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Il referto del pronto soccorso di un ospedale pubblico fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni rese dal medico
Cecilia De Luca
Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte di Cassazione, nella sua Sezione Terza, ha avuto modo, una ulteriore volta, di pronunciarsi in merito alla questione dell’accertamento del c.d. nesso di causalità tra l’evento pregiudizievole ed il danno da questo derivante, da qualificarsi in termini giuridici soprattutto ai fini della sua corretta liquidazione in sede risarcitoria. Inoltre, il giudice ha tratto spunto da tale sedes per affermare che il referto reso dal medico, chiamato ad intervenire nella situazione specifica, del pronto soccorso di un ospedale pubblico, essendo atto pubblico assistito da fede privilegiata, fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni rese e degli altri fatti attestati come avvenuti in sua presenza. Tuttavia, le valutazioni diagnostiche e le opinioni espresse dal medico in tale referto non godono della stessa fede privilegiata, ma sono comunque liberamente apprezzabili dal giudice nel contesto delle risultanze istruttorie.
Per quanto concerne lo svolgimento dei fatti, il (omissis) conveniva in giudizio il (omissis) lamentando di essere stato travolto da questi allorché eseguivano un ballo di gruppo su una pista da ballo, e fatto cadere riportando danni alla persona (la frattura bi-malleolare della caviglia sinistra); il (omissis) non contestava di avere una responsabilità nella caduta del (omissis) che confermava di aver urtato per errore sulla pista, ed evocava in giudizio la sua compagnia di assicurazioni per danni a terzi, (omissis), per essere manlevato; sia il Tribunale che poi la Corte d'Appello, con la sentenza qui impugnata, rigettavano la domanda del (omissis) avendo accertato che lo stesso, dopo una serata trascorsa in compagnia nel locale, pur essendo in evidente stato di ebrezza, andava ugualmente a ballare sulla pista e, nel corso di un ballo di gruppo, muovendosi maldestramente cadeva rovinosamente a terra, riportando un danno a causa esclusivamente del suo stato di alterazione alcoolica; il (omissis), pur essendo stata rigettata la domanda nei suoi confronti, proponeva appello, professandosi colpevole di aver urtato accidentalmente il (omissis); la Corte d'Appello riteneva contradditorie e poco attendibili le dichiarazioni dei testi e dello stesso (omissis), e per contro rilevava che i medici del pronto soccorso che si erano presi cura del (omissis) avevano attestato che il ricorrente era in evidente stato di ebrezza al momento del ricovero, tant'è che si verificavano in pronto soccorso diversi episodi di vomito alimentare dovuti alla volontaria alterazione ed in definitiva non riteneva provata la ricostruzione dei fatti fornita dall'attore, cui addebitava di aver agito in modo imprudente perché dopo aver bevuto eccessivamente si metteva a ballare in pista con altre persone, in tal modo accettando il rischio di cadere e farsi male. In definitiva, la corte individuava come unica causa efficiente del danno lo stesso comportamento imprudente del danneggiato che, in stato di ebbrezza, intraprendeva un ballo di gruppo con movimenti maldestri ponendosi come autonoma causa efficiente della propria caduta.
Giungendo alle questioni strettamente giuridiche, il problema che qui sembra porsi attiene alle c.d. concause, ossia dell’inserimento nella serie causale, che ha portato dal fatto illecito al danno ingiusto, di elementi diversi dalla condotta attiva od omissiva dell’agente.
Occorre, allora, verificare quali siano i criteri che disciplinano i rapporti tra i vari fattori od atti che concorrono in senso naturalistico alla produzione dell’evento per verificare quali siano le regole giuridiche, prevalentemente di tipo risarcitorio ma, talvolta, anche di carattere riparatorio-preventivo, previste dall’ordinamento ai fini del collegamento tra tali atti o fatti e le conseguenze negative dell’illecito.
