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Non è necessario specificare la tipologia dei danni di cui si chieda il risarcimento, purché la domanda abbia ad oggetto un diritto c.d. autodeterminato

Cecilia De Luca

Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte di Cassazione, nella sua Sezione Seconda, ha avuto modo di pronunciarsi sulle seguenti questioni: i presupposti e la relativa disciplina giuridica perché una domanda possa considerarsi “nuova” nel giudizio di appello; la corretta qualificazione di un diritto azionato in giudizio come “autodeterminato” o “eterodeterminato” ed i relativi risvolti applicativi sul piano giuridico; sulla categoria giuridica e la disciplina processual-civilistica della “chiamata in causa di terzo responsabile” ed infine sul regime normativo relativo alla rovina ed ai difetti di cose immobili della figura contrattuale dell’appalto.

Per quanto concerne lo svolgimento dei fatti, (omissis) conveniva innanzi al Tribunale di Pistoia l’(omissis) per sentirlo condannare all'eliminazione dei difetti presenti nell'immobile acquistato dall'attore, alla corresponsione della differenza tra il prezzo d'acquisto e il minor valore dell'immobile, nonché al risarcimento dei danni.

A sostegno della sua pretesa, esponeva l'attore che aveva acquistato dal (omissis) una porzione di un fabbricato edilizio al cui interno aveva da subito notato tracce di umidità, minimizzate dal venditore, il quale riferiva di un episodio di malfunzionamento della pompa di sollevamento delle acque chiare; una volta trasferitosi nell'abitazione, si erano però verificati episodi di tracimazione e rigurgito di acque nere con allagamento del seminterrato.

Si costituiva il venditore chiedendo l'autorizzazione alla chiamata in causa della società costruttrice del fabbricato, (omissis).

Il Tribunale di Pistoia condannava il (omissis) al pagamento di in una somma di denaro a titolo di riduzione del prezzo; escludeva la responsabilità della società costruttrice, sia perché il convenuto si era limitato a chiedere di essere da questa manlevato, senza tuttavia esperire una vera e propria azione ex art. 1669 cod. civ., sia perché sarebbe comunque trascorso il decennio dall'ultimazione dell'opera.

La pronuncia veniva appellata da (omissis) innanzi alla Corte d'Appello di Firenze; proponeva appello incidentale avverso la medesima pronuncia (omissis). La Corte territoriale riformava parzialmente la sentenza del giudice di prime cure: in accoglimento dell'appello incidentale, condannava il (omissis) anche al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali in favore dell'acquirente (omissis); in accoglimento dell'appello principale, condannava (omissis) a tenere indenne il (omissis) da tutte le conseguenze economiche della condanna del venditore, oltre alla rifusione delle spese legali.

Osservava la Corte (per quel che qui ancora rileva): ricorre l'ipotesi di responsabilità della società costruttrice ex art. 1669 cod. civ., sia perché il dies a quo - dal quale decorre il calcolo del periodo decennale entro il quale deve essere effettuata la scoperta del vizio - coincide con il compimento dell'opera, ossia con il collaudo della costruzione; sia perché la scoperta del grave difetto di costruzione, consistente nella non corretta realizzazione del raccordo tra tubazione interna in uscita e fognatura pubblica, coincide con il deposito della relazione del CTU quale momento dal quale il committente consegue la conoscenza oggettiva della sussistenza e gravità dei difetti, a partire dal quale decorre il termine per la denuncia del vizio ex art. 1669 cod. civ.: benché - precisa la Corte territoriale - a tale data il diritto di invocare la responsabilità del costruttore era già stato azionato; contrariamente a quanto affermato dal giudice di prime cure, deve ritenersi che la domanda formulata dal venditore in primo grado involge una richiesta di accertamento della responsabilità della costruttrice ex art. 1669 cod. civ., sia perché il convenuto riteneva di dover essere tenuto indenne da detta società, sia perché il venditore riteneva che fosse il costruttore a dover risarcire il danno lamentato, sia per la natura dei vizi accertati dal CTU e fatti valere in giudizio, riferibili al momento di edificazione dell'immobile; tanto più che (omissis) aveva fondato l'integrale difesa in primo grado proprio sulla intervenuta prescrizione e decadenza dell'esercizio dell'azione di responsabilità ex art. 1669 cod. civ.; resta provato, alla luce delle emergenze documentali in atti, che il venditore fosse perfettamente a conoscenza dei problemi di deflusso delle acque nere prima della vendita, pur attribuendone la causa alla conduttura comunale: usando gli ordinari criteri di buona fede e correttezza ex art. 1175 cod. civ., egli avrebbe dunque dovuto portare a conoscenza del compratore l'esistenza di tali problemi fognari, sin dalla fase delle trattative; la formula generica utilizzata dall'attore in primo grado per chiedere il risarcimento dei danni poteva essere specificata nelle sue voci in comparsa conclusionale; avendo il (omissis) prodotto in giudizio fatture e ricevute mai contestate ex adverso, la richiesta risarcitoria deve essere accolta, sommandosi all'importo già dovuto dal venditore a titolo di riduzione del prezzo.

