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Contratto di locazione nullo: il conduttore ha diritto di ripetere i canoni versati ex art. 2033 ed il locatore può far valere l'ingiustificato arricchimento ex art. 2041
Fabrizio Petillo
L’attore, qualificandosi come conduttore di un immobile, adiva l’Autorità Giudiziaria al fine di ottenere l’accertamento della nullità del contratto di locazione per mancanza di forma scritta e della registrazione dello stesso e, conseguentemente, la restituzione, da parte del convenuto, dei canoni corrisposti in esecuzione del contratto invalido.
Il Giudice di primo grado – preso atto della contumacia del locatore convenuto - rigettava la domanda, non ritenendo, tra l’altro, di poter qualificare quello descritto dal ricorrente come rapporto di locazione.
Il ricorrente proponeva, quindi, appello avverso la suddetta pronuncia di primo grado e la Corte di Appello, pur qualificando il rapporto contrattuale intercorso tra le parti come locazione e pur accertando la nullità del suddetto contratto orale per mancanza di forma scritta e registrazione, ai sensi dell’art. 4 della L. n. 431/1998, rigettava la domanda di restituzione dei canoni corrisposti in virtù del contratto nullo ritenendo che, una tale statuizione, avrebbe determinato un arricchimento senza giusta causa nei confronti del conduttore appellante.
Più nello specifico, il Giudice di secondo grado rigettava la domanda di restituzione dei canoni perché la stessa, avendo ad oggetto la totalità dei canoni corrisposti nel corso degli anni, avrebbe determinato, come sopradetto, un arricchimento senza giusta causa del conduttore, il quale, tra l’altro, non aveva richiesto la riconduzione del contratto di locazione verbale alle condizioni di cui alla Legge n. 431/1998, e aveva domandato inoltre, per la prima volta in appello (quindi inammissibilmente ai sensi dell’art. 345 c.p.c.), la restituzione della differenza di quanto pagato oltre il cd. “canone agevolato” quando, in primo grado, aveva invece richiesto la restituzione della totalità dei canoni di locazione.
Il conduttore proponeva, quindi, ricorso per cassazione, fondando lo stesso su sette motivi.
Si riporta qui esclusivamente il primo motivo articolato dal ricorrente, sia per ragioni di sintesi sia, soprattutto, in considerazione del fatto che la Suprema Corte si è pronunciata esclusivamente in relazione allo stesso:
- Tramite il primo motivo il ricorrente lamentava – ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 4) c.p.c. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. (il quale avrebbe dovuto essere applicato, a parere del ricorrente, determinando l’integrale restituzione di quanto corrisposto in virtù di un contratto del quale era stata accertata la nullità e, quindi, l’assenza di effetti giuridici prodotti) e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (avendo il Giudice di secondo grado, tramite la stessa, statuito in tema di arricchimento senza giusta causa in assenza di un’eccezione di parte ex 2041 e 2042 c.c.);
LA DECISIONE
La Suprema Corte, come detto, ha accolto il ricorso ritenendo fondato il primo motivo posto a sostegno dello stesso (e ritenendo assorbiti i restanti).
In particolare, secondo il Giudice della nomofilachia, la Corte di Appello ha errato in diritto nel momento in cui ha applicato le disposizioni codicistiche relative all’arricchimento senza giusta causa senza un’esplicita eccezione di parte e ha errato, altresì, nel non disporre l’integrale restituzione, ex art. 2033 c.c., di quanto corrisposto in virtù del contratto nullo.
La Corte di cassazione è partita dall’assunto che, a fronte di un contratto nullo – o, generalizzando, in tutte le ipotesi in cui viene meno la giustificazione causale della prestazione perché è venuto meno il vincolo originariamente esistente –, in virtù dell’istituto dell’“indebito oggettivo”, quanto corrisposto in esecuzione del contratto invalido deve essere integralmente restituito, anche quando la “controprestazione”, come nel caso di specie, non è ripetibile.
Quanto sopra detto, che vale secondo la Suprema Corte in linea generale, sarebbe confermato proprio, indirettamente, dalle disposizioni del Codice civile che prevedono, invece, “eccezioni” alla sopracitata “regola”.
Si pensi, ad esempio, all’art. 1458 c.c. che, in tema di contratti ad esecuzione continuata o periodica, sottrae i suddetti contratti all’effetto retroattivo tipico della risoluzione, o al noto art. 2126 c.c. che fa salvo il diritto alla retribuzione del lavoratore in caso di contratto nullo eseguito.
