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Il rilievo d'ufficio della nullità si basa solo su fatti accertati e non su fatti ipotetici
Laura Calvaruso
Nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte veniva promosso ricorso, fondato sulla violazione degli artt. 1418 e 1421 cc e dell’art. 55 bis, comma 4 d.lgs. n. 165/2001, avverso la sentenza emessa in grado di appello che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento di parte ricorrente.
In particolare, la censura sollevata da parte ricorrente muoveva dal principio espresso nell’art. 1421 cc, a mente del quale la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, salvo diversa disposizione di legge. In altri termini, parte ricorrente, sul presupposto di una tardiva formulazione in rito dell’eccezione di nullità, sollecitava l’esercizio del potere officioso del giudice, al fine di rilevare la nullità del licenziamento per incompetenza territoriale, ai sensi dell’art. 55 bis, comma 4 d.lgs. n. 165/2001, vigente ratione temporis.
Preliminarmente è opportuno tracciare i confini applicativi della pronuncia in esame.
La Suprema Corte non si è espressa con riferimento al contrasto giurisprudenziale affrontato dalle Sez. Unite n. 10531 del 2013 in ordine alla rilevabilità d’ufficio delle eccezioni fondate su fatti non tempestivamente allegati dalle parti prescindendo dall’osservanza del principio della domanda.
La sentenza in commento si colloca piuttosto in una fase anteriore alla suddetta annosa questione.
Il collegio giudicante è stato, infatti, chiamato a pronunciarsi in ordine alla rilevabilità d’ufficio delle nullità i cui fatti costitutivi non emergono dalle allegazioni processuali delle parti, tale da sopperire alle carenze processuali di parte.
Come noto, nell’ambito del rito speciale del lavoro, i poteri officiosi del giudice sono più ampi di quelli che l’organo giudicante esercita nel rito ordinario di cognizione, mentre l’attività di allegazione dei fatti e di richiesta di prove delle parti è fisiologicamente limitata agli atti introduttivi del giudizio. Solo qualora si riscontrino nel processo situazioni patologiche è consentito alle parti effettuare tale attività anche nel corso del processo.
Conformemente al principio dell’acquisizione, tutti i fatti che emergano dagli atti di causa possono costituire il fondamento della decisione del giudice, anche se non specificamente allegati dalle parti, purché risultino in ogni caso legittimamente dagli atti di causa. Come acutamente osservato dalla dottrina, tale principio incontra tuttavia un limite: “esso non opera rispetto ai fatti costitutivi, identificatori di una situazione sostanziale diversa da quella dedotta in giudizio e rispetto alle eccezioni in senso stretto”.
Il fondamento di tale preclusione ai poteri officiosi del giudice deve essere rintracciato nel principio di rilevanza costituzionale, di cui all’art. 111 Cost., di terzietà ed imparzialità del giudice, il quale comporta, come sostenuto dalla dottrina, che il giudice non possa sopperire “all’inattività od alle omissioni colpevoli delle parti, ma l’esercizio dei suoi poteri officiosi deve essere di ausilio all’attività delle parti”. Da ciò ne consegue l’ulteriore corollario, invero non richiamato dalla Corte nella pronuncia in commento, ma che per ragioni di completezza si ritiene di dover qui rammentare, per cui laddove il giudice sia posto nelle condizioni di esercitare i suoi poteri di rilevazione d’ufficio, al fine di garantire il rispetto del diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost. e dei principi del giusto processo ai sensi dell’art. 111 Cost., deve essere pur sempre sollecitato il contraddittorio tra le parti sulle questioni oggetto di rilievo officioso.
Nonostante le preclusioni innanzi citate, i poteri officiosi del giudice assolvono alla funzione di garantire la giustizia della decisione, quale valore primario del processo. Come rilevato dalla Suprema Corte, tale primaria funzione resterebbe svisata laddove anche i poteri officiosi del giudice fossero soggetti alle preclusioni in ordine agli oneri di allegazione e prova valevoli per le parti e, nella specie, per le eccezioni in senso stretto. Ne consegue dunque che “il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”. Ed in ciò si rinviene, infatti, il discrimen tra le eccezioni in senso stretto, sollevabili nel rigoroso rispetto dei limiti anche di natura temporale previsti dal codice di rito e le eccezioni in senso lato, rilevabili a fronte dell’emersione dagli atti di causa di fatti legalmente acquisiti nel corso del giudizio.
Come ritenuto anche dalla dottrina che si è pronunciata sul punto, ciò che rileva è la legale acquisizione dei fatti agli atti di causa, per tale intendendosi l’acquisizione dei fatti conformemente alle norme del codice di rito, la cui violazione non può essere “sanata” dall’esercizio del rilievo officioso da parte del giudice, il quale si sostanzierebbe altrimenti nell’ammissibilità di prove ed eccezioni atipiche, in contrasto con il principio di legalità cui anche il giudice deve soggiacere.