Viene, allora, in evidenza, tra le varie, l’ipotesi del concorso del danneggiato alla produzione del fatto dannoso – ipotesi prospettata dai ricorrenti e tuttavia non ritenuta meritevole di accoglimento da parte della Suprema Corte – regolate dall’art. 1227, primo comma, c.c.
Quest’ultima, in cui più condotte umane abbiano concorso alla produzione dell’unico evento dannoso, si configura quando il fatto dannoso abbia trovato una concausa nel comportamento del danneggiato: ciò trova la propria regola iuris nell’art. 1227, primo comma, c.c.
Il concorso colposo del danneggiato, a differenza di quanto avviene nel caso del concorso di più soggetti alla produzione dell’evento, presenta le caratteristiche distintive di un’espressa previsione dell’elemento soggettivo, la c.d. colpa, e delle conseguenze limitative del risarcimento. La motivazione di ciò è talmente chiara da non richiedere eccessivi sforzi esegetici, e risiede nella rilevanza della posizione della vittima nell’ambito della responsabilità aquiliana che si contrappone, viceversa, a quella del reo nella responsabilità penale, tanto da avere indotto nelle posizioni più recenti della Cassazione all’adozione di un diverso criterio causale proprio in senso più favorevole alla vittima. In conseguenza di tale impostazione se lo stesso danneggiato, con la propria condotta, determina in concreto la verificazione dell’evento in tutto o in parte, non risulta equo, sotto il profilo civilistico, ritenere che tale condotta debba considerarsi irrilevante ai fini della determinazione del risarcimento dei danni subiti. Diversamente accade nel diritto penale, dove la circostanza della contribuzione causale della vittima può avere effetti soltanto indiretti sulla necessità di punizione del reo.
Necessario, in via preliminare, è fare ricordo delle teorie della causalità avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità.
L’impostazione c.d. condizionalistica ritiene eziologicamente collegato al danno ogni condotta che sia stata condizione necessaria del danno stesso. In altri termini, un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo.
Per quanto concerne la teoria, prevalente, della causalità adeguata o regolarità causale, frutto dei temperamenti degli interpreti alla prima, costituisce causa del danno ogni fatto che sia adeguato a cagionarlo, sul presupposto di una certa regolarità di verificazione di quel danno in presenza di quella data condotta. Il danno, in altri termini, è conseguenza del fatto quando ne costituisca un effetto normale secondo l’id quod plerumquem accidit.
Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operando una “prognosi postuma” e accertando se, al momento in cui è avvenuta l’azione, fosse del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuto discendere una data conseguenza.
La giurisprudenza riconosce piena operatività al principio della regolarità causale e nella nota pronuncia a S.U., n. 580 del 2008, ha stabilito, la Suprema Corte, tre regole: la condicio sine qua non in forza della quale “un evento è da considerarsi causa da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo”; la causalità efficiente desumibile dall’art. 41, secondo comma, c.p. sicché l’evento va attribuito all’autore di una condotta sopravvenuta allorché questa sia da sola idonea a cagionarlo, così interrompendo il nesso con i fattori causali preesistenti; la causalità adeguata o regolarità causale, per effetto della quale si risponde solo delle conseguenze che appaiono sufficientemente prevedibili al momento della condotta, non anche per quelle atipiche o imprevedibili.
Parte della dottrina accoglie la teoria del rischio specifico, secondo la quale sussiste un nesso causale tra fatto e danno quando quest’ultimo ò la realizzazione di un rischio specifico creato da quel fatto. In altre parole, ogni evento ha un suo rischio specifico che aggrava o rende altamente probabile il suo verificarsi.
La tesi invece dello scopo della norma violata individua la sussistenza del nesso causale tra un fatto e quelle conseguenze dannose che rientrano nello scopo protettivo della norma. Trattasi di una teoria del tutto minoritaria, sviluppatasi in seno alla dottrina tedesca (Normzwecklehere), ma non accolta poiché non consente di accertare in concreto quando sussista un rapporto di causa-effetto tra due eventi, investendo più il problema della responsabilità che quello della causalità.
