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La tipicità dei modi di interruzione della prescrizione e i requisiti del possesso ad usucapionem

Ambrogio Ietto

 

 

La Corte di Cassazione, con l’ord. n. 24802/2022, torna ad occuparsi di una tematica già ampiamente trattata in passato qual è quella degli “atti interruttivi del possesso ad usucapionem” (“ex plurimis” Cass. civ. sent. 27376/2021, Cass. civ. sent. 30079/2019).

L’occasione è, quindi, proficua per analizzare nel dettaglio detto istituto giuridico.

Detta pronuncia della Suprema Corte si fonda su un ricorso per Cassazione presentato da una Società Cooperativa Edile contro l’accertamento e la dichiarazione (effettuata dalla competente Corte di Appello) di acquisto in favore di un soggetto terzo a titolo di usucapione di un immobile di sua proprietà.

L’originario attore, infatti, aveva presentato apposita domanda al giudice di prime cure al fine di ottenere, nei confronti di detta società, una sentenza (dichiarativa) di accertamento dell’usucapione della proprietà di un locale situato al piano porticato dell’immobile, asserendo di averlo posseduto ininterrottamente per oltre vent’anni.

I fatti allegati dall’attore a supporto della sua istanza giudiziale erano i seguenti:

  • la società aveva, con apposita delibera, manifestato la propria volontà di vendere detto locale di sua proprietà all’attore (stipulando apposito contratto di vendita);
  • nonostante non si fosse pervenuti alla stipula dell’atto contrattuale, l’attore-acquirente da subito era immesso nella disponibilità materiale del locale, provvedendo anche a corrispondere alla Società il pattuito prezzo di acquisto;
  • per anni l’attore, quindi, aveva avuto la disponibilità materiale “nec vir, nec dam, nec precario” della zona di porticato dedotta in causa (come confermato dal certificato di completamento dei lavori, dal frazionamento immobiliare catastale che ha reso il locale urbanisticamente separato dal resto dell’immobile e dalla stipula dei contratti di locazione del cespite con plurimi inquilini succedutisi nel tempo).

In seguito ad una sentenza di primo grado di rigetto, la Corte di Appello aveva accolto detta azione giudiziale, ritenendo integrati tutti i requisiti richiesti dall’art. 1158 c.c. (ovverosia l’aver esercitato un possesso palese, non violento, continuo, ininterrotto e di durata ventennale sulla res; cfr. Cass. civ. n. 27376/2021 sulla distinzione tra continuità e non interruzione del possesso).

La Società Edile proponeva ricorso per Cassazione, in particolare, “per violazione degli artt. 115 comma 1° e 116 cpc …avendo la Corte territoriale omesso di considerare le deliberazioni assembleari della Cooperativa, dalle quali risultava che il OMISSIS era mero detentore dei locali da lui occupati”.

Nell’ottica del ricorrente era questa una omissione decisiva, avuto riguardo alla circostanza che l’attore, “durante il ventennio in cui aveva assunto di aver esercitato il possesso sul predetto immobile idoneo all’acquisto per usucapione, aveva partecipato alle assemblee dei soci della Cooperative dove, esprimendo più volte voto favorevole all’assegnazione in suo favore dei locali di porticato in questione, ne aveva sempre riconosciuto la proprietà in capo ad essa”.

Difatti queste delibere assembleari (successive a quella originaria in cui si era manifestata la volontà di vendere e si era deliberata la consegna dell’immobile all’attore), avendo ad oggetto l’assegnazione definitiva di detto locale, avrebbero interrotto il possesso ad usucapionem del possessore.

La Corte, analizzata siffatta doglianza, decide di respingerla “in toto” sulla base di una duplice argomentazione.

In primo luogo, dal punto di vista processual-civilistico, quella del ricorrente è una censura inammissibile posto che si risolve in una critica agli apprezzamenti probatori compiuti dalla Corte di Appello e che richiederebbe una valutazione di merito da parte della Suprema Corte.