Si tratta però, come precisa la Corte di cassazione, di norme eccezionali che, confermando indirettamente la “regola” sopraenunciata, non sono neanche suscettibili di applicazione analogica (qui la Corte di cassazione pare richiamare, implicitamente ma chiaramente, quanto previsto dall’art. 14 delle cd. “Preleggi”).
Chiarito quanto sopra, la Suprema Corte si è poi soffermata ad esaminare due precedenti che, a parere del Giudice di legittimità, non smentiscono il principio sopraesposto e non possono, in alcun modo, essere richiamati per fondare l’erroneo diverso principio in virtù del quale, quando la prestazione eseguita in base ad un contratto di locazione nullo non può, per sua natura, essere ripetuta (godimento dell’immobile), allora non potrà essere disposta la restituzione dei canoni corrisposti, altrimenti si verificherebbe un arricchimento senza giusta causa.
In particolare, il primo - invero risalente nel tempo (Cass., sez. III civ., sent. n. 4849/1991) -riguarda una fattispecie peculiare in cui il locatore aveva richiesto, oltre alla restituzione dell’immobile, anche il risarcimento del danno e, quindi, la domanda di trattenimento dei canoni era stata considerata implicita in quella, appunto, volta ad ottenere il risarcimento del danno.
La seconda pronuncia invece, più recente (Cass., sez. III civ., ord. n. 3971/2019)[1], pare essere criticata dalla Corte di cassazione nella misura in cui la stessa, pur stabilendo erroneamente la non ripetibilità dei canoni corrisposti in virtù del contratto nullo, non argomenta e giustifica in modo puntuale tale statuizione, pur richiamando l’art. 2041 c.c., e pare ignorare quanto sopradetto circa l’“eccezionalità” di quanto disposto, in relazione alla diversa ipotesi della risoluzione, dall’art. 1458 c.c.
In definitiva, quindi, la Suprema Corte ha stabilito che, in caso di contratto di locazione nullo, al ricorrere di tutti i presupposti dell’istituto dell’arricchimento senza giusta causa ex art. 2041 c.c. (e, quindi, prima di tutto, in presenza di un’eccezione da parte del locatore), allo stesso potrà farsi ricorso per tutelare le ragioni di chi ha eseguito la prestazione non ripetibile (il locatore appunto) tenendo presente che, ovviamente, quest’ultimo avrà diritto, in applicazione proprio dell’art. 2041 c.c., ad un’indennità pari alla diminuzione patrimoniale che ha subito e non al guadagno che avrebbe ottenuto se fosse stato eseguito il contratto invalido.
In mancanza, applicando rigorosamente l’art. 2033 c.c., al conduttore dovranno essere restituiti integralmente tutti i canoni corrisposti in virtù del contratto di locazione nullo.
CONCLUSIONI
In relazione alla pronuncia in esame pare sia possibile, prima di tutto, muovere una critica positiva nella misura in cui la stessa, pur mantenendo fermi i principi e la rigorosa applicazione delle disposizioni codicistiche (art. 2033 c.c. e art. 2041 c.c.) – senza ricorrere, tra l’altro, a non consentite applicazioni analogiche di norme eccezionali -, riesce a perseguire anche esigenze di giustizia sostanziale e di “rispetto dell’equilibrio sinallagmatico”, non prevedendo solo la pura e semplice restituzione dei canoni corrisposti in virtù di un contratto nullo e improduttivo di effetti grazie al quale, però, si è comunque goduto dell’immobile altrui[2].
La scelta di fare ricorso all’istituto dell’arricchimento senza giusta causa di cui all’art. 2041 c.c. pare coerente anche con la natura “residuale” del suddetto strumento, riconosciuta dall’art. 2042 c.c.[3], e con la sua funzione tipica che, appunto, è quella di garantire soluzioni di “giustizia sostanziale” quando la rigorosa applicazione delle norme non consente di tutelare adeguatamente gli interessi di tutte le parti coinvolte.
Un ulteriore dato positivo che è possibile segnalare in relazione alla pronuncia in esame, come già detto, è che la stessa pare chiarire definitivamente come, in applicazione degli art. 2033 e 2041 c.c., possano essere comunque bilanciati gli interessi delle parti rispettando puntualmente le regole del diritto civile, superando così l’isolato ed errato principio espresso nel lontano 1991 - ma richiamato, recentemente, nel 2019 –, e consentendo, forse, di fare chiarezza definitiva su quella che può essere considerata, oramai, la posizione della giurisprudenza di legittimità maggioritaria[4].
