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Il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro non è di regola attività lavorativa vera e propria

Alessia Maggiotto

Nella pronuncia in commento i ricorrenti quali lavoratori macchinisti (cd itineranti) proponevano ricorso avverso alla sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2070/2021 che, confermando la pronuncia di primo grado, non riconosceva come orario di lavoro il tempo impiegato dai lavoratori per raggiungere il primo cliente dal proprio domicilio e viceversa, il tempo di rientro al proprio domicilio dall’ultimo cliente.
Generalmente, salvo diversa previsione nella contrattazione collettiva, gli spostamenti quotidiani per recarsi sul luogo di lavoro, stante l’assenza dell’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, non rappresenta orario di lavoro.
Infatti in tali periodi il lavoratore non subisce nessuna limitazione della propria libertà e può liberamente gestire il proprio tempo libero.
Tuttavia regole diverse devono operare quando non sussiste un luogo di lavoro fisso o stabile.
In predette situazioni infatti è essenziale verificare se lo spostamento sia funzionale rispetto all’attività lavorativa da espletare.
In questi casi il tempo dei predetti spostamenti va ricompreso nell’orario di lavoro del lavoratore.
Troviamo la nozione di orario di lavoro nella normativa comunitaria e nello specifico nella direttiva n. 2003/88/CE.
In passato, invece, non si rinveniva una nozione specifica di orario di lavoro.
Infatti veniva considerato come tale solo il tempo di lavoro effettivo svolto dal lavoratore a cui si aggiungono le attività lavorative che erano funzionali, propedeutiche, preparatorie e/o complementari al lavoro effettivo quali a mero titolo esemplificativo l’inventario o la manutenzione delle macchine e delle attrezzature.
Da quanto esposto si evince che la precedente normativa (RDL n. 692/1923) non riconosceva come orario di lavoro i riposi intermedi e/o i semplici periodi di attesa e di custodie e nemmeno i relativi spostamenti per recarsi sul luogo di lavoro.
L’articolo 2 della direttiva 2003/88, invece, definisce come orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionale”. Da tale affermazione si possono desumere i tre criteri oggettivi affinché un periodo di tempo sia da considerarsi orario di lavoro anziché periodo di riposo.
I predetti criteri sono:
a) il lavoratore è al lavoro;
b) il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro;
c) il lavoratore deve essere nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.
Tale direttiva ha lo scopo di dettare i principi minimi ed inderogabili a cui si devono uniformarsi gli Stati membri affinché venga tutelato il lavoratore garantendo così una proporzionalità tra tempi di lavoro e periodi di riposo adeguati.
Infatti ai sensi dell’articolo 15 della direttiva la normativa nazionale non può effettuare nessuna deroga in peius e/o interpretazione restrittiva della direttiva stessa.
Gli ordinamenti nazionali, pertanto, possono adottare solo disposizioni più favorevoli rispetto a quelle stabilite nella direttiva.
Nella normativa nazionale la nozione di orario di lavoro è contenuta all’art. 1 del D.lgs. 66/2003.
Ai sensi della predetta norma s’intende per orario di lavoro: “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Come già anticipato l’attuale normativa ha ampliato il concetto di orario di lavoro precisando che lo stesso non ricomprende il solo lavoro effettivo ma anche il tempo in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro anche se non presente fisicamente nella sede di lavoro.
In tali circostanze, infatti, il lavoratore subisce una contrazione della propria libertà in quanto risulta assoggettato al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro.
Quanto appena esposto trova altresì conferma nella successiva circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 03/03/2005 n. 8 ove afferma che viene ricompreso nell’orario di lavoro il tempo in cui i lavoratori “sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la
loro opera in caso di necessità”.
Secondo la giurisprudenza europea che si è pronunciata sul punto, escludere i predetti periodi dall’orario di lavoro violerebbe uno dei principali obiettivi perseguiti dalla direttiva 2003/88 ovvero quello della sicurezza sul lavoro.
Nella fattispecie in esame, pertanto, ci si domanda se in assenza di un luogo fisso o abituale da raggiungere il tempo impiegato dal lavoratore per gli spostamenti quotidiani dal domicilio al primo luogo di lavoro e viceversa sia da considerarsi quale orario di lavoro.
Da quanto finora esposto si è compreso che il tempo del lavoratore può essere orario di lavoro o periodo di riposo.
Una nozione esclude l’altra in quanto è pacifico, anche a livello giurisprudenziale, che non esiste una figura intermedia e/o tertium genus.
Infatti la nozione di periodo di riposo è “qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro” (articolo 1, secondo comma, lettera b, D.lgs. 66/2003).
Il criterio che ci permette di distinguere se un periodo di tempo sia orario di lavoro o periodo di riposo è rappresentato dall’intensità dei vincoli posti sul tempo libero del lavoratore. Se quest’ultimi sono tali da pregiudicare oggettivamente al lavoratore di autodeterminarsi e conseguentemente di gestire autonomamente il proprio tempo libero dedicandosi ai propri interessi
tale periodo sarà orario di lavoro. Viceversa tale periodo sarà di riposo.
Secondo la Corte di Giustizia Europea i tempi di viaggio costituiscono orario di lavoro.
Nello specifico con la pronuncia del 10/09/2015 n. 266/14 la Corte di Giustizia Europea afferma che “anche gli spostamenti effettuati dai lavoratori senza luogo fisso o abituale tra il loro domicilio e il primo o l’ultimo cliente della giornata (“lavoratori itineranti”), indicati dal loro datore di lavoro, costituiscono “orario di lavoro” ai sensi del diritto comunitario: secondo la Corte di Giustizia laddove tali spostamenti non venissero computati nell’orario di lavoro si contrasterebbe con l’obiettivo della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori perseguito dal diritto dell’Unione”. Nella predetta pronuncia in mancanza di un luogo fisso o abituale il lavoratore si trova nell’impossibilità di gestire autonomamente il proprio tempo libero e, conseguentemente, dedicarsi ai suoi interessi. Viceversa, nella pronuncia in commento gli ermellini hanno ritenuto che i luoghi di lavoro ove si dovevano recare i lavoratori erano predeterminati e non mutevoli; pertanto, essendo che le basi operative erano in un “numero predeterminato” e “non è continuamente mutevole e indeterminato
bensì preventivamente individuabile e coincidente con un numeras clausus conosciuto dal lavoratore” i lavoratori potevano autodeterminare il proprio tempo. Quindi, il tempo di spostamento quotidiano dal domicilio al primo luogo di lavoro e viceversa non rientra nell’orario di lavoro e in applicazione di tale principio la corte ha rigettato il ricorso proposto dai lavoratori ricorrenti.
Nella pronuncia in commento viene posta l’attenzione anche su un’altra questione giuridica ovvero se il tempo per indossare la divisa sia anch’esso ricompreso nell’orario di lavoro o meno.
Sul punto la pronuncia richiama un precedente secondo cui “nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva 2003/88/CE, il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelle utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normativo sociale dell’abbigliamento”.
Il cosiddetto “tempo tuta”, pertanto, rappresenta orario di lavoro quando le operazioni di vestizione e di svestizione sono sottoposte all’eterodirezione del datore di lavoro.
Le predette operazioni rientrano altresì nell’orario di lavoro quando devono essere effettuate obbligatoriamente sul luogo di lavoro per esigenze di igiene pubblica (quali ad esempio gli infermieri).