La causalità rileva, dunque, sotto un duplice profilo: quello della causalità materiale e quello della causalità giuridica.
Tale distinzione, per dottrina e giurisprudenza maggioritarie, è ravvisabile nel primo e nel secondo comma dell’art. 1227 c.c.: il primo comma attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso; il secondo comma riguarda il rapporto evento-danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.
Considerata la disposizione del primo comma dell’art. 1227 c.c., coordinata con l’art. 1218 c.c., attiene al livello della causalità materiale e fissa il rapporto intercorrente tra condotta ed evento, in ossequio ai principi sanciti dal diritto penale di cui agli artt. 40 e 41 c.p.
Il fondamento è rintracciabile nell’esigenza di non far carico al danneggiante di quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
In materia di imputabilità, interessante è l’ipotesi in cui a concorrere nella causazione del danno sia il danneggiato incapace. Ci si è chiesti, in sostanza, se la riduzione del danno debba operare comunque o se, considerata la particolare condizione del soggetto, debba essere addossata al danneggiante.
Parte della dottrina si è espressa nel senso della irriducibilità del danno, aderendo ad una concezione soggettiva o psicologica della colpa, ormai superata.
La dottrina e la giurisprudenza più recenti, invece, sono nel senso di attribuire rilievo al fatto colposo dell’incapace, per minore età o per altra causa, in quanto la causalità materiale attiene al mero dato oggettivo e non deve subire commistioni con il piano soggettivo-psicologico della imputabilità del danno.
La colpa cui fa riferimento l’art. 1227, primo comma, c.c. non deve, quindi, essere intesa in senso proprio, ossia nell’accezione di elemento soggettivo dell’illecito ma solo quale sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta imposta da un vincolo negoziale o stabilita da norme positive o dettate dalla comune prudenza.
Il secondo comma dell’art. 1227 c.c. si occupa del secondo livello della causalità, ossia quella giuridica.
La disposizione in oggetto, una volta appurata la sussistenza dell’imputabilità, richiede la verifica circa il nesso causale tra evento-inadempimento e conseguenze dannose: si preoccupa, in altri termini, di accertare che i danni concretamente lamentati possano essere eziologicamente ricollegati a quel determinato evento.
La norma stigmatizza il concetto di evitabilità del danno, che ha causa esclusiva nell’inadempimento o nell’illecito ma che il dovere di correttezza impone al danneggiato di evitare.
Ne deriva che si è in presenza di un’applicazione del generale dovere di buona fede e correttezza contrattuale.
Mentre il primo comma dell’art. 1227 c.c. ha trovato larga applicazione anche nel campo della responsabilità aquiliana, il secondo comma è rimasto circoscritto prevalentemente al settore della responsabilità contrattuale, dando vita ad una copiosa produzione giurisprudenziale.
Con specifico riferimento all’onere della prova in relazione all’obbligo del danneggiato di limitare il danno, di sicuro interesse è una sentenza resa dalla giurisprudenza “lavoristica” di legittimità, in linea con i medesimi principi espressi dal Consiglio di Stato sull’aliunde perceptum vel percipiendum, in materia di mancata aggiudicazione illegittima di una gara di appalto.
I giudici del Supremo Consesso hanno stabilito che in tema di licenziamento illegittimo il datore di lavoro, che affermi la detraibilità dall’indennità risarcitoria prevista dal nuovo testo dell’art. 18, comma quarto, legge 20 maggio 1970, n. 300, il c.d. Statuto dei lavoratori, a titolo di “aliunde percipiendum”, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l’onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l’utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno.
Infatti, tornando al profilo storico-fattuale e al modus con cui gli eventi in concreto si sono svolti, con l'unico motivo di ricorso il ricorrente (omissis) ha denunciato la violazione dell'articolo 1227 c.c. nonché l'esistenza di un error in procedendo e di una motivazione illogica ed apparente, causa di nullità della sentenza.