Il potere del giudice non può sopperire ad una intempestiva allegazione di parte, non potendo sconfinare in un’indagine su circostanze estranee alla causa. Il potere del giudice di rilevare d’ufficio eccezioni deve essere quindi ristretto pur sempre entro i confini dell’attribuzione di rilevanza giuridica a circostanze che non siano state adeguatamente valorizzate dalle parti entro i termini preclusivi, ma che risultino pur sempre acquisiti a processo.
A tali conclusioni perviene la Corte nella sentenza in commento laddove, a fronte della denuncia di incompetenza territoriale dell’organo che aveva irrogato la sanzione del licenziamento per violazione dell’art. 55 bis d.lgs. n. 165/2001, che attribuisce la competenza ad avviare i procedimenti disciplinari e ad irrogare le relative sanzioni all’ufficio per i procedimenti disciplinari che ciascuna amministrazione individua secondo il proprio ordinamento quando il responsabile della struttura ove è prestato il servizio non ha la qualifica dirigenziale, rileva che il potere di rilevazione d’ufficio “non va sovrapposto all’introduzione nel processo di una circostanza che già non gli appartenesse, né con la proposizione di ipotesi o di percorsi di indagine finalizzati ad addivenire, da un fatto del processo, all’acquisizione al dibattito di un altro fatto, costitutivo o tale da integrare eccezione, ancora ad esso estraneo”. Il giudice non può quindi sopperire alle carenze di allegazione delle parti ed esercitare i suoi poteri su fatti di cui il giudice solo ipotizzi l’esistenza e che non risultino dagli atti di causa. Prescindendo, infatti, dall’onere probatorio, è la stessa esistenza del fatto che deve emergere dal processo ed anche se non ritualmente allegata, quantomeno deve promanare dalle risultanze istruttorie.
Nel caso di specie dagli atti di causa, non emergeva che il licenziamento fosse stato irrogato da un organo non preposto all’ufficio per i procedimenti disciplinari che ciascuna amministrazione individua secondo il proprio ordinamento quando il dipendente non ha la qualifica dirigenziale ex art. 55 bis d.lgs. n. 165/2001. Dagli atti era evincibile solo che la sanzione fosse stata irrogata da un organo territorialmente situato in un ufficio diverso da quello in cui il lavoratore espletava le funzioni, in piena aderenza con il dettato e con la ratio dell’art. 55 bis sopracitato che, lasciando impregiudicato un margine di discrezionalità della pubblica amministrazione in ordine all’individuazione dell’ufficio competente, assolve alla funzione di garantire la terzietà e l’imparzialità dell’organo che irroga la sanzione, sottraendo la relativa competenza al dirigente immediatamente preposto al lavoratore, anche al fine di tutelare il lavoratore medesimo. L’imperatività della norma deve quindi essere limitata soltanto alla garanzia della terzietà ed indipendenza dell’organo che avvia il procedimento ed irroga la sanzione, come può evincersi dalla circostanza per cui il legislatore non ha imposto ulteriori vincoli alle amministrazioni, richiamando nel tenore letterale della norma, gli ordinamenti di ciascuna amministrazione, lasciando impregiudicati ampi margini discrezionali sul punto.
Il fatto posto a fondamento dell’eccezione di nullità, ossia la mancata collocazione dell’organo che aveva irrogato la sanzione all’ufficio per i procedimenti disciplinari, non risultava dagli atti di causa ed il giudice non avrebbe dunque potuto “aprire l’esplorazione su un tema di fatto…che costituiva un’ipotesi, traducendosi altrimenti l’attività processuale non nella “rilevazione” di una possibile nullità, ma nell’avvio di un percorso di indagine rispetto all’acquisizione di circostanze ancora estranee al materiale di causa”.
La proposizione intempestiva delle circostanze a fondamento dell’eccezione di nullità non può dunque essere sanata mediante la sollecitazione del potere di rilevazione officiosa della nullità da parte del giudice, esulando dai limiti di operatività innanzi citati dell’art. 1421 cod. civ.
Sulla scorta di quanto precede, la Suprema Corte ha dunque formulato il seguente principio di diritto: “La rilevazione d’ufficio di una nullità sostanziale può avere corso esclusivamente se basata su fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendosi essa fondare su fatti di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) soltanto astrattamente possa ipotizzare la verificazione e che per essere introdotti presuppongano l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito”.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. Lav., 13 ottobre 2021, n. 36353)
stralcio a cura di Ilaria Marrone
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