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Contratto d'opera e squilibrio economico, non applicabilità dell'art. 33 cod. cons.

Laura Calvaruso

 

 

La questione posta al vaglio della Suprema Corte nella sentenza in commento attiene alla configurabilità della nullità della clausola da cui si desuma una sproporzione tra l’obbligazione di prestazione d’opera professionale e l’obbligazione di pagare il corrispettivo per l’opera compiuta.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte si censurava, in particolare, la clausola con cui il professionista aveva convenuto con il cliente un compenso tale da determinare uno squilibrio economico tra le prestazioni, giustificante, a detta della parte ricorrente, l’applicazione della sanzione della nullità per violazione del II comma dell’art. 2233 cod. civ. e dell’art. 33 cod. cons.

Il Collegio ha rilevato che la ratio della previsione di un’adeguatezza del corrispettivo, parametrata all’importanza e al decoro della professione di cui all’art. 2233 cod. civ., è da rinvenire nella tutela della posizione del professionista ogniqualvolta non sia predeterminato dalle parti il compenso spettante al professionista ed il giudice sia chiamato a liquidare il suddetto corrispettivo. Il II comma della norma è un indice alla stregua del quale il giudice deve attenersi nella determinazione in via equitativa del compenso al fine di non svilire il decoro professionale e l’importanza dell’opera svolta.

Stando alle parole del Collegio giudicante, l’enunciazione dei criteri predetti, lungi dal configurare un’autonoma causa di nullità dell’accordo in caso di discostamento dagli stessi, “mira ad assicurare, nel caso in cui sia stata carente una predeterminazione consensuale del compenso, ed il giudice sia chiamato a procedere alla determinazione giudiziale del corrispettivo del professionista, una liquidazione che risulti appunto adeguata al decoro della professione svolta, impedendo quindi che la somma riconosciuta sia del tutto irrisoria e mortificante”. Pertanto, la disposizione costituisce una “previsione posta a tutela del professionista, e non anche del cliente, potendo il richiamo al decoro ed all’importanza dell’opera al più operare in funzione correttiva di una determinazione eccessivamente ridotta del compenso, tale appunto da mortificare il decoro della professione svolta”.

È opportuno dunque rintracciare se nell’ordinamento esista un diritto all’equilibrio economico delle prestazioni.

Nella fase fisiologica del rapporto, il contratto ha forza di legge tra le parti e nell’ambito dell’ampia autonomia contrattuale riconosciuta alle parti, esse sono libere di ponderare la convenienza dell’affare alla stregua di valutazioni soggettive. L’intervento del legislatore è limitato alle sole fattispecie patologiche, tali da incidere sul sinallagma contrattuale, quali la rescissione per lesione o la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Quand’anche vi fosse un’alterazione dell’equilibrio delle prestazioni (che non sconfini pur sempre nell’usura) che sia stato accettato e voluto dalle parti, poste in condizione di contrarre liberamente, è esclusa un’intromissione ope legis o ope iudicis nel regolamento negoziale.

A tale orientamento pare aderire la Corte nel caso citato laddove, pur nella consapevolezza dell’esistenza di una tesi dottrinale che ritiene applicabile il II comma dell’art. 2233 cod. civ. anche alle fattispecie in cui il corrispettivo sia predeterminato dalle parti, ritiene che i criteri dell’importanza dell’opera, del decoro professionale, delle tariffe e degli usi, siano suppletivi e sussidiari e siano applicabili in difetto di una pattuizione espressa.

Per l’opposto orientamento, avallato anche da una risalente pronuncia della Suprema Corte, l’adeguatezza del compenso all’importanza dell’opera e del decoro professionale è un criterio destinato a prevalere anche a fronte di un patto in deroga.

Con riferimento all’applicabilità della nullità prevista dall’art. 36 cod. cons. alle clausole che determinino un significativo squilibrio economico tra le prestazioni è d’obbligo tracciare preliminarmente l’ambito applicativo della disposizione.

La nullità di protezione costituisce una sanzione che incide sulla validità delle clausole contrattuali ed è azionabile dal solo consumatore, al quale è rimessa la scelta di rimanere vincolato alle clausole predette.

La ratio della tutela è da rinvenirsi nella necessità avvertita dal legislatore di colmare l’asimmetria informativa e lo squilibrio contrattuale del consumatore rispetto al professionista. Il consumatore è, infatti, definito come colui che agisce per scopi estranei all’esercizio dell’attività professionale, imprenditoriale, artigianale o commerciale eventualmente svolta e non è quindi in possesso delle conoscenze necessarie e sufficienti per ponderare adeguatamente le condizioni del contratto che è chiamato a concludere, nonché le relative conseguenze giuridiche.

Solo la ricorrenza di tale squilibrio e la conseguente natura vessatoria della clausola con cui si convenga un compenso sproporzionato al valore della prestazione legittimerebbe l’invocazione della nullità di protezione.

L’art. 33 cod. cons. definisce come vessatorie le clausole che determinano un significativo squilibrio a carico del consumatore di diritti ed obblighi derivanti dal contratto ed al secondo comma individua talune fattispecie in cui la vessatorietà è presunta. L’elencazione delle fattispecie, lungi dal considerarsi tassativa, è meramente esemplificativa.

Dal dettato normativo non è dato rinvenire alcun riferimento allo squilibrio economico tra le prestazioni. Interpretata letteralmente, la disposizione attribuisce rilevanza al solo squilibrio giuridico, inteso come sproporzione tra i diritti e gli obblighi discendenti dal contratto.