Ha sottolineato che nella motivazione della sentenza impugnata lo stato di ebbrezza del (omissis) viene ritenuto causa principale della caduta e non causa esclusiva di essa, ammettendo quindi la sussistenza di concause e dando ingresso all'applicazione dell'articolo 1227 c.c.
L'errore lamentato dal ricorrente sarebbe consistito nell'aver la Corte d'Appello accertato e preso in considerazione solo la condotta colposa del danneggiato, omettendo di valutare le altre cause addotte dall'attore a fondamento della propria domanda ovvero di verificare l'esistenza di altre concause efficienti del danno.
Il giudice ha aggiunto che non si poteva legittimamente porre a fondamento dell'accertamento dello stato di ubriachezza del ricorrente il referto del pronto soccorso, dove si attestava che il ricoverato era in stato di ubriachezza evidente perché sulla persona del danneggiato non erano stati eseguiti esami clinici, essendo formulato dai medici di pronto soccorso solamente un giudizio, frutto esclusivamente di competenze tecniche specifiche e di esperienza. Quindi l'evidenza dello stato di ebbrezza si fondava solo sulla opinione espressa dai medici di pronto soccorso, inidonea assurgere al ruolo di accertamento diagnostico in mancanza di riscontri.
A fronte di ciò, riteneva che sulla base del solo referto di pronto soccorso così ridimensionato non si poteva giustificare una valutazione di inattendibilità dei testi citati dal danneggiato, che non avevano ravvisato lo stato di ubriachezza nella vittima né tanto meno la svalutazione delle dichiarazioni rese dallo stesso danneggiante, (omissis), che aveva riconosciuto di aver spinto incidentalmente il (omissis), a seguito di un movimento maldestro sulla pista, provocandone la caduta.
Per quanto concerne la natura giuridica ed il valore probatorio del “referto”, esso è da qualificarsi come atto pubblico, ex art. 2699 c.c. e ss., ossia un documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato. Esso ha quale funzione quella di certificare la verità di un fatto che si svolge dinanzi a lui o di cui egli stesso è autore. Affinché il contenuto sia da considerarsi atto pubblico è necessario che la legge attribuisce al pubblico ufficiale la capacità di essere fonte di produzione di pubbliche certezze.
L’attività di documentazione deve osservare le modalità previste dal legislatore nel codice civile e in leggi speciale.
L’indicazione del luogo di redazione del documento, in quanto volto ad accertare la competenza del pubblico ufficiale, la data che serve a fissare il tempo in cui il documento è stato formato, la presenza dei testimoni, la lettura dell’atto alle parti, quando richiesti dalla legge, sono requisiti previsti a pena di nullità.
Particolare importanza riveste la sottoscrizione dell’ufficiale rogante, requisito d’esistenza dell’atto.
Per quanto concerne le certificazioni ad opera della pubblica amministrazione, esse hanno efficacia di atto pubblico quando la legge lo prevede espressamente. Secondo l’orientamento prevalente il potere di attribuire pubblica fede è implicito quando la verbalizzazione costituisce la “necessaria esternalizzazione” di attività amministrative previste dalla legge.
Ad esempio, per la cartella clinica, le attestazioni contenute in essa sono riferibili ad una certificazione amministrativa con efficacia di prova legale per quanto attiene alle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, non per le valutazioni e le diagnosi in essa contenute.
Per contestare che il documento è stato contraffatto o alterato o che il pubblico ufficiale che l’ha redatto non ha rappresentato i fatti secondo verità è necessaria la querela di falso. Dal momento che il legislatore ha affidato ad un organo pubblico la funzione di documentare una determinata vicenda anche chi è terzo rispetto all’atto è tenuto a credere che la vicenda si è svolta come rappresentata nel documento.
Il documento fa fede del fatto che davanti al pubblico ufficiale sono state rese determinate dichiarazioni o compiute talune attività. L’interpretazione delle une e delle altre, così come la loro genuinità, in quanto espressione di una volontà libera e consapevole, non sono coperte dalla fede pubblica. Allo stesso modo il documento pubblico