Inoltre, per la Cassazione, il giudice di secondo grado ha “correttamente escluso la rilevanza di successive deliberazioni dell’assemblea dei soci della Cooperativa, siccome non avevano inciso sul possesso incardinatosi in capo al controricorrente, né avevano fatto venir meno il suo animus possidendi”. Ciò che rileva, infatti, è che il “titolo astrattamente idoneo ad usucapire”, ossia la delibera societaria originaria con cui si era consegnato il porticato, abbia mantenuto la sua efficacia giuridica (non essendo stata né impugnata ex artt. 2377 e 2516 c.c. né revocata) e che siano integrati tutti i presupposti ex art. 1158 c.c.

A ciò si aggiunga che, in virtù dell’art. 1141 c.1° c.c., vi è una presunzione (relativa) che tale potere di fatto integri il possesso. Il ricorrente per Cassazione, quindi, avrebbe dovuto dimostrare che dette delibere societarie successive hanno mutato quel potere di fatto in una mera detenzione (incapace di dar vita ad un acquisto a titolo originario qual è l’usucapione); poiché tale prova non è stata in alcun modo fornita, essendosi limitato il ricorrente ad eccepire l’esistenza di dette delibere assembleari, è inevitabile continuare a qualificare come possessorio il potere di fatto esercitato sulla res.

Sul punto la Corte, richiamando espressamente un proprio precedente (Cass. n. 9106/2000), chiarisce come vi sia un possesso idoneo all’usucapione anche in quei casi, come quello oggetto in analisi, in cui si “riceva la consegna di un immobile in base ad una convenzione con effetti solo obbligatori” purchè alla stessa “acceda un immediato effetto traslativo del possesso sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che con essa le parti si sono ripromesse di realizzare”.

Nel caso oggetto di causa l’attore, in forza dell’originaria delibera assembleare, aveva addirittura corrisposto il prezzo che gli aveva consentito l’immediata apprensione del bene, cominciando da subito a godere della disponibilità materiale del bene con “animus sibi habendi”. Al fine dell’usucapione, quindi, a nulla rileva che non si sia successivamente stipulato un formale negozio di cessione, posto che la consegna, di base qualificabile come “atto neutro”, era stata effettuata proprio per far entrare da subito l’acquirente nella disponibilità della res.

In secondo luogo, la censura è da considerarsi infondata posto che l’emanazione di delibere assembleari successive a quella originaria (in base alla quale si era consegnato il bene) non è un atto/fatto idoneo ad interrompere il possesso “ad usucapionem” esercitato dall’attore.

Sul punto merita di essere posto in rilievo il disposto dell’art. 1165 c.c. secondo cui “le disposizioni sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e di interruzione e al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione”.

Il rinvio operato dall’art. 1165 c.c. all’art. 2943 c.c.  fa sì che l’elencazione legislativa degli atti interruttivi del possesso sia da considerarsi tassativa e non meramente esemplificativa (né applicabile analogicamente).

Pertanto la Corte, anche con detta pronuncia, chiarisce come non sia consentito “attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge”.

Da ciò ne deriva che non possa “riconoscersi tale efficacia (rectius “interruttiva”) se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa (c.d. “interruzione naturale”), ovvero ad atti giudiziali diretti ad ottenere ope iudicis la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapiente (c.d. “interruzione civile”).

Le delibere societarie oggetto di censura del ricorrente (qualificate dalla Corte come “meri atti deliberativi privati che non comportino alcuna diretta incidenza sulla relazione materiale con il bene del possesso”) non determinando nel possessore una perdita materiale del potere di fatto sulla cosa né costituendo atti giudiziali in grado di ottenere giudizialmente la privazione del possesso verso il possessore, non producono, quindi, alcun effetto interruttivo.

Gli atti interruttivi del possesso, dunque, sono tassativi e non ammettono equipollenti.

Nel sostenere l’irrilevanza, ai fini interruttivi, di dette sopravvenute delibere societarie la Suprema Corte opera, dunque, una lettura restrittiva dell’ambito applicativo dell’istituto dell’interruzione possessoria.

E’ questa una impostazione coerente con quella accolta dalla medesima Corte in altre occasioni, nelle quali si è disconosciuta la rilevanza interruttiva di una serie di atti. Sintomatica è l’ord. n. 20611/2017 con la quale gli Ermellini hanno contemporaneamente stabilito sia l’irrilevanza interruttiva degli atti di diffida e di messa in mora sia la rilevanza, per tali medesimi fini, della notifica dell’atto di citazione col quale si chiede la materiale consegna di tutti i beni sui quali si vanti un diritto dominicale (peraltro soluzione confermata anche da Cass. civ. sent. n. 30079/2019).

