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Danno biologico permanente: il giudice ha la facoltà di disporre la rendita vitalizia ex art. 2057 c.c. anche se non richiesta dalla parte
Ida Faiella
Nel caso in esame, un minore di pochi mesi veniva condotto in ospedale e visitato dal dottore di turno il quale, ipotizzando una coxalgia, gli prescriveva la somministrazione di un antinfiammatorio, dimettendolo. Il giorno seguente il minore veniva riportato al P.S. (ove era nuovamente in servizio lo stesso dottore) e dopo aver eseguito, questa volta, analisi del sangue, veniva diagnosticata meningoencefalite grave, con presenza di lesioni focali multiple sia del tronco encefalico che a livello degli emisferi cerebrali.
Dopo un giudizio preventivo, in cui la consulenza tecnica accertava la grave negligenza del dottore, si veniva a sapere che inoltre il soggetto in questione non fosse medico. I genitori del neonato, a questo punto, citavano in giudizio, chiedendone la condanna in solido al risarcimento danni morali e non, costui e l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale. Quest’ultima chiamava in causa la compagnia assicuratrice, la quale eccepiva l’inoperatività della polizza sostenendo di aver “accettato il rischio solo in virtù del legittimo affidamento che la struttura ospedaliera si sarebbe avvalsa di personale avente i requisiti legali per l'esercizio della professione medico: diversamente, non avrebbe fornito copertura all'attività o comunque non lo avrebbe fatto con lo stesso premio.”
Gli Ermellini, a cui è stato proposto ricorso, hanno vagliato il caso ritenendo, in conformità con i giudici di seconde cure, che a fronte del danno permanente subìto dal minore, più consono sarebbe stato un risarcimento sotto forma di rendita vitalizia, ed in secondo luogo che la polizza della compagnia assicuratrice coprisse la complessiva attività aziendale compresa quella posta in essere dal dipendente funzionalmente inserito nella struttura ospedaliera, pur non avente la qualifica di medico.
Ebbene, prima di poter analizzare l'istituto della rendita vitalizia è doveroso, dapprima, individuare la nozione di danno biologico che, conformemente a Cons. Stato, Sez. IV, Sent. 5413/2022, consiste nella “menomazione dell'integrità psico-fisica del danneggiato suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, tenuto conto, nell'effettuazione di quest'ultima, delle "eccezionali ed affatto peculiari" conseguenze che questa lesione ha prodotto sugli aspetti dinamico-relazionali connessi alla salute”.
La lesione del bene salute è lesione di un diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost., come indicato anche nella storica sentenza della Corte Costituzionale n. 184/1986.
Si tratta, dunque, di un detrimento del valore dell’uomo che non attiene alla sfera economica (o patrimoniale). Il danno biologico ha carattere permanente quando i postumi lesivi sono ormai stabilizzati e non passibili di miglioramento clinico-funzionale.
La natura permanente del danno si riferisce, appunto, alle conseguenze lesive del fatto illecito, ossia all'idoneità del comportamento a produrre effetti pregiudizievoli destinati a riflettersi continuativamente sulla sfera giuridica della parte lesa. Una invalidità permanente intacca lo stato di salute di una persona e comporta lesioni che hanno un’incidenza negativa irreversibile sulla vita del danneggiato. Come noto, il danno alla persona può essere patrimoniale e non, pertanto, il sistema del risarcimento ha natura bipolare. Il danno non patrimoniale è comprensivo di danno biologico, morale soggettivo ed esistenziale, non più considerabili come sottocategorie autonomamente risarcibili (Cass. civ. Sez. unite n. 26972, 11 novembre 2008). Di contro, il danno patrimoniale è rappresentato dalla perdita economica subita dal danneggiato concretizzandosi nel danno emergente e nel lucro cessante.
Il danno permanente all'integrità fisica può essere riparato ai sensi dell'art. 2057 c.c. mediante la costituzione di una rendita vitalizia (art. 1872 c.c.) per tutta la durata della vita del beneficiario e con rivalutazione, stante la gravità della situazione e l'impossibilità di stabilire, in modo oggettivo, una durata presumibile della vita stessa. “Il carattere eccezionale e temporalmente imprevedibile della situazione del soggetto leso meglio si confà alla liquidazione per mezzo di una rendita vitalizia, che a sua volta può essere quantificata in una somma mensile pari ad una frazione della somma liquidata una tantum per i danni già maturati” (Cass. Civ. 24451/2005).
