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Il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti.

Letizia Barbero

 

 

La sentenza in commento, oggetto di pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, affronta diverse questioni giuridiche afferenti il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, novellato dalla legge 31 dicembre 2012 n. 247, quali il rapporto tra il procedimento disciplinare e il procedimento penale, la relazione tra le formule assolutorie in sede penale e la valutazione dei fatti in sede disciplinare, la prescrizione dell’azione di disciplina ed, infine, con particolare riferimento al caso di specie, la configurabilità della violazione deontologica degli obblighi di astensione in capo al professionista nonché l’istituto della legittimazione passiva nell’ipotesi di ricorso per cassazione avverso la pronunzia disciplinare del Consiglio Nazionale Forense.

La vicenda oggetto della pronuncia in esame vedeva coinvolto un avvocato assolto dalle imputazioni di falsificazione della firma nella comparsa di risposta e nella delega al sostituto processuale, per essere i fatti ascritti non più previsti dalla legge come reato poichè depenalizzati.

Il Consiglio dell’Ordine competente, avuto notizia del procedimento penale, sospendeva l’avvocato in via cautelare e, successivamente, comunicava l’avvio del procedimento disciplinare conclusosi, stante l’acquisizione della sentenza penale di assoluzione, con l’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione; avverso tale provvedimento, parte deferita proponeva ricorso al C.N.F. il quale, in parziale accoglimento, ritenendo comunque corretta la sottoposizione dell’avvocato all’azione disciplinare, riduceva la sanzione della sospensione dall’attività.

Avverso tale sentenza, l’avvocato ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

In via pregiudiziale, le Sezioni Unite hanno dichiarato l’inammissibilità del ricorso nei confronti del C.N.F. e del Consiglio Distrettuale di disciplinare per carenza di legittimità passiva in quanto, in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, tali soggetti sono terzi rispetto alla controversia e altresì autori della stessa decisione impugnata; pertanto, nel giudizio de quo, le parti vanno individuate nel soggetto destinatario del provvedimento impugnato, ovvero nel Consiglio dell'Ordine locale che, in sede amministrativa, ha deciso in primo grado e nel pubblico ministero presso la Corte di cassazione.

Con il primo motivo, l’avvocato si duole del fatto che il C.N.F. ha ritenuto la sentenza penale di assoluzione, con formula piena, priva di efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare disattendendo, in tal modo, le previsioni di cui alla L. 247/2012 e di cui all’art. 653 c.p.p. In particolare, essendo stata assolta, parte ricorrente ritiene che la decisione penale rivesta efficacia preclusiva nel procedimento disciplinare in quanto la formula “perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, escludendo l’illiceità penale del fatto, rientra in una delle previsioni di cui all’art. 653 c.p.p. Con il secondo motivo parte deferita ravvisa un’errata individuazione della normativa deontologica ratione temporis applicabile nonché lamenta, in ogni caso, l’assenza di rilevanza disciplinare nei comportamenti allo stesso contestati, quali violazione dell’obbligo di astensione, poichè il conflitto di interessi addebitatogli sarebbe stato meramente potenziale.

Con riferimento al primo motivo, le Sezioni Unite ribadiscono quanto correttamente disposto nell’impugnata sentenza richiamando la recente pronuncia delle SS.UU. n. 7366/2021 ed evidenziando che la nuova disciplina contenuta nella legge n. 247/2012 amplia l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, restando, infatti, esclusa la sospensione necessaria del primo giudizio in attesa della definizione del secondo. La Suprema Corte rammenta, altresì, che la previgente novella, introdotta con la L. 27 marzo 2001 n. 97, all’articolo 1, inseriva la previsione dell’effetto vincolante in sede disciplinare anche alla sentenza che accertava che il fatto “non costituisce illecito penale”; la riforma del 2012, con riferimento al procedimento disciplinare in carico agli avvocati, ha inteso, invero, introdurre una valutazione autonoma dei fatti da parte del giudice disciplinare ampliandone, pertanto, la discrezionalità e precludendo una valutazione disciplinare autonoma solo in presenza di una sentenza di assoluzione resa con la formula perchè “il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso”. Tali formule, infatti, vincolano il giudice disciplinare all’accertamento già operato in sede penale, diversamente dalle ulteriori formule di cui all’art. 653 c.p.p., quali "il fatto non costituisce illecito penale” che, per quanto concerne il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, non escludono “la materialità del fatto né la sua riferibilità al dipendente pubblico, ma solo la sua rilevanza penale”.

Premesso quanto sopra, la Suprema Corte ha rilevato che la formula assolutoria di cui al caso di specie, ovvero “per essere i fatti non più previsti dalla legge come reato” in quanto depenalizzati - benché diversa da quelle di cui all’art. 653 c.p.p. -, deve essere anch’essa considerata priva di efficacia vincolante in sede disciplinare per i motivi suesposti e che, pertanto, il C.N.F., nel caso in esame, ha correttamente operato una valutazione autonoma dei fatti ascritti all’incolpato.