Relativamente alla prima questione nell’incipit accennata, l’attuale formulazione dell’art. 345, frutto della riforma del 1990, delinea un appello tendenzialmente chiuso ai nova, accentuandone la funzione di revisio prioris instantiae, sebbene le deroghe non siano poche né trascurabili.

Confermando una soluzione tradizionale, che suole farsi discendere dal principio del doppio grado di giurisdizione, l’art. 345, primo comma, c.p.c. esclude che nel giudizio di appello possano proporsi «domande nuove» e prevede, per il caso in cui il divieto sia violato, che le nuove domande siano dichiarate inammissibili anche d’ufficio; il che significa che esse rimarranno liberamente proponibili – salvi i limiti che potrebbero derivare dal giudicato formatosi su altre domande incompatibili, in un separato giudizio.

Tale preclusione ammette modestissime deroghe solamente per la richiesta degli interessi, dei frutti e degli accessori maturati dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, nonché per la domanda di risarcimento dei danni posteriori alla sentenza stessa, sull’implicito presupposto, peraltro, che la relativa domanda fosse stata già avanzata in primo grado. Più che di domande realmente nuove, d’altronde, parrebbe trattarsi, in questi casi, di un ampliamento meramente quantitativo del petitum originario, giustificato da fatti sopravvenuti, che potrebbero estendersi, in quanto tale, anche al di là delle fattispecie espressamente contemplate dalla norma in esame. È pacifico che si sottragga al predetto divieto, nonostante la mancanza di una disposizione ad hoc, esistente invece per il giudizio di cassazione, ex art. 389, la richiesta di restituzione di quanto sia stato eventualmente corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado.

Ciò premesso, resta tuttavia da stabilire se in appello sia possibile modificare in qualche misura le domande che erano state proposte in primo grado, senza incorrere nel divieto di domande nuove.

A questo riguardo era abbastanza pacifico, fino a qualche tempo fa, che la “novità” della domanda dovesse valutarsi, in appello, con i medesimi criteri utilizzati in relazione al processo di primo grado; sicché si riteneva che l’art. 345 escludesse senz’altro la mutatio libelli, ma lasciasse implicitamente aperta la strada tanto alla “modifica” – emendatio – quanto, a fortiori, alla semplice “precisazione” delle domande formulate in primo grado: ad ogni variazione, che non incidesse sulla “identità” delle domande medesime.

Oggi, però, alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale secondo cui la “modifica” della domanda originaria, espressamente contemplata in primo grado dell’art. 183, quinto comma, c.p.c. potrebbe consistere anche in una variazione radicale del petitum e/o della causa petendi, a condizione che la domanda modificata rappresenti una trasformazione di quella originaria e non si aggiunga ad essa, è alquanto dubbio che il medesimo criterio possa applicarsi, in assenza di una analoga previsione normativa, nel giudizio di appello; ed è preferibile ritenere, invece, che questa in sede debbano continuare ad ammettersi le sole variazioni che non stravolgano la domanda originaria.