[1] La pronuncia del 2019 della Suprema Corte, in effetti, appare criticabile perché richiama il principio espresso nella precedente sentenza del 1991 nella quale, però, come sopradetto, era stato domandato anche il risarcimento del danno. L’ordinanza del 2019 enuncia un principio che, ad una lettura più attenta, pare porsi effettivamente in contrasto con quello enunciato dalla ordinanza che qui si commenta (e che pare, oramai, pacifico in giurisprudenza). Difatti, la Suprema Corte, nel 2019, ha affermato che, anche a fronte di un contratto nullo, non è possibile la restituzione dei canoni quando la prestazione eseguita da controparte (concessione in godimento dell’immobile) non sia ripetibile, perché ciò determinerebbe un arricchimento senza giusta causa (nell’enunciare tale errato principio, non a caso, il Giudice di legittimità non ha potuto far altro che richiamare l’unico e isolato precedente del 1991 suddetto). Tale statuizione netta, a ben vedere, si pone in contrasto con quella espressa dalla ordinanza del 2024 in commento (e, lo si ribadisce, con quanto statuito da quella che sembra essere la giurisprudenza di legittimità maggioritaria), dal momento che la nullità del contratto determina, da sola, l’obbligo di restituire i canoni di locazione, ferma la possibilità, ai sensi dell’art. 2041 c.c., di riequilibrare le posizioni delle parti, non consentendo di trattenere i canoni ma, semplicemente, garantendo a chi ha comunque concesso in godimento l’immobile, la possibilità di ottenere il mero indennizzo di cui al sopracitato art. 2041 c.c. Solo ad una lettura superficiale, quindi, le due pronunce (2024 e 2019) sembrano enunciare il medesimo principio.
[2] Il principio espresso con l’ordinanza in commento pare, come sopra anticipato, oramai consolidato in giurisprudenza. Si veda, per tutte, Cass., sez. III civ., sent. n. 20383/2016 (citata anche nella ordinanza del 2024 di cui si discute e che, sul punto, si presenta, a parere dello scrivente, molto puntuale e ben argomentata e nell’ambito della quale, non a caso, è possibile anche leggere una critica a quanto statuito dalla Suprema Corte nel lontano 1991), ma anche, come ulteriore esempio di sentenza conforme che è possibile citare, Cass., sez. III civ., sent. n. 25503/2016 (anch’essa molto ben argomentata) tramite la quale è stato ribadito il medesimo principio, in base al quale, a fronte di un contratto di locazione nullo, ai sensi dell’art. 2033 c.c., devono essere restituiti i canoni corrisposti, ferma la possibilità per il locatore, come detto, di eccepire l’ingiustificato arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c. al fine di ottenere esclusivamente l’indennizzo previsto da tale disposizione. Tale seconda pronuncia della Suprema Corte, inoltre, aggiunge che, in teoria, ricorrendone i presupposti, in alternativa all’indennizzo ex art. 2041 c.c., potrebbe essere richiesto anche il risarcimento del danno extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c.
[3] Nella relazione al Codice Civile (n. 792), in relazione all’istituto dell’arricchimento senza giusta causa, si legge: « Una larghissima corrente di dottrina e di giurisprudenza si è già orientata, de iure condito, verso il riconoscimento di un'azione generale di arricchimento diretta ad ovviare all'indebita locupletazione nei casi in cui non sia impedirla con l'esperimento di azioni particolari della stessa (art. 1190, 1443, 1769, 2037 terzo comma, 2038 ecc.) o di diversa natura »; e, inoltre, si precisa: « Il codice nuovo ha accolto questo indirizzo, corrispondente agli scopi di giustizia e di equità che l’ordinamento giuridico deve realizzare specie se vuole esprimere dal suo seno uno spirito di solidarietà. Questo spirito non può tollerare spostamenti patrimoniali disgiunti da una causa giustificatrice. Il suum cuique tribuere, principio etico assunto nella sfera del diritto, vieta che si tuteli l’aumento patrimoniale conseguito ingiustamente, per non attribuire ad un soggetto un vantaggio che spetta invece ad altri, e correlativamente per non assoggettare quest’ultimo ad una ingiusta perdita».
[4] Vedi nota n. 2. Nell’ambito della giurisprudenza di merito si veda, tra le pronunce che enunciano un principio conforme a quello ribadito dall’ordinanza della Suprema Corte del 2024 in commento, Corte di Appello di Firenze, sez. civ., sent. n. 526/2015.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. III, 16 dicembre 2024, n. 32696)
Stralcio a cura di Giovanni Pagano
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