La questione deve quindi essere risolta vagliando se lo squilibrio economico tra le prestazioni sia idoneo ad essere ricompreso nella nozione di squilibrio giuridico o se possa configurare un’autonoma fattispecie idonea ad essere qualificata come clausola vessatoria.

La disposizione di cui all’art. 33 cod. cons. deve essere letta in combinato disposto con l’art. 34 cod. cons., nel quale il legislatore ha avuto cura di precisare che il carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e servizi forniti, purché tali elementi siano individuati in maniera chiara e comprensibile.

Come rilevato all’uopo dalla Corte, non è ammessa una sindacabilità sulla convenienza economica dell’affare concluso tra consumatore e professionista, in quanto “la nozione di significativo squilibrio ivi contenuta fa esclusivo riferimento ad uno squilibrio di carattere giudico e normativo e non anche economico”

L’insindacabilità della clausola de qua non deve però essere intesa in senso assoluto. Implicitamente la Corte ammette una censura quando il professionista violi i doveri di trasparenza e gli obblighi informativi sullo stesso incombenti, per cui si rende necessario colmare quella asimmetria tra le posizioni contrattuali in principio enunciata. Nel caso sottoposto alla Corte, “la censura della ricorrente non deduce una violazione dei criteri di chiarezza e comprensibilità dell’accordo, ma si limita solo a contestare una sproporzione di carattere meramente economico tra le prestazioni dedotte in contratto, sproporzione che però non può trovare rimedio nella disciplina in tema di vessatorietà delle clausole di cui ai contratti tra professionista e consumatore”.

Come ha avuto modo di osservare un’attenta dottrina, lo squilibrio economico acquista rilevanza nel giudizio di validità del contratto quando vengano violati i doveri di trasparenza e gli obblighi informativi posti a tutela del contraente debole, nonché quando vengano predisposte delle clausole che non consentano al consumatore di ponderare adeguatamente la sussistenza di uno squilibrio economico, il quale sarà scevro da censure quando non vengano violati i suddetti principi.

La suddetta conclusione è tratta da un’interpretazione sistematica delle norme. L’art. 33 cod. cons., nell’elencazione delle clausole che si presumono vessatorie, alla lett. “o)”, qualifica come vessatoria la clausola con cui il professionista aumenti il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello in origine convenuto. Anche dal menzionato dato normativo deve desumersi una prevalenza dell’autonomia contrattuale delle parti, la quale è però destinata a soccombere laddove sia preminente una tutela del contraente debole, esigenza che si esplica quando lo squilibrio economico tra le prestazioni non sia censurabile in quanto tale, ma in quanto espressione di una violazione degli obblighi di trasparenza ed informazione, che trovano il loro sostrato costituzionale nel dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. Sulle parti incombe quindi il dovere di tutelare la posizione di controparte, qualora ciò non comporti un apprezzabile sacrificio della propria posizione giuridica.

Del pari, lo squilibrio economico può dirsi rilevante quando il consumatore non sia posto nelle condizioni di valutare ex ante la convenienza dell’affare a causa di clausole che consentano al professionista unilateralmente di aumentare il prezzo del bene o del servizio, obbligando il consumatore a rimanere vincolato nelle strette maglie del contratto.

Argomento: Del contratto d'opera
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. VI, 25 novembre 2021, n. 36740)

stralcio a cura di Ilaria Marrone

"(...)In relazione al secondo comma dell’art. 2233 c.c., che prevede che in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza ed al decoro della professione, rileva il Collegio che trattasi di norma evidentemente posta a tutela della posizione del professionista, e non anche del cliente, e che, lungi dal configurare un’autonoma causa di nullità dell’accordo, mira ad assicurare, nel caso in cui sia stata carente una predeterminazione consensuale del compenso, ed il giudice sia chiamato a procedere alla determinazione giudiziale del corrispettivo del professionista, una liquidazione che risulti appunto adeguata al decoro della professione svolta, impedendo quindi che la somma riconosciuta sia del tutto irrisoria e mortificante. La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro affermato che (Cass. n. 16134/2007) poiché il principio della retribuzione sufficiente di cui all'art. 36 Cost. riguarda esclusivamente il lavoro subordinato, in materia di lavoro autonomo, qualora il compenso sia stato pattuito tra le parti anche in riferimento a criteri fissati in un d.m., non è possibile invocare, in sede giudiziaria, l'applicabilità dei diversi criteri indicati dall'art. 2233 c.c. (importanza dell'opera, decoro della professione, tariffe, usi), i quali possono assumere rilievo solo in difetto di espressa pattuizione (conf. Cass. n. 694/2000). Avendo le parti determinato il compenso in via contrattuale, non risulterebbe quindi invocabile la previsione de qua. Non ignora il Collegio come in realtà parte della dottrina propenda per una possibilità di applicazione della norma anche nel caso di determinazione convenzionale del corrispettivo, ma come detto, trattasi di previsione posta a tutela del professionista, e non anche del cliente, potendo il richiamo al decoro ed all’importanza dell’opera al più operare in funzione correttiva di una determinazione eccessivamente ridotta del compenso, tale appunto da mortificare il decoro della professione svolta. Del pari priva di fondamento è la pretesa nullità per la violazione dell’art. 33 del codice del consumo (che riprende il testo abrogato dell’art. 1469 bis c.c.) in quanto la determinazione del compenso in misura pari al 5% delle somme che sarebbero state riconosciute in sede giudiziale alla ricorrente, porrebbe un significativo squilibrio tra le prestazioni La norma, tuttavia, non è [continua ..]

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