In tale prospettiva può osservarsi che la giurisprudenza mostra maggiore rigidità in relazione alla sostanziale identità del bene giuridico perseguito dall’attore, cioè al petitum c.d. mediato, mentre appare più flessibile rispetto al tipo di provvedimento concretamente richiesto al giudice, il c.d. petitum immediato, le cui variazioni vengono talora ricondotte nell’ambito della mera emendatio libelli.

Per quel che concerne la causa petendi, invece, si è soliti escludere le variazioni che si traducano nell’allegazione dei fatti costitutivi radicalmente diversi rispetto a quelli indicati in primo grado; sì da introdurre nel giudizio di secondo grado un nuovo tema d’indagine, mentre non di rado si è ammessa, per converso, la prospettazione di una diversa qualificazione giuridica del rapporto fondata sui medesimi fatti o comunque sui fatti già allegati in primo grado.

Non vi è dubbio, infine, che sia consentita anche in appelli la mera precisazione della domanda; ipotesi alla quale deve ricondursi, secondo la soluzione che appare preferibile, anche la deduzione di un nuovo fatto costitutivo di un diritto autodeterminato, come la proprietà o altro diritto reale di godimento.

L’art. 345, secondo comma, c.p.c., riprendendo la medesima espressione adoperata nell’art. 647, secondo comma, esclude «le nuove eccezioni (processuali e di merito) che non siano rilevabili anche d’ufficio».

In tal modo, si ripropone in appello sia la distinzione tra le eccezioni, di merito, in senso stretto, riservate all’iniziativa delle parti, e le eccezioni in senso lato, rilevabili anche d’ufficio, sia l’ulteriore distinzione tra le eccezioni vere e proprie, da una parte, e le mere difese, in fatto o in diritto, dall’altra.

In primo luogo, dunque, è chiaro che, laddove si acceda alla tesi secondo cui le eccezioni di merito sono per principio rilevabili d’ufficio, la limitazione posta dall’art. 345 risulta meno incisiva di quanto potrebbe apparire prima facie, e comunque non esclude, secondo l’opinione più persuasiva e fedele alla lettera della norma in esame, che in appello, ferme restando le preclusioni istruttorie, vengano allegati nuovi fatti estintivi, impeditivi o modificativi, ogniqualvolta si tratti di fatti che non sono subordinati, nel loro operare, all’eccezione della parte interessata.

Resta da stabilire come le nuove eccezioni si coordinino con la struttura del giudizio di appello, e dunque fino a quando esse debbano considerarsi proponibili.

A questo riguardo una nuova distinzione s’impone: per le nuove eccezioni processuali, fondate su questioni pregiudiziali di rito o su nullità, formali o extraformali, di cui la legge, esplicitamente o implicitamente, ammette la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio – si vedano gli artt. 70, 102, 158 e 161, secondo comma, deve ritenersi che il potere-dovere del giudice d’appello di rilevare l’impedimento alla decisione di merito prescinda dall’iniziativa delle parti, rimanendo subordinato solo all’esistenza di un’impugnazione idonea ad investirlo del riesame della domanda; sicché le parti stesse, parallelamente, potranno prospettargli la relativa questione in qualunque momento, fino alla precisazione delle conclusioni; per le eccezioni di merito, invece, è necessario ulteriormente distinguere, a seconda che la domanda sia stata rigettata o accolta: nel primo caso il giudice di appello potrebbe sempre porre a base della decisione di conferma, indipendentemente dall’iniziativa della parte interessata, il fatto estintivo, impeditivo o modificativo, rilevabile anche d’ufficio, che nessuno aveva dedotto in primo grado, e conseguentemente le stesse parti potrebbero introdurre la relativa eccezione per tutto il corso del processo di secondo grado; se la domanda, al contrario, è stata accolta, la proposizione della nuova eccezione costituisce, stando alla soluzione che più appare corretta, esercizio del potere d’impugnazione e pertanto non può non esser compresa nei motivi d’appello, a norma dell’art. 342, sicché dovrà avvenire contestualmente all’impugnazione, principale o incidentale.