Gli atti di diffida e di messa in mora (come anche la richiesta per iscritto di rilascio dell’immobile occupato), si diceva in quella pronuncia, “sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione ma non anche il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale”.

La stessa introduzione di un giudizio di riduzione per la lesione di legittima, nonostante sia un atto giudiziale (astrattamente quindi riconducibile ai casi di “interruzione civile”), acquista efficacia di atto interruttivo dell’usucapione “solo se contiene una chiara manifestazione della volontà di riacquistare all’asse ereditario il bene sul quale il possesso viene esercitato” (Cass. civ. sent. n. 30079/2019).

Ciò posto, così brevemente analizzate anche altre pronunce intervenute in materia, appare ancora più chiaro come l’impostazione accolta dalla Suprema Corte nell’ord. n. 24802/2022 sia del tutto coerente con le coordinate ermeneutiche poste nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità.

D’altronde, a ben vedere, la scelta pretoria di non estendere eccessivamente l’ambito applicativo dell’interruzione ex art. 1165 c.c. risulta in linea con la “voluntas legis” di dare grande rilevanza alle situazioni di fatto aventi rilevanza esterna (“rompendo”, in tal modo, il binomio diritto soggettivo/tutela, dato che le azioni possessorie non presuppongono alcun preventivo accertamento dell’esistenza di un diritto).

Ne deriva che attribuire efficacia interruttiva ad ogni atto/fatto avrebbe significato, di fatto, eludere le finalità di tutela delle situazioni possessorie perseguite dal legislatore.

Pertanto il continuare a sostenere la tassatività degli atti interruttivi è operazione interpretativa rispettosa non solo del dato normativo letterale (posto che l’art. 1165 c.c. espressamente richiama l’art. 2943 c.c.) ma anche della “ratio legis” su cui si fonda l’intera disciplina normativa delle situazioni possessorie. 

Argomento: Della proprietà
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. II, 12 agosto 2022, n. 24802)

stralcio a cura di Gianmarco Meo

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“(...)Del resto, sul piano squisitamente giuridico, è risaputo che, in tema di usucapione, poiché - con il rinvio fatto dall'art. 1165 c.c. al successivo art 2943 - risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge (per quanto con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, giacché la tipicità dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti), con la conseguenza che non può riconoscersi tale efficacia se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, ovvero ad atti giudiziali diretti ad ottenere "ope iudicis" la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapiente, con conseguente irrilevanza, pertanto, di meri atti deliberativi privati che non comportino alcuna diretta incidenza sulla relazione materiale con il bene del possessore (cfr., ad es., Cass. n. 13625/2009. Cass. n. 16234/2011 e, da ultimo, Cass. n. 30079/2019).(…) Del resto, quando è dimostrato il potere di fatto, pubblico e indisturbato, esercitato sulla cosa per il tempo necessario ad usucapirla, ne deriva, a norma dell'art. 1141, comma 1, c.c., la presunzione che esso integri il possesso, con la conseguenza che incombe alla parte – la quale correli detto potere ad una condizione di detenzione - provare il suo assunto (circostanza, questa, rimasta esclusa nel caso di specie), dovendosi, in mancanza, ritenere l'esistenza della prova del possesso ad usucapionem. Allo stesso modo costituisce principio pacifico quello secondo cui si presume possessore del bene colui che esercita il potere di fatto su di essa perché l'animus possidendi è normalmente insito nell'esercizio di tale potere, che lo rende manifesto, e pertanto spetta a chi contesta tale possesso provare gli atti di tolleranza o i titoli giustificativi della detenzione. Inoltre, questa Corte (cfr. Cass. n. 9106/2000) – avuto riguardo ad una fattispecie per certi versi assimilabile a quella oggetto della presente controversia – ha statuito che sussiste un possesso idoneo all'usucapione in capo ad un soggetto che riceva la consegna di un immobile in base ad una convenzione che, per quanto con effetti solo obbligatori, non si limiti ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o [continua ..]

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