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Dall'inedificabilità del terreno oggetto di contratto preliminare di compravendita consegue la risoluzione ex tunc del rapporto in applicazione dell'istituto della presupposizione
Elisa Angela Cravero
Nell’ordinanza in esame, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza resa in appello in relazione alla mancata considerazione della compromissione dello ius aedificandi in relazione alla domanda avanzata dalla promissaria acquirente con riferimento a un contratto preliminare stipulato con i due promittenti venditori, avente a oggetto dei terreni agricoli, inseriti in un progetto di sviluppo urbanistico dell’area, mentre, per la restante parte permaneva vincolo ferroviario.
In particolare, nonostante il minor valore delle aree agricole promesse in vendita, le parti avevano concordato per un corrispettivo maggiore a fronte del collegamento a un’operazione urbanistica che coinvolgeva un area adiacente, progetto che, tuttavia, risultava poi compromesso due anni dopo la sottoscrizione del contratto preliminare, a fronte dell’intervento del Comune di Verona circa la delibera di una variante che incideva sull’indisponibilità di oltre un terzo delle aree, sulle quali veniva apposto vincolo espropriativo.
Sia in primo grado sia in sede di impugnazione della sentenza, veniva escluso qualunque inadempimento in capo alle parti, con espresso riferimento ai promittenti venditori, in capo ai quali non veniva ravvisata alcuna colpa contrattuale tale da potersi applicare l’ipotesi del recesso ex art. 1385 c.c. (che veniva poi illegittimamente mutato in risoluzione in appello, come rilevato dalla Cassazione), e ciò anche a fronte del fatto che, i giudici di merito ritenevano come la variante di carattere amministrativo fosse, al momento, non provvida di conseguenze tali da evidenziare una modifica definitiva dell’area in grado di giustificare lo scioglimento del vincolo negoziale.
Invero, venivano esclusi tutti i presupposti fondanti le ipotesi codicistiche di risoluzione del contratto, non trattandosi né di impossibilità sopravvenuta – a fronte dell’assenza di impedimento assoluto e definitivo della prestazione – né di eccessiva onerosità sopravvenuta, in quanto una modifica del tracciato era considerata prevedibile secondo la diligenza dell’uomo medio. Parimenti veniva escluso il factum principis proprio per la mancanza di provvedimento amministrativo.
Ebbene, pur condividendo le argomentazioni ut supra, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno richiamare la Corte di merito circa in ordine all’impossibilità di ritenere quale indifferente al mondo giuridico la portata del mutamento della situazione urbanistica del bene, ancorché, a fronte della mera apposizione del vincolo urbanistico, il proprietario non abbia diritto a ricevere alcun indennizzo.
Segnatamente, nel contesto di un contratto di preliminare di compravendita, deve essere sempre concessa al promissario acquirente la facoltà di far valere il mutamento di destinazione del bene sopravvenuto rispetto alla stipula (v. Cass. 20 marzo 2006, n. 6166 (Rv. 587469-01); Cass. 11 aprile 2017, n. 9314), ogni qualvolta l’operazione economica sottesa alla stipula debba ritenersi pregiudicata anche da un vincolo che, in prospettiva, possa incidere sulla libera commerciabilità del bene.
Tenuto conto di come, nel caso in esame, tralasciando la presenza di norma di salvaguardia, rimaneva comunque l’obbligo per il proprietario di osservare la destinazione impressa ai terreni senza poter realizzare interventi edilizi di sora, ne conseguiva e ne consegue l’effettiva limitazione dello status di proprietario, tale da modificare gravemente le potenzialità edificatorie dei beni.
È in questo contesto, dunque, che la Suprema Corte ricorda la sussistenza dell’istituto della presupposizione quale fondamento della possibile risoluzione del contratto, ove il promissario acquirente non intenda comunque accettare la modifica della causa in concreto del negozio e procedere giudizialmente ex art. 2932 c.c.; chiaramente, a fronte della possibilità di applicazione strumentale della fattispecie, la Cassazione evidenzia come la legittimazione ad agire spetti unicamente nel caso di:
- Inedificabilità sopravvenuta alla conclusione del contratto;
- Volontà di entrambi contraenti, al momento della formazione del consenso, di porre l’edificabilità del fondo quale presupposto oggettivo per la stipula,
e ciò, anche in assenza di espresso riferimento nel contratto preliminare.
Pertanto, se ne conclude come, in materia di sopravvenuta inedificabilità di un fondo successiva alla stipula del contratto preliminare, occorra, da parte del Giudicante, una valutazione complessiva sul contenuto delle clausole contrattuale e un’indagine accurata sulla volontà intesa dai contraenti nella fase di negoziazione, cosicché possa legittimamente invocarsi la presupposizione nel caso di compresenza delle circostanze anzidette[1].
Diversamente:
- Se l’edificabilità veniva prospettata dal venditore, ignorando la vera natura del bene (al netto delle ipotesi di dolo), si applicherà l’errore di fatto sulla qualità dell’oggetto, e il conseguente annullamento del contratto;
- Se l’edificabilità era espressamente garantita dal venditore, si applicherà l’ipotesi dell’art.1489 c.c., e la conseguente possibilità di applicare i rimedi della diminuzione del prezzo/risoluzione del contratto ex art. 1480 e ss c.c.
[1] Corte appello Napoli sez. VII, 07/02/2023, (ud. 12/01/2023, dep. 07/02/2023), n.514: “Le eventuali diverse determinazioni delle competenti autorità in materia urbanistica possono poi determinare, in applicazione dell'istituto della presupposizione, la risoluzione del contratto di compravendita di un immobile che le parti abbiano concluso nel comune presupposto della sua edificabilità, sempreché tale fatto non abbia costituito oggetto di espressa regolamentazione. In nessun caso sono applicabili alla fattispecie gli artt. 1490 e 1492 c.c., relativi ai vizi redibitori, che attengono esclusivamente alla materialità del bene venduto" (cfr. Cass. n. 27916/ 2017)”.
Tribunale Lecce sez. I, 10/06/2020, (ud. 09/06/2020, dep. 10/06/2020), n.1292
“Secondo la più recente giurisprudenza sul punto, recepita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, "si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto - comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo - essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività - e certo - sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo da assurgere a fondamento - pur in mancanza di un espresso riferimento - dell'esistenza ed efficacia del contratto" (Cass. n. 9909/2018); per la dottrina tradizionale e maggioritaria, l'istituto in esame si avvicina, per un verso, ad una particolare forma di condizione da ritenersi implicita e comunque non espressa, e, per altro verso alla causa del contratto, ove per causa si intenda la funzione concreta che il contratto è destinato a realizzare nello specifico affare: nella prima accezione la presupposizione si caratterizza in senso prevalentemente soggettivo, nella seconda assume una connotazione maggiormente oggettiva.
Ancora in tempi più recenti, si è fatta strada l'ipotesi dogmatica che avvicina il fenomeno della presupposizione al trasversale nozione di "buona fede" – già con riguardo all'interpretazione della volontà dei contraenti - che permea l'intero sistema giuridico ordinamentale, quale diretta applicazione dell'art. 2 Cost.
Tralasciando ogni approfondimento teorico del tema, appare opportuno in questa sede ricordare che, secondo l'orientamento ermeneutico della Corte di Cassazione, si rinviene la presupposizione allorquando (Cass. n. 12235/07) «una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso - pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali - come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l'evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629). Sicchè la "presupposizione è ... configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all'esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorchè a tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento" (Cass. 9.11.1994, n. 9304)”
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. II, 15 maggio 2024, n. 13435)
Stralcio a cura di Giorgio Potenza
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