Alla luce delle considerazioni predette, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno enunciato il principio di diritto a mente del quale, avendo la novellata L. 247/2012 introdotto una disciplina derogatoria rispetto alle previsioni di cui all’articolo 653 c.p.p., solo l’accertamento operato con sentenza penale irrevocabile che “il fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo ha commesso” riveste efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, essendo tali le uniche formule preclusive di un’autonoma valutazione dei fatti oggetto del giudizio disciplinare.

Per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, la Corte, in virtù delle considerazioni di cui infra, ha ritenuto gli assunti di parte ricorrente destituiti di fondamento. Il C.N.F. ha, infatti, correttamente accertato che la normativa di cui al nuovo Codice Deontologico trovasse applicazione nel caso di specie in quanto contenente previsioni tipizzate e più favorevoli all’incolpato rispetto alla precedente ed ha, altresì, correttamente ascritto a parte deferita la violazione dei principi in materia di conflitto di interesse, essendo stata accertata l’effettiva sussistenza del relativo addebito: l’avvocato, infatti, con le proprie condotte, ha integrato un cd. “illecito disciplinare di pericolo” che si configura anche in assenza di un concreto pregiudizio per gli interessi della parte assistita. Stante, dunque, la ravvisabilità nel caso di specie di una condotta disciplinarmente rilevante atta ad integrare un conflitto di interessi, anche potenziale, la Corte ha ritenuto le doglianze di parte ricorrente non fondate.

Per quanto attiene l’ultimo motivo di ricorso, parte ricorrente si duole del fatto che il termine prescrizionale quinquennale dell’azione disciplinare, ai sensi dell’art. 51 del R.D. n. 1578 del 1933, non decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale, bensì dalla commissione del fatto che integrerebbe l’illecito, – ovvero nel caso di specie, dall’11 novembre 2010, data di deposito della comparsa di costituzione del contenuto nel giudizio civile; dunque, considerato che la contestazione disciplinare di apertura è stata notificata all’interessato in data 15 aprile 2016 e che la stessa rappresenta il primo atto interruttivo della prescrizione, il suindicato termine prescrizionale, nella predetta data, sarebbe spirato. Orbene, secondo quanto portato dalle Sezioni Unite nella pronuncia in commento, in virtù della normativa ratione temporis applicabile al caso concreto, nell’ipotesi di responsabilità disciplinare degli avvocati per fatti costituenti anche reato, il termine prescrizione quinquennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale – ad eccezione delle ipotesi di proscioglimento perché “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso – in quanto è da tale momento che il diritto di punire può essere esercitato. Nel caso di specie, essendo il giudicato penale formatosi in epoca successiva all’inizio del giudizio disciplinare ed essendo il procedimento penale conclusosi con l’assoluzione perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, le Sezioni Unite hanno ritenuto, pertanto, la doglianza di parte ricorrente priva di fondamento. In ogni caso, anche ritenendo corrette le deduzioni di parte deferita, il termine prescrizionale quinquennale è stato certamente interrotto dalla notifica dell’avvio del procedimento disciplinare avvenuta, secondo quanto dichiarato dallo stesso avvocato, in data 27 maggio 2014, e in ogni caso, dalla comunicazione da parte del Consiglio Distrettuale di disciplinare dell’avvio della fase istruttoria preliminare effettuata in data 9 ottobre 2015.

In conclusione, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, per tutte le ragioni suesposte, rigetta il ricorso avanzato da parte ricorrente dichiarandone, altresì, l’inammissibilità nei confronti del Consiglio Nazione Forense e del Consiglio Distrettuale di disciplina.

Argomento: Ordinamento della professione forense
Sezione: Sezioni Unite

(Cass. Civ., SS.UU., 14 maggio 2021, n. 12902)

stralcio a cura di Eleonora Branno

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(…) la nuova disciplina, contenuta nella legge 31 dicembre 2012, n. 247, «amplia l'autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, prevedendo una sospensione di carattere facoltativo, mantenendo comunque fermo il disposto di cui all'art. 653 c.p.p.». Ed invero, a norma del primo comma dell'art. 54 della legge n. 247 del 2012, « 1. Il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti», mentre il secondo comma della stessa disposizione prevede - in deroga all'art. 295 cod. proc. civ. - una sospensione facoltativa «se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale (...)». (…) l'assoluzione perché «il fatto non costituisce reato» o «illecito penale» consente la autonoma «valutazione dei fatti» da parte del giudice disciplinare - in forza della disciplina derogatoria introdotta dalla legge n. 247/2012 - proprio perché i fatti stessi non sono stati esclusi dal giudicato penale. (…)

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