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I crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non sono stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione

Vito Forte

 

 

Con la sentenza in commento, sulla scorta di quanto affermato obiter dictum dalle Sezioni Unite, in data 12 marzo 2013, con sentenza n. 6070, la Suprema Corte, cassando con rinvio, precisa che i crediti di una società commerciale estinta non possono intendersi rinunciati per il solo fatto che non risultano riportati nel bilancio finale di liquidazione - attraverso un mero meccanismo automatico - eccettuata l’ipotesi in cui detta omissione sia accompagnata da ulteriori circostanze idonee a far emergere la volontà della società di rinunciare al credito de quo.

Il provvedimento trae origine da una vicenda giudiziaria riguardante l’acquisto di un autoveicolo ad opera di una società, successivamente cancellata dal registro delle imprese, che aveva instaurato a carico della venditrice un giudizio, dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, per chiedere la risoluzione del contratto e la condanna di controparte alla restituzione del prezzo (art. 1493 c.c.).

All’esito del secondo grado del giudizio redibitorio, la Corte d’Appello di Napoli dichiarava risolto il contratto, condannando la venditrice alla restituzione del prezzo.

A seguito della pronuncia della Corte partenopea, gli ex soci della società acquirente estinta, avviavano nei confronti della venditrice apposito procedimento di esecuzione forzata, notificando a quest’ultima due atti di precetto. La venditrice si opponeva al secondo dei predetti precetti, deducendo i seguenti motivi: a) ai creditori non era consentito notificare un secondo atto di precetto per il medesimo credito; b) il credito in questione non era stato appostato nel bilancio finale di liquidazione della società creditrice, onde per cui doveva intendersi rinunciato.

L’opposizione veniva dapprima rigettata dal Tribunale di Napoli Nord e successivamente accolta dalla Corte d’Appello di Napoli, poiché il mancato inserimento nel bilancio finale di liquidazione della società del credito, unitamente alla indubbia consapevolezza della sua esistenza in capo al liquidatore, dimostravano per facta concludentia la volontà della società creditrice di rinunciarvi.

Gli ex soci della società acquirente estinta proponevano quindi ricorso per cassazione, affermando, in particolare, l’impossibilità di rintracciare una volontà abdicativa tacita nell’operato del liquidatore della società.

La Suprema Corte, sulla questione, nel solco già tracciato dalle Sezioni Unite,[1] precisa che la sorte delle sopravvenienze attive e dei crediti non risultanti dal bilancio di liquidazione «non può essere stabilita ex ante in base ad una regola generale, uniforme ed automatica», rigettando l’idea per cui la mancata iscrizione di un credito nel bilancio finale di liquidazione possa rappresentare ex se tacita remissione dello stesso.

La remissione del debito è regolamentata all’art. 1236 c.c. che, invero, si occupa unicamente di disciplinare gli effetti della dichiarazione e non anche le modalità di perfezionamento del negozio; dichiarazione che estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo che questi dichiari, in un congruo termine, di non volerne profittare. La congruità del termine non è stabilita dalla legge, però si ritiene che l’opposizione del debitore debba essere ad ogni modo comunicata al creditore nel termine stabilito da quest’ultimo ovvero richiesto dalla natura degli affari o dagli usi, in forza dell’applicazione analogica dell’art. 1326 c.c.[2]

Con la remissione del debito, qualificata dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominante[3] quale negozio unilaterale a carattere recettizio, il creditore rinunzia gratuitamente in tutto o in parte al proprio diritto di credito.[4] Secondo una parte della dottrina, tuttavia, la remissione non si identifica, per struttura e per effetti, con la rinunzia, poiché quest’ultima è diretta alla semplice dismissione del diritto di credito e non comporta necessariamente l’estinzione dell’obbligazione (v. art. 1301, co. 2, c.c.). Inoltre, la rinuncia, che a differenza della remissione del debito non è soggetta a condizione, non può essere impedita dal debitore e non ha il carattere della recettizietà.[5]

La dichiarazione di remissione del debito, in difetto di un’espressa previsione normativa, non richiede una forma solenne e può quindi essere desunta da una manifestazione tacita di volontà (compreso un comportamento concludente), purché in grado di manifestare in modo univoco la volontà abdicativa del creditore, risultante da circostanze logicamente incompatibili con la volontà di quest’ultimo di avvalersi del diritto di credito.[6]

