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I costi per i lavori di ristrutturazione eseguiti nella casa della ex convivente costituiscono obbligazione naturale se non sono sproporzionati al patrimonio e alle condizioni sociali del solvens
Elisa Angela Cravero
In rigetto delle pretese del ricorrente circa l’errata applicazione dell’art. 2041 c.c., la Suprema Corte interviene in questa occasione per ribadire un principio consolidato in tema di rimborsi tra ex conviventi more uxorio, ripreso anche recentemente con la sentenza n. 5086/2022, secondo il quale è possibile esperire l’azione generale di arricchimento anche in presenza di pregresso legame tra le parti purché “in presenza di prestazioni a vantaggio dell’altro esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza”.
Nel caso di specie, l’attore, in primo grado, aveva vittoriosamente esperito la predetta azione, dando prova sia della breve durata dell’affectio sia delle ulteriori spese sostenute per la gestione familiare, insistendo principalmente sull’esclusivo vantaggio ricavatone dalla convenuta, proprietaria dell’immobile adibito a residenza comune, tramite l’esborso di importi decisamente al di sopra dei propri redditi.
Tale decisione era stata, però, successivamente ribaltata in sede di appello, laddove il Giudicante aveva invece ritenuto, conformandosi alla pregressa giurisprudenza di legittimità, come risultasse inconciliabile l’applicazione dell’art. 2041 c.c. ai rapporti di convivenza, nell’ipotesi di prestazioni rese da un convivente a favore dell’altro per ristrutturare o costruire la dimora, posto che tali elargizioni sono di natura senza dubbio spontanea, e, pertanto, ricadenti nell’alveo dell’art. 2034 c.c., senza possibilità di ripetizione.
Ragionamento confermato in Cassazione, laddove le sezioni semplici, al di là del motivo di impugnazione, tra l’altro, non meritevole di accoglimento in quanto attinente al merito della causa, hanno rilevato la proporzionalità delle opere realizzate dal ricorrente, nell’adempimento di un dovere morale e sociale assunto anche verso la prole.
Pertanto, veniva respinto anche il secondo motivo di gravame attinente alla prova del vantaggio esclusivo dell’apporto patrimoniale verso la ex convivente, in quanto nella tesi del ricorrente l’esborso aveva incrementato il valore di un bene di proprietà della controparte “senza essere strumentale alle concrete esigenze quotidiane”.
Ebbene, sul punto, è bene chiarire come l’irripetibilità delle spese sostenute da un convivente nei confronti dell’altro non possa essere considerata come assoluto, posto che l’azione ex art. 2041 c.c. possa certamente essere esperita anche nei rapporti familiari interrotti, purché venga provato l'effettivo squilibrio patrimoniale derivante dall'eccessivo importo speso per il benessere della famiglia.
In buona sostanza, il parametro relativo alla proporzionalità e all'adeguatezza tra le risorse economiche spese e l'adempimento dei doveri morali e sociali incide non solo sul quantum ai fini dell'indennizzo, ma anche sull'an, in quanto in assenza della prova, circa il superamento del medesimo, alcun importo può essere riconosciuto all'ex convivente depauperato, in piena coerenza con il granitico orientamento vigente in tema di rapporti coniugali.
Invero, “anche se un coniuge contribuisce alla realizzazione di un edificio situato sul fondo di esclusiva proprietà dell'altro non acquista alcun diritto sullo stesso, nè esso può costituire oggetto di comunione. Il coniuge non proprietario potrà tutt'al più, chiedere la ripetizione di quanto versato, purché sia in grado di provarne i conferimenti (Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2010, n. 20508)”.
Se ne deduce come, anche nella famiglia di fatto, non possa derogarsi al regime delle obbligazioni naturali, laddove l'apporto fornito dal convivente sia, anche perché destinato al godimento comune del bene, coerente con le proprie finanze, in quanto inserito in un progetto di vita che, indipendentemente dalla durata, esclude qualunque profilo di arricchimento in capo all'altro.
Dunque, non si vede ragione per non evidenziare anche in tale fattispecie la sussidiarietà dell'azione di arricchimento ingiustificato, posto che, non essendoci alcun rapporto contrattuale tra le parti, e non potendo il depauperato essere considerato terzo a seguito di scioglimento dell'unione, non è applicabile alcuna altra azione per la tutela del proprio diritto, nemmeno invocando l'art. 936 c.c., il quale “ trova applicazione soltanto quando l'autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo (cfr. Cass. n. 5072 del 1993; Cass. n. 895 del 1997; Cass. n. 11835 del 2003; Cass. n. 12550 del 2009)”.
Segnatamente, proprio la natura ambivalente dell'istituto ex art. 2041 c.c. ne ha permesso l'applicazione nell'ambito del diritto di famiglia e dei diritti della persona, anche per l'aspetto equitativo della predetta azione giudiziale, laddove si sia determinato uno spostamento patrimoniale non giustificato nella sfera dei due ex conviventi, quando le attribuzioni reciproche “esulino dall'adempimento del dovere di assistenza e contribuzione, nonché travalichino i limiti di proporzionalità ed adeguatezza” ( cfr. Cass. n. 2392/2020).
Si conclude, dunque, per l'esclusione, salvo prova contraria, del diritto all'indennizzo in capo all'ex convivente, in quanto da un lato solvens di un'obbligazione naturale insita nel rapporto de facto, e dall'altro quale detentore qualificato (non terzo) del bene adibito a residenza comune, nonostante la contribuzione alle spese di costruzione/ristrutturazione, anche in caso di proprietà esclusiva dell'altro convivente.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. VI, 01 luglio 2021, n.18721)
stralcio a cura di Carla Bochicchio
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