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La natura giuridica della pronuncia dichiarativa della risoluzione del contratto

Danilo Marchese

 

 

Nella sentenza in esame, il Tribunale di Torino respingeva le doglianze proposte da OMISSIS Srl, nei confronti di AM GU., volte ad ottenere la risoluzione del contratto preliminare di permuta/vendita e la condanna della convenuta alla restituzione delle somme ricevute in esecuzione del contratto, oltre che la corresponsione di un indennizzo per le prestazioni svolte, in quanto il Tribunale adìto non ravvisava alcun inadempimento contrattuale in capo al promittente e aveva rigettato la domanda proposta, di ingiustificato arricchimento.

Pertanto, a seguito del gravame proposto da OMISSIS Srl, la Corte di appello riformava, seppur parzialmente, la sentenza impugnata e dichiarava risolto il contratto stipulato tra le parti, condannando l’appellata alla restituzione in favore dell’appellante della somma di euro 53.825,00.

A.M. GU, pertanto, proponeva ricorso per Cassazione, fondato su due motivi cui resisteva la OMISSIS S.r.l..

In via preliminare, rilevava la Suprema Corte, che l’eccezione di inammissibilità del ricorso, così come proposto controparte, per carenza dei requisiti ex art. 366, co.1, nn. 3 e 6, dovesse essere respinta, in quanto si era in presenza di una riproduzione funzionale della vicenda, sia dal punto di vista sostanziale che processuale, tale da consentirne un’attenta disamina. Il ricorso, quindi, veniva dichiarato ammissibile.

Passando poi, al merito del ricorso, il Collegio riteneva che lo stesso dovesse essere respinto.

Con il primo motivo di doglianza, la parte istante eccepiva l’insufficienza della motivazione, in quanto, il secondo grado di giudizio, non avrebbe tenuto conto della missiva avente ad oggetto la dichiarazione di risoluzione del contratto per inadempimento inviata ad OMISSIS Srl, per cui controparte avrebbe dovuto agire in giudizio entro il termine prescrizionale ordinario, decorrente dalla missiva del 2006, al fine di ottenere le somme versate in esecuzione del contratto di permuta.

Passando in rassegna al secondo motivo di impugnazione, la ricorrente lamentava, altresì, la violazione degli artt. 1458, 1454 e 1456 c.c., in quanto, secondo la normativa invocata, la parte adempiente sarebbe nelle condizioni di chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale per inosservanza del termine essenziale o per inadempimento della diffida ad adempiere, operando di diritto la risoluzione del contratto.

La Corte di Cassazione, pur riconoscendo l’erroneità della motivazione della Corte distrettuale, nella parte in cui si affermava che il momento dell’insorgenza degli obblighi derivava dalla sentenza (che pertanto avrebbe natura costitutiva, prevedendo  la correzione della motivazione ex art. 384 ultimo comma), chiariva altresì che l’errore non fosse tale da viziare l’intera decisione, in quanto le doglianze della GU apparivano del tutto  generiche, non menzionando in alcun modo il contenuto della missiva del 2006, che avrebbe determinato, secondo quanto affermato da parte ricorrente, la risoluzione di diritto del rapporto contrattuale intercorso tra le parti.

 Sul punto, vale osservare che, per consolidata giurisprudenza, mentre l’azione di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c., volgeva all’ottenimento di una pronuncia avente valore costitutivo, quella di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457, sarebbe dichiarativa dell’avvenuta risoluzione di diritto, a seguito dell’autonomia privata posta in essere dalle stesse parti del contratto.

È noto, inoltre, che nei contratti a prestazioni corrispettive, nel caso in cui uno dei contraenti non adempia le obbligazioni contrattuali, l’altro ha la possibilità di chiedere l’adempimento o la risoluzione del rapporto, salvo in ogni caso il risarcimento del danno, così come statuito dall’art. 1453 del codice civile.