A parere della Suprema Corte «un comportamento tacito può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcun'altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione». A tal proposito, si precisa quindi che il silenzio del creditore non può ritenersi idoneo di per sé stesso a valere come manifestazione tacita di volontà in grado di integrare il consenso, bensì può assumere tale portata qualora risulti corroborato da ulteriori circostanze oggettive e/o soggettive.[7] È compito del giudice di merito stabilire caso per caso se possa presumersi ex art. 2727 c.c. una volontà abdicativa di rinuncia al credito, tenuto conto in specie di tutte le circostanze.

Pertanto, la mancata appostazione di un credito nel bilancio finale di liquidazione di una società commerciale non possiede ex se i requisiti di inequivocità di cui sopra. L’operato del liquidatore, infatti, può essere dettato da varie ragioni, diverse dalla remissione del debito ed incompatibili con quest’ultima (es. l’intenzione dei soci di cessare al più presto l’attività sociale). Ne consegue che «i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l'omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito».

Orbene, la sentenza in epigrafe delinea due precipue questioni giuridiche: da un lato, la possibilità, per la società cancellata, di rinunciare ad un proprio credito anche tacitamente, ma a condizione che la dichiarazione di remissione dello stesso risulti inequivoca; dall’altro, l’irrilevanza di una possibile aspettativa ingenerata dal titolare del diritto di credito nei confronti del debitore, che non vede iscritto il proprio debito nel bilancio finale di liquidazione.[8] In particolare, sotto quest’ultimo profilo la giurisprudenza si era già pronunciata nel senso che l’inerzia prolungata del creditore nel riscuotere il proprio credito, protratta per un tempo comunque inferiore al termine di durata della prescrizione estintiva, non può essere interpretata quale volontà abdicativa del credito, in quanto tale comportamento omissivo non costituisce una dichiarazione inequivoca di rimessione del debito.[9] Il ritardo del creditore (così come la mancata appostazione dei crediti nel bilancio finale di liquidazione), in virtù del criterio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), potrebbe rappresentare semplicemente una mera tolleranza all’inadempimento, non rappresentando una dichiarazione di rimessione del debito.

In conclusione, non si può che condividere quanto affermato dalla Suprema Corte nel caso di specie; da considerarsi indubbiamente in linea con i principi di diritto già espressi dagli ermellini, in via generale, in tema di remissione del debito.

 

[1] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6070. La sentenza in esame ha fissato tre principi di diritto con i quali disciplinare la sorte dei crediti vantati da una società estinta: a) l’estinzione della società dà vita ad un fenomeno successorio; b) dal lato passivo, tale successione comporta che dei debiti sociali rispondano i soci, nei limiti di quanto ad essi pervenuto per effetto del bilancio di liquidazione; c) dal lato attivo, tale successione comporta che i crediti sociali risultanti dal bilancio di liquidazione si trasferiscono ai soci pro indiviso.

[2] Cfr. Di Prisco, I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall'adempimento, in Tratt. Rescigno, 9, I, Torino, 1984, 298.

[3] P. Rescigno, Manuale di diritto privato, Milano, 2000, 625.

[4] È possibile rinunciare a tutti i diritti di credito, ad eccezione di quelli indisponibili da parte del titolare (es. diritti alimentari). Il credito, tuttavia, deve essere determinabile o determinato.

[5] Cfr. P. Perlingieri, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall'adempimento, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1230-1259, Roma, 1975, 168.

[6] Cfr. Civ. civ., 18 maggio 2006, n. 11749, in Foro It., 2007

[7] Cfr. Cass. civ., Sez. II, 14 giugno 1997, n. 5363, in Leggi d’Italia.

[8] Cfr. P. Rescigno, voce Obbligazioni, in Enc. dir., Milano, 1979, 150.

[9] Cfr. Cass. civ., Sez. III, 24 giugno 2004, n. 11749, in Leggi d’Italia.

Argomento: Delle obbligazioni
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. III, 26 gennaio 2021, n.1724)

stralcio a cura di Carla Bochicchio

“(…)la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcun'altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione. Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l'omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito (…)".

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