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Mancata informazione di possibili malformazioni del feto e responsabilità del medico
Martina Durante
Con la sentenza in epigrafe la terza sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a giudicare la portata applicativa dell’art. 6, lettera b) della legge 194/1978 sul diritto all’aborto.
L’art. 6 prevede la disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza nel periodo posteriore al primo trimestre di gestazione e, nello specifico, tale diritto può essere esercitato nel caso in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (lettera a) ovvero quando siano accertati processi patologici, anche relativi ad anomalie e malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute psico-fisica della stessa (lettera b).
La controversia origina da un procedimento giudiziario relativo a risarcimento danni, promosso da una coppia nei confronti di un medico e di un’azienda sanitaria. La donna non sarebbe stata correttamente informata circa i rischi di malformazione per il feto dovuti alla contrazione del citomegalovirus al fine di consentirle di esercitare il suo diritto legale all’aborto. Il bambino, pertanto, nasceva con gravi malformazioni comportanti un alto livello di invalidità.
Gli attori, nello specifico, hanno denunciato la violazione o falsa applicazione degli artt. 1176, 1218 e 2043 c.c., in relazione agli artt. 6 e 7 della legge 194/1978, in quanto il medico, in presenza di tale processo patologico, avrebbe dovuto a priori rappresentare ai genitori tutti i rischi possibili correlati, cosicché potessero compiere una scelta informata e consapevole. Inoltre, nonostante il decorso del termine legale per esercitare il diritto all’aborto, termine in cui il feto ha acquisito vita autonoma, la pratica poteva comunque essere attuata dato il rischio per la salute psichica della madre.
Viene poi denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 6 e 7 della legge 194/1978 in relazione agli artt. 1218 e 2967 c.c., nonché agli artt. 115 e 116 c.p.c. sulla base dell’affermazione della sentenza di secondo grado, secondo la quale al momento dell’accertamento delle malformazioni il feto godesse di vita autonoma e che, quindi, la gestante non potesse praticare l’interruzione di gravidanza.
Secondo la Suprema Corte, la pretesa risarcitoria dei ricorrenti può essere fondata sulla possibilità concreta per la madre di interrompere la gravidanza oltre al terzo mese, possibilità riconosciuta dall’art. 6 della legge 194 a determinate condizioni. In particolare, il ricorso sottopone ai Giudici l’interpretazione dell’articolo 6 lettera b) della suddetta legge, con riferimento alla rilevanza dell’aborto in presenza di quei processi patologici che si sono già esternati con malformazioni o anomalie del feto oppure alla rilevanza di quei processi patologici che possano determinare malformazioni o anomalie, anche non accertate, ove però queste possano provocare anche un pericolo per la salute della gestante.
Aderire all’una o all’altra impostazione porta a esiti opposti, e la Suprema Corte predilige la seconda impostazione prospettata.
La decisione della Corte prende le mosse, anzitutto, dalla ratio della stessa norma, ove alla lettera b) prevede che l’interruzione di gravidanza può praticarsi “quando siano accertati processi patologici, anche relativi ad anomalie e malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. Secondo i giudici, la norma vuole intendere che tra i processi patologici rientrano anche quelli inerenti alla salute del feto. Inoltre, la lettera della norma presuppone un rapporto di inerenza tra la patologia e la malformazione, ma non l’attualità della malformazione stessa, con la conseguenza che è sufficiente la probabilità che essa si verifichi. Inoltre, assume un significativo rilievo il fatto che il processo patologico può sviluppare una relazione con la malformazione, e di per sé questo implica una situazione biologica in divenire che rileva solo per il fatto di esistere e a prescindere dall’avverarsi o meno delle potenziali malformazioni.
Inoltre, va data importanza alle situazioni in cui la patologia risulti tale da poter determinare un pregiudizio psichico nella madre a prescindere dall’esistenza già di malformazioni o della scoperta del processo patologico. Da ciò consegue che il medico ha obbligo di informativa, al fine di prospettare un quadro completo della situazione e dei possibili sviluppi, e l’omissione della stessa impedisce l’acquisizione di quegli elementi che giustificherebbero l’aborto.
In considerazione di ciò, la Corte ha affermato un importante principio secondo cui l’accertamento di processi patologici che possono provocare rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso alla pratica abortiva ai sensi dell’art. 6, lettera b) della legge 194/1978 laddove determini nella gestante informata dei rischi un grave pericolo per la sua salute psico-fisica. Tale pericolo deve, inoltre, essere accertato caso per caso e a prescindere dalla circostanza per cui la malformazione o anomalia si sia già prodotta e sia stata accertata.
La Corte soggiunge affermando che il medico che privi la madre dell’informativa può essere chiamato a risarcire il danno se la madre dimostra che sarebbe ricorsa alla pratica abortiva in caso di grave pregiudizio per la sua salute psico-fisica.
In conclusione, il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza dopo il terzo mese dal concepimento è integrato in presenza di una diagnosi di un processo patologico in atto, di una prognosi di pericolo grave alla salute psico-fisica e all’impossibilità di vita autonoma del feto. La Suprema Corte, con tale sentenza, ha esteso l’ambito applicativo dell’art. 6 della legge 194/1978 anche a quei casi in cui vi è la mera probabilità che il processo patologico determini una malformazione o anomalia del feto.
Sezione: Sezione Semplice
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