Argomento: Del rapporto di lavoro
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. Lav., 31 maggio 2024, n. 15332)

Stralcio a cura di Giorgio Potenza

“5.8. Dai principi di diritto innanzi riassunti, sanciti a livello europeo e nazionale, emerge che l'attività del lavoratore è riconducibile nella nozione di orario di lavoro ove si tratti di prestazione effettiva ovvero di attività che sia sottoposta al potere conformativo del datore di lavoro ovvero che si svolga nell'ambito del luogo di lavoro. Il luogo di lavoro deve essere inteso come qualsiasi luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere un'attività su ordine del suo datore di lavoro, anche quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria attività professionale, purché sia incisa in senso apprezzabile la facoltà di gestire liberamente il proprio tempo. 5.9. Ebbene, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro non può, in via generale, considerarsi esplicazione dell'attività lavorativa vera e propria, non facendo parte del lavoro effettivo (e, pertanto, fatte salve diverse previsioni contrattuali, non si somma al normale orario di lavoro: Cass. n. 5701 del 2004); tuttavia, esso rientra nell'attività lavorativa vera e propria allorché sia lo strumento necessario per l'esecuzione della prestazione (Cass. n. 37286 del 2021, con riguardo a tecnici "on field", ossia sul campo, che effettuavano interventi di manutenzione, installazione e riparazione guasti agli impianti direttamente presso le abitazioni/locali industriali e commerciali, senza far riferimento ad alcuna sede aziendale) ovvero si tratti di tempo del quale i lavoratori non possono liberamente disporre ovvero caratterizza intrinsecamente la qualità dell'attività svolta in assenza di un luogo di lavoro fisso o abituale.”.

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