Per quel che riguarda, poi, le mere difese, deve ritenersi che a maggior ragione esse, pur quando si traducano nella contestazione di fatti allegati dall’avversario, sfuggano alla preclusione prevista per le eccezioni in senso stretto e restino proponibili, pertanto, anche in appello.

Tale conclusione, peraltro, è inevitabilmente connessa alla controversa interpretazione dell’art. 115, primo comma, c.c. in cui è previsto che il giudice possa porre a fondamento della decisione anche i fatti non «specificamente contestati»; sicché, qualora dovesse ritenersi che la contestazione dei fatti allegati dall’avversario è in linea di principio circoscritta alla fase di trattazione del processo di primo grado, è chiaro che la contestazione tardivamente formulata in appello implicherebbe quanto meno un’inversione dell’onere della prova a carico della parte da cui essa proviene. Nel qual caso, tenuto conto delle limitazioni probatorie risulterebbe assai difficile, per tale parte, fornire la prova negativa del fatto contestato.

Il comma terzo dell’art. 345 prevede che di regola non siano ammessi in appello nuovi documentinuovi mezzi di prova in genere, ma nel contempo esclude esplicitamente tale divieto: il giuramento decisorio, che del resto è utilizzabile finanche nel giudizio di rinvio, ex art. 394; le prove, anche documentali, che la parte dimostri di non aver potuto proporre o produrre in primo grado per una causa ad essa non imputabile, ipotesi che può considerarsi un’applicazione specifica della più generale rimessione in termini contemplata dall’art. 153, secondo comma, c.c. Basti pensare, ad esempio, alle prove riguardanti fatti sopravvenuti, oppure ai documenti formatisi, o scoperti, in un momento  successivo alla maturazione delle preclusioni istruttorie.

In precedenza era prevista una terza deroga, relativamente ai mezzi di prova e ai documenti che il giudice d’appallo avesse ritenuto «indispensabili ai fini della decisione della causa», il che, nonostante i non lievi dubbi connessi all’interpretazione di questa espressione, rappresentava una sorta di valvola di sicurezza rispetto alle preclusioni istruttorie. Ma un intervento legislativo del 2012 l’ha eliminata.

Va sottolineato che l’art. 345 c.p.c. si occupa esclusivamente dei mezzi di prova proponibili dalle parti, mentre lascia impregiudicata la possibilità che anche il giudice d’appello utilizzi i poteri istruttori officiosi che la legge gli attribuisce, ad esempio deferendo giuramento suppletorio ad una delle parti; nel qual caso, però, l’art. 183, quinto comma, c.p.c. impone che alle parti stesse sia riconosciuta la possibilità di dedurre gli ulteriori mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli disposti d’ufficio.

La Suprema Corte ha considerato, ritenendo infondato il primo motivo di ricorso, che nella fattispecie oggetto della odierna controversia, la società costruttrice era stata chiamata in causa dal venditore (omissis) in manleva quale unico soggetto responsabile del danno risentito da (omissis), avente causa del (omissis), originario acquirente dall'appaltatrice-venditrice: perciò deve escludersi una nuova domanda in appello, poiché il titolo della responsabilità del terzo, ex art. 1669 cod. civ., era già compreso nella ragione che aveva indotto il convenuto a chiamare in causa il terzo in primo grado, anche in assenza di una esplicita domanda dell'attore in tal senso.

