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Bene in comunione fra coniuge defunto e terzo
Antonella Castaldo
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, è tornata ad occuparsi di un tema molto dibattuto nella prassi successoria e riguardante il diritto di abitazione del coniuge superstite sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano. L’ordinanza in epigrafe trae origine dal giudizio di scioglimento di una comunione ereditaria, nel quale la moglie superstite aveva proposto domanda riconvenzionale per l’accertamento in proprio favore, del diritto di abitazione, ex art 540 c.c. secondo comma, sulla quota di proprietà del marito (e pari ad 1/3), della casa adibita a residenza familiare, nella quale la convenuta assumeva di aver vissuto per oltre vent’anni con il coniuge e i loro figli, ovvero in via subordinata, la liquidazione per equivalente monetario della menzionata quota. Entrambe le domande, tuttavia, venivano rigettate dal Tribunale e, successivamente, dalla Corte di Appello adita, la quale nel confermare la sentenza di primo grado, poneva a fondamento della propria decisione l’orientamento giurisprudenziale che riserva al coniuge superstite il diritto di abitazione sulla casa familiare solo se, al momento dell’apertura della successione, era del coniuge defunto o comune. Contestualmente, veniva rigettato il preteso diritto all’equivalente monetario della quota di proprietà del de cuius. La moglie soccombente ricorreva perciò in Cassazione. Da qui il delinearsi, quale nodo centrale dell’ordinanza in esame, della configurabilità o meno del diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare, in favore del coniuge superstite, quando ne è oggetto un immobile del de cuius in comproprietà con terzi. Tale dubbio è stato risolto dagli Ermellini i quali chiariscono il significato della locuzione contenuta nel secondo comma dell’art. 540 c.c., “di proprietà del defunto o comuni”, oggetto di numerosi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, che “va interpretata alla luce della ratio del diritto di abitazione e della sua stretta connessione con l’esigenza di godere dell’abitazione familiare”. Al riguardo, l’art. 540, secondo comma, c.c., attribuisce il diritto di abitazione al coniuge superstite, sulla casa utilizzata come residenza familiare, anche in presenza di altri chiamati all’eredità e di uso dei mobili presenti nell’abitazione, sempre che siano di proprietà del defunto o di proprietà comune. Il dibattito sopra menzionato, ha perciò riguardato il significato da attribuire alla parola “comuni”, ovverosia se il legislatore, nel formulare l’art. 540 c.c., secondo comma, abbia inteso riferirsi esclusivamente alla comproprietà con l’altro coniuge, o abbia voluto comprendere anche l’ipotesi di comproprietà dell’immobile tra de cuius e altri chiamati alla successione o terzi. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, ritiene che tale formulazione vada interpretata alla luce dell’intento iniziale del legislatore, di consentire al coniuge superstite la persistenza nel godimento della casa adibita a residenza familiare e dei mobili che la corredano, preservando quell’ambiente etico-affettivo in cui è convissuto con il de cuius[1]. Pertanto, laddove il comproprietario della casa adibita a residenza familiare sia un terzo, non si potrebbero verificare i presupposti per la nascita del diritto di abitazione, posto che non sarebbe più realizzabile il proposito del legislatore, di garantire al coniuge superstite quel pieno e totale godimento del bene in oggetto. I giudici di legittimità osservano infatti che, affinché possano sorgere in favore del coniuge superstite i diritti di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano, occorre che la suddetta casa e i relativi arredi, siano di proprietà del de cuius o in comunione tra lui e il coniuge e, al contrario, si deve negare la configurabilità di tali diritti quando il bene sia in comunione con terzi. Secondo la Suprema Corte, nel caso in esame, non sorge alcun diritto in favore della moglie superstite, dato che la casa adibita a residenza familiare e i relativi mobili che la corredavano, non appartenevano interamente al de cuius, ma erano in comproprietà tra quest'ultimo e i suoi fratelli. In conclusione, la comproprietà tra de cuius e terzi del medesimo cespite adibito a residenza familiare, non permette di soddisfare quell’esigenza abitativa sottesa all’art. 540, secondo comma, c.c. e, di conseguenza, non fa sorgere il diritto di abitazione in favore del coniuge superstite. La Corte di cassazione ha poi affermato che deve essere altresì escluso l’equivalente monetario del diritto di abitazione in favore del coniuge superstite, nei limiti della quota di proprietà del de cuius poiché, in caso contrario, si finirebbe per attribuire un contenuto economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha un senso solo laddove apporti un accrescimento in termini qualitativi alla successione del coniuge superstite, garantendo quell’esigenza abitativa sopra citata ovverosia il concreto godimento dell’abitazione familiare[2]. In altri termini, secondo gli ermellini, dall’impossibilità di configurare in capo al coniuge superstite il diritto di abitazione sul cespite adibito a residenza familiare e di uso dei mobili che lo corredano, deriverebbe l’impossibilità per la ricorrente, di conseguire l’equivalente monetario della quota di proprietà del defunto marito. Infine, ad avviso della ricorrente, nulla era dovuto a titolo di equo compenso per l’uso esclusivo dell’abitazione. La Corte di cassazione ha confermato il principio applicato dalla Corte d’appello in forza del quale, l’utilizzo esclusivo di un bene da parte di un comproprietario, in assenza del consenso degli altri comproprietari, rispetto ai quali ne resta precluso l’uso, determina un danno, in quanto le facoltà domenicali vengono compresse, sia per il venir meno del godimento del bene da parte degli altri comproprietari, sia per l’impossibilità degli stessi di trarre dalla res una qualche utilità che il cespite è idoneo a produrre[3]. Per tali ragioni il motivo è infondato. Con il terzo dei motivi denunciati, la ricorrente affermava che la Corte di appello aveva considerato i frutti civili come debito di valore e non di valuta. I frutti civili, in base alla formulazione dell’art 820 c.c., sono obbligazioni di valuta, in quanto aventi ad oggetto, sin dall’origine, una somma di denaro determinata, o anche solo determinabile e, pertanto, soggette ex art 1227 c.c., al principio nominalistico. Al contrario, nei debiti di valore, la dazione di una somma di denaro rappresenta l’equivalente monetario di una diversa obbligazione che, pertanto, non è soggetta al principio nominalistico. Anche il terzo motivo, secondo i giudici di legittimità, è infondato dal momento che la Corte di Appello avrebbe ben correttamente quantificato il debito in base all’ammontare del canone figurativo, calcolandone l’importo anno per anno. Quest’ultimo, dunque, è infatti frutto di una modalità di calcolo adottata dai giudici di appello e non della sua trasformazione da debito di valuta, in debito di valore. Pertanto, il calcolo è corretto e la qualificazione anche.
[1] In tal senso Corte di Cass. n. 2754/2018.
[2] Corte di Cass. n. 6691/2000; in senso opposto Cass. n. 2474/1987. Si veda anche Cass. n. 14594/2004.
[3] Sul punto, Corte di Cass. n. 19215/2016; Corte di Cass. n. 11486/2010.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. II, 20 ottobre 2021, n. 29162)
stralcio a cura di Francesco Taurisano
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