In punto di diritto, occorre osservare che la risoluzione può essere disposta dal giudice a seguito di domanda giudiziale del contraente non inadempiente, oppure opera di diritto, nel caso vi sia una clausola risolutiva espressa all’interno del regolamento contrattuale, una diffida ad adempiere o un termine essenziale; in tale ultima ipotesi la sentenza è di mero accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto.

Per quanto attiene, invece, la diffida ad adempiere, è chiaro che essa ponga in essere un meccanismo di risoluzione stragiudiziale del rapporto contrattuale; il contraente non inadempiente può indicare alla controparte un termine per adempiere, decorso il quale il contratto si intende risolto.

Essa è atto recettizio, per cui produce effetti se conosciuto o conoscibile dal destinatario; durante la pendenza del termine, il creditore procedente non può chiedere la risoluzione del contratto.

Alla luce di quanto già indicato, appare chiaro che l’istituto in esame è espressione di un diritto potestativo attribuito al creditore, il quale ha il potere di modificare unilateralmente il rapporto, prevedendo un termine aggiuntivo a quello originariamente previsto per l’adempimento dell’altra parte, essendo necessaria la previsione di un termine congruo ai sensi del comma 1 dell’art. 1454.

L’assegnazione di un termine non congruo, non consente la risoluzione di diritto del contratto, congruità fissata dalla legge in un termine di almeno quindici giorni, salvo diversa pattuizione delle parti.

L’autonomia privata, tuttavia, rende possibile il fatto che le parti possano convenire espressamente che il contratto si risolva, qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta secondo le modalità stabilite.

Qualora invece vi sia un termine fissato per l’adempimento della prestazione di una delle parti, questo è essenziale per l’altra parte: anche in questa ipotesi il contratto è risolto di diritto, se entro tre giorni dalla scadenza del termine, la parte non comunica all’altra la volontà di esigere ugualmente l’esecuzione del contratto ex art. 1457 c.c.

La previsione di un termine essenziale, opera però diversamente rispetto al meccanismo della clausola risolutiva espressa e dalla diffida ad adempiere.

La risoluzione ex lege, infatti, nel caso del termine essenziale, non si verifica con il solo inadempimento, ma decorsi tre giorni dall’evento senza che la parte che ne abbia interesse comunichi all’altra la volontà all’ottenimento di una prestazione tardiva.

Pertanto, mentre l’azione di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c., è volta all’ottenimento di una pronuncia costitutiva, diretta a sciogliere il vincolo contrattuale, previo accertamento da parte dell’autorità giudiziaria circa la gravità dell’inadempimento, l’azione di risoluzione di cui all’art. 1456 c.c., non necessita di una valutazione circa la gravità dell’inadempimento, in quanto sono le parti ad aver individuato, nell’ambito dell’autonomia privata, le violazioni determinanti la risoluzione.

In quest’ultimo caso, il giudice pronuncerà una sentenza dichiarativa dell’avvenuta risoluzione di diritto, come conseguenza del verificarsi di un fatto imputabile alla controparte e espressamente previsto all’interno del regolamento contrattuale.

Argomento: Delle obbligazioni
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. VI, 26 novembre 2021, n. 36918)

stralcio a cura di Gianmarco Meo

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“(…) a seconda della natura della causa di risoluzione del contratto può aversi una pronuncia costitutiva o una pronuncia meramente dichiarativa. Difatti, secondo pacifica giurisprudenza di questa Corte, l'azione di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c., tendendo ad una pronuncia costitutiva diretta a sciogliere il vincolo contrattuale, previo accertamento da parte del giudice della gravità dell'inadempimento, differisce sostanzialmente dall'azione di risoluzione di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c., poiché in tal caso l'azione sarebbe tendente ad un pronuncia dichiarativa dell'avvenuta risoluzione di diritto a seguito del verificarsi di un fatto obiettivo previsto dalle parti come determinante lo scioglimento del rapporto (…)."

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