Essa ha affermato che la domanda principale dell'attore si estende, infatti, automaticamente al chiamato in causa dal convenuto, quando la chiamata del terzo sia effettuata per ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione alla medesima obbligazione dedotta nel giudizio. Ciò in considerazione della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità, quella di cui all'art. 1669 cod. civ. riguardante la costruttrice e quella fondata sulla mendace informazione resa dal venditore (omissis) in merito alla natura e gravità del difetto, rappresentata dalla causazione del danno.

Per quanto riguarda la seconda questione sopramenzionata, l’orientamento prevalente, riprendendo uno spunto della dottrina tedesca, distingue le domande eterodeterminate e quelle autodeterminate.

Alla base di questa distinzione vi è il rilievo che la causa petendi serve ad individuare in maniera univoca il diritto azionato, e che, però, non sempre l’indicazione dei fatti costitutivi è indispensabile a tal fine. Si consideri, ad esempio, il diritto di proprietà: una volta che l’attore abbia indicato di voler rivendicare la proprietà di un determinato bene, poco importa che egli deduca di averla acquistata per usucapione, o per accessione, o per contratto, ecc., poiché il diritto di proprietà, rispetto ad un medesimo bene, non può certo sussistere più volte in capo ad un medesimo soggetto – res mea amplius quam semel esse non potest dicevano i giureconsulti romani. In questo caso, ed in altri analoghi, si parla di diritto autodeterminato, nonché correlativamente, di domanda autodeterminata, nel senso che per la sua identificazione è sufficiente il petitum mediato, mentre si può prescindere dalla specificazione dei fatti costitutivi, il cui variare non incide sull’identità del diritto.

Il diritto invece è eterodeterminato allorché la sua individuazione non possa prescindere dai relativi fatti costitutivi, potendo esso “ripetersi” un numero indefinito di volte tra i medesimi soggetti. Difatti, se si prende l’esempio del diritto al pagamento di una somma di denaro, è evidente che l’attore potrebbe pretendere tale somma una prima volta a fronte di un certo contratto di mutuo, una seconda volta deducendo un diverso contratto di mutuo, una terza volta invocandola quale corrispettivo di un contratto di locazione, e così via. In questi casi, dunque, la modificazione dei fatti costitutivi implica sempre, in linea di principio, la deduzione in giudizio di un diritto diverso.

Secondo questa impostazione, sono autodeterminate le domande basate sul diritto di proprietà o su altro diritto reale di godimento, su un diritto assoluto in genere, su uno status, o su un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione specifica, come ad esempio l’esecuzione di una determinata opera.

Tutte le altre domande, con cui si deduca un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione generica, come ad esempio la dazione di una certa somma di denaro, oppure un diritto reale di garanzia, cioè il pegno e l’ipoteca, sono invece eterodeterminate.

Questa distinzione è assai utile per affrontare opportunamente il problema dell’identificazione della domanda, anche se lascia permanere qualche zona d’ombra.

I giudici di legittimità, ritenendo infondato il secondo motivo di ricorso, hanno affermato che la domanda con la quale un soggetto chieda il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, senza ulteriori specificazioni, si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; pertanto, a fronte di una domanda di risarcimento pure generica, che utilizzi formule “danni tutti, patrimoniali e non patrimoniali, patiti e patiendi”, danno “subìto e subendo”, come nel caso di specie, ed in assenza di ulteriori allegazioni, deve riconoscersi anche la voce di danno non patrimoniale.

Proseguono precisando che resta fermo che la domanda introduttiva di un giudizio di risarcimento del danno, poiché ha ad oggetto un diritto c.d. eterodeterminato, esige che l'attore indichi espressamente i fatti materiali che assume essere stati lesivi del proprio diritto, a pena di nullità per violazione dell'art. 163, n. 4, cod. proc. civ.

Nel caso di specie, i fatti materiali generatori del danno sono stati allegati e sono rimasti immutati, ed è pertanto ammissibile l'allegazione di produzione documentale anche se inerente a fatti sopravvenuti ma collegati con il fatto generatore della pretesa risarcitoria.

