell'articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l'immagine, l'occhiello, il sottotitolo e la didascalia. (…) Dissente il Collegio dalle valutazioni della Corte di appello, che attribuisce al lettore medio l'assimilazione della parola 'multa' a una sanzione penale, bastando osservare che, invece, nell'esperienza di qualsiasi cittadino, il predetto vocabolo evoca, piuttosto, una contravvenzione al codice stradale. Del pari ingiustificata l'assimilazione della parola 'abusivismo' agli illeciti di natura edilizia, giacchè - sempre riferendosi al lettore medio - l'abusivo, per comune cognizione, è proprio chi svolge senza autorizzazione un'attività (venditori ambulanti, gestori di spiagge, e così via) o accede senza titolo in un qualche luogo.

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