Lo strumento della rendita offre un’importante criterio di valutazione per il lucro cessante, consentendo al giudice, d'ufficio (e dunque dicrezionalmente e senza la necessità di una specifica domanda in tal senso), di valutare la particolare condizione della parte danneggiata e la natura del danno, con tutte le sue conseguenze (Trib. Milano 27/01/2015) e di disporne l’istituzione con giudizio incensurabile in Cassazione, se non per illogicità della motivazione o per errore di diritto (Cass. Civ. 1140/1967; Cass. Civ. 2918/1983). La durata sine die del pregiudizio giustifica un risarcimento a cadenza regolare nel tempo, a ristoro di un danno che si ripresenta con regolarità nel corso della vita, pertanto la rendita “costituisce una forma di risarcimento per equivalente ed è fonte di un rapporto a esecuzione periodica, configurando la liquidazione della rendita non come diritto della parte, ma come facoltà del giudice” (Cass. 20.2.1958, n. 553; Cass., 24.5.1967, n. 1140).
Volgendo lo sguardo al profilo funzionale, è lapalissiano che l’istituto della rendita vitalizia prevista dall'art. 1872 c.c., sia un contratto aleatorio “che da vita ad un rapporto di durata, la cui disciplina risulta essenzialmente unitaria, applicandosi ad ogni rendita vitalizia, comunque costituita, che non sia assoggettata dalla legge ad una disciplina speciale. La rendita costituita ex art. 2057 c.c. sarà, pertanto, disciplinata dagli artt. 1872 ss. c.c., con rilevanti conseguenze poste a tutela delle ragioni del creditore, in quanto: a) il debitore non può liberarsi dall'obbligazione offrendo i pagamento di un capitale (art. 1879 co. I c.c.); b) il debitore non può invocare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1879 co. H c.c.); c) in caso di inadempimento del debitore, il creditore della rendita può far sequestrare e vendere i beni dell'obbligato (art. 1878 c.c.).”
La componente dell’aleatorietà, legata alla prospettiva di vita del risarcito, ha senza dubbio più possibilità di determinare una significativa differenza tra liquidato e liquidabile, non essendoci la possibilità di un successivo adeguamento della somma capitale tacitata. È solo, infatti, l’istituto della rendita che permette di riequilibrare la somma monetaria appostata, anno dopo anno, mese dopo mese, sulla base dei fattori imprevedibili dei flussi monetari (svalutazione) e dei miglioramenti o peggioramenti legati all’evoluzione della malattia, da cui dipende il fabbisogno monetario del danneggiato. La prestazione vitalizia, d’altro canto, a differenza della c.d. capitalizzazione del danno, nasce come obbligazione ontologicamente aleatoria, in grado, quindi, per sua stessa natura di sopportare i rischi legati a tutti gli eventuali scenari probabilistici futuri.
Orbene, nello studio di una disciplina tanto ostica, non di minor rilievo è la difficoltà di determinazione della misura del risarcimento. Dietro la vigorosa spinta della Cassazione, con la nota sentenza n. 9556/2016, il riferimento alle Tabelle di Milano è diventato consuetudinario criterio assunto come parametro nazionale per gli indennizzi.
È chiaro che, alla stregua di un’idonea valutazione del risarcimento è infondato ritenere che la morte prematura del danneggiato ne comporti una riduzione per via di un incameramento minore di somme, essendo la rendita ricavata all’esito di un calcolo che considera come base un capitale individuato a monte, e coincidente con la somma che la famiglia domandava in unica soluzione. Non ha ragion d’essere il timore di minor ristoro se la vittima dovesse venire a mancare anzitempo, poiché con la sua morte cesserebbe il pregiudizio, con corrispondente caduta della pretesa risarcitoria. Né tantomeno può ravvisarsi iniquità in caso di minor prospettiva di vita del bambino sicchè la liquidazione del capitale iniziale non deve essere calcolata con riferimento alla prospettiva di vita del danneggiato nel caso concreto, ma della durata media di vita di un soggetto sano dell’età della vittima al giorno del subìto danno. Infine, la scelta di attribuzione della rendita, in luogo del risarcimento una tantum, è da preferirsi quando “sussista il serio rischio che ingenti capitali erogati in favore del danneggiato possano andare colpevolmente o incolpevolmente dispersi, in tutto o in parte, per malafede o per semplice inesperienza dei familiari del soggetto leso.”
La pronuncia in commento ha confermato il criterio di valutazione del danno, nelle forme in cui era già stato invocato per la prima volta dalla Corte costituzionale nel 1986, tesa a garantire l’integralità del risarcimento, alla luce dei supremi principi di equità, uguaglianza e personalizzazione. La riscoperta della rendita costituisce quindi una grande opportunità per ovviare ai rischi connessi alla predeterminazione di risarcimento in sorte capitale per un danno non ancora maturato.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. III, 25 ottobre 2022, n. 31574)
Stralcio a cura di Ida Faiella
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