Relativamente alla “chiamata in causa del terzo”, gli artt. 106 e 107 c.p.c. disciplinano, rispettivamente, l’intervento su istanza di parte e quello per ordine del giudice.

Prescindendo dall’ipotesi della chiamata in garanzia, che è consentita esclusivamente alle parti e dunque è contemplata dal solo art. 106, entrambe le norme ora menzionate fanno riferimento, come presupposto per la chiamata in causa del terzo, alla circostanza che la causa sia a lui «comune».

È agevole intuire come uno dei punti maggiormente controversi, a tal proposito, riguardi proprio l’ambito concretamente attribuibile alla nozione di «causa comune», discutendosi, in particolare, se essa possa riferirsi a tutte le ipotesi di connessione propria per l’oggetto e/o per il titolo che giustificherebbero l’intervento volontario del terzo, o se, invece, si attagli a taluna soltanto di esse.

Tenuto conto della genericità della formula adoperata, peraltro, l’impressione è che il legislatore intendesse lasciare ampi spazi di “manovra” alle parti, nell’intervento coatto ex art. 106 c.p.c., e allo stesso giudice, nell’intervento ex art. 107 c.p.c.; e che, conseguentemente, la soluzione da preferire, per entrambe le ipotesi giacché non sembra plausibile che lo stesso concetto possa assumere diversi significati nei due casi, sia quella più estensiva, che l’altronde sembra trovare maggior credito nella giurisprudenza.

In concreto, dunque, l’intervento coatto deve ritenersi utilizzabile nelle seguenti situazioni.

In primo luogo, in presenza di una connessione per alternatività e/o incompatibilità tra il rapporto giuridico oggetto del processo e quello di cui sarebbe titolare il terzo, cioè quando l’esistenza del diritto o dell’obbligo attribuito al terzo, e dunque la fondatezza della domanda proponibile dall’interveniente o nei suoi confronti, escluderebbe la fondatezza della domanda originaria, essendo sostanzialmente identico il rispettivo petitum, ossia il bene giuridico perseguito: ad esempio, il destinatario agisce contro l’assicuratore per i danni subiti dalla merce trasportata e poi, avendo questi dedotto l’inoperatività della copertura assicurativa, propone domanda di risarcimento nei confronti del vettore. Una sottospecie di tale connessione, caratterizzata dall’identità quasi totale anche della causa petendi, ricorre quando il terzo sia indicato quale vero ed esclusivo titolare, attivo o passivo, del rapporto dedotto in giudizio. Sono queste le ipotesi, particolarmente frequenti, in cui il convenuto o sostiene che il vero obbligato non è lui, ma un altro soggetto, eccepisce, cioè, quello che la prassi indica, impropriamente, come difetto di legittimazione passiva, oppure, senza negare la propria obbligazione, afferma che il vero titolare del diritto dedotto in giudizio non è l’attore, bensì un terzo, ipotesi speculare alla prima al cui riguardo si parla di difetto di legittimazione attiva. In entrambe le situazioni, la chiamata in causa del terzo ha evidenti vantaggi: nel primo caso consente all’attore di proporre una domanda alternativa di condanna del convenuto o del terzo; nel secondo caso evita al convenuto il rischio di essere condannato nei confronti dell’attore e di dover successivamente pagare anche il terzo.

In secondo luogo, quando il terzo, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, sia indicato quale contitolare del rapporto plurisoggettivo già oggetto del processo, sì che le parti originarie potrebbero avere interesse ad estendere nei suoi confronti gli effetti del futuro giudicato.

Infine, quando il terzo sia titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del processo: in questi casi l’intervento coatto potrebbe rappresentare, a seconda dei casi, uno strumento di tutela del terzo, qualora si tratti di un soggetto che subirebbe comunque gli effetti indiretti della decisione, anche se non partecipasse al giudizio, oppure, molto più spesso, un mezzo per estendere nei suoi confronti, rectius in suo danno, l’efficacia riflessa della sentenza.

L’intervento coatto rende possibile un allargamento oggettivo dell’oggetto del processo, che conduca il giudice a decidere anche sul rapporto facente capo al terzo; sicché si tratta di stabilire se a tal fine sia o no necessaria, contestualmente alla chiamata del terzo, o nel successivo corso del processo, la proposizione di un’apposita domanda, da una delle parti originarie o dallo stesso chiamato in causa.

In realtà, ove si consideri che l’intervento coatto può esser chiesto da una qualunque delle parti, che potrebbe non avere alcun rapporto coll’intervenire e conseguentemente non sarebbe neppure legittimata a proporre una domanda nei suoi confronti, oppure può essere ordinato dal giudice, è logico pensare che esso debba in ogni caso condurre, di per sé, all’accertamento con efficacia di giudicato del rapporto facente capo al chiamato, pur quando nessuna esplicita domanda sia stata formulata in tal senso.

Perché possa aversi invece non il mero accertamento bensì una sentenza di condanna del terzo o a favore del terzo, deve ritenersi indispensabile, alla luce degli artt. 99 e 113, tenuto conto che uno degli elementi identificativi della domanda giudiziale è per l’appunto quello soggettivo, una specifica domanda rispettivamente proveniente da taluna delle parti, solitamente l’attore, o dal terzo; non essendo pensabile che la domanda originaria, contrariamente a quanto solitamente affermato dalla giurisprudenza, possa estendersi automaticamente nei confronti del terzo o in suo favore.

La Suprema Corte ha ritenuto, in relazione a quanto esposto, il motivo di ricorso fondato per le seguenti ragioni: stabilito che, con riferimento alla causazione del danno vi è comunanza del rapporto controverso, e che si tratta di chiamata del terzo responsabile, la Corte d'Appello avrebbe dovuto valutare la specifica responsabilità del venditore (omissis) derivante dal medesimo fatto causativo del danno, ossia il vizio di costruzione dell'immobile imputabile alla costruttrice, costituito dalla non corretta realizzazione del raccordo fra tubazione interna in uscita e fognatura pubblica. La specifica responsabilità del (omissis) deriva, a sua volta, dal fatto - accertato in giudizio - che egli fosse a conoscenza degli eventi dannosi, sebbene non fosse a conoscenza delle sopra menzionate cause, tanto che invece addebitava detti eventi al Comune e non alla costruttrice-venditrice (omissis).

Infine, per quanto concerne la garanzia per rovina e difetti dell’immobile in tema di appalto, una tutela speciale per il committente è offerta dal legislatore.

In particolare, l’art. 1669 c.c. prevede la responsabilità dell’appaltatore nei casi in cui, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti. Si tratta di una responsabilità che riveste, differentemente da quella di cui all’art. 1667 c.c., carattere extracontrattuale, essendo preposta a garantire interessi di carattere generale inderogabili, come l’incolumità personale, che vanno al di là dei confini del rapporto negoziale inter partes.

Proprio in ragione della natura aquiliana della responsabilità in questione, la giurisprudenza ha precisato che, qualora l’art. 1669 c.c. non trovi applicazione in concreto per mancanza di uno dei presupposti richiesti dalla norma, si riespande l’ambito di applicazione dell’art. 2043 c.c.: in questo caso, tuttavia, non opera più alcun regime di presunzione di responsabilità in capo al costruttore, dovendo il danneggiato dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità extra-contrattuale, compresa la colpa del debitore.

L’orientamento più recente della giurisprudenza, in controtendenza rispetto alla tesi consolidata, tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. Ciò rende meno attuale la teoria della natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c.: essa, anche se non ha esaurito la propria funzione storica, ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione giurisprudenziale della norma.

Si ha rovina totale o parziale allorché l’immobile subisca la disintegrazione degli elementi che ne compongono le strutture necessarie della stabilità, cessando di esistere in tutto o in parte. I gravi difetti, invece, consistono in quelle alterazioni che riducono apprezzabilmente il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura.

Legittimati attivi, oltre al committente, sono i suoi aventi causa, ossia successori sia inter vivos che mortis causa, acquirenti e legatari del diritto di proprietà o di altro diritto reale. Legittimati passivi sono l’appaltatore, purché non nudus minister, il progettista, il direttore dei lavori, ma non anche il fornitore dei materiali.

La rovina ed i difetti gravi devono essere denunciati a pena di decadenza entro un anno dalla scoperta e il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denuncia, ex art. 1669, secondo comma, c.c.

Su quest’ultimo motivo la Corte si pronuncia dichiarandone l’inammissibilità: ha statuito che, con motivazione congrua rispetto al parametro di cui al n. 5) dell'art. 360, comma 1, c.p.c., la Corte d'Appello ha dato atto delle ragioni per le quali si dovesse ritenere che l'originario attore avesse avuto una conoscenza solo imperfetta dei vizi, posto che il venditore (omissis) aveva resa nota la sua conoscenza del problema dei deflussi attraverso due missive, sempre attribuendone, però, la causa al collettore principale di proprietà del Comune, ritenendo pertanto necessario il completamento della consulenza tecnica richiesta in sede di giudizio di primo grado all'uopo richiesto, non essendo a tanto idonea la parziale consapevolezza prima acquisita. Tanto, dall'altro punto di vista della conformità al diritto ex n. 3) dell'art. 360, comma 1, richiamato nel mezzo di gravame è in linea con l'orientamento di questa corte richiamato in sentenza, secondo cui il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall'art. 1669 cod. civ. a pena di decadenza dall'azione di responsabilità contro l'appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all'esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale. L'importanza a tal fine degli accertamenti tecnici è stata sottolineata anche per il fatto che, ai fini del decorso del termine, è necessaria la piena comprensione del fenomeno e la chiara individuazione ed imputazione delle sue cause, non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo.

Argomento: Della quantificazione del risarcimento del danno
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233)

Stralcio a cura di Luigi De Felice

“ (…) 1.1 (…) La domanda principale dell’attore si estende, infatti, automaticamente al chiamato in causa dal convenuto, quando la chiamata del terzo sia effettuata per ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l’unico obbligato nei confronti dell’attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione alla medesima obbligazione dedotta nel giudizio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27525 del 29/12/2009, Rv. 610830 – 01; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25559 del 21/10/2008, Rv. 605465 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1748 del 28/01/2005, Rv. 580023 - 01). Ciò in considerazione della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità, quella di cui all’art. 1669 cod. civ. riguardante la costruttrice e quella fondata sulla mendace informazione resa dal venditore Guidi in merito alla natura e gravità del difetto, rappresentata dalla causazione del danno. 2. Con il secondo motivo si deduce, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., violazione dell’art. 163, n. 3) cod. proc. civ., laddove la norma dispone che la citazione deve contenere la determinazione della cosa oggetto della domanda e dell’art. 164, comma 4, cod. proc. civ. La ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto alla parte attrice la possibilità di specificare le voci di danno solo in comparsa conclusionale: invece, l’attore aveva il dovere di indicare e allegare i fatti materiali che assume come fonte di danno. 2.1. Il motivo è infondato. La domanda con la quale un soggetto chieda il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, senza ulteriori specificazioni, si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; pertanto, a fronte di una domanda di risarcimento pure generica, che utilizzi formule: «danni tutti, patrimoniali e non patrimoniali, patiti e patiendi»; danno «subìto e subendo», come nel caso di specie, ed in assenza di ulteriori allegazioni, deve riconoscersi anche la voce di danno non patrimoniale (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20643 del 13/10/2016). Resta fermo che la domanda introduttiva di un giudizio di risarcimento del danno, poiché ha ad oggetto un diritto c.d. eterodeterminato, esige che l’attore indichi espressamente i fatti materiali che assume essere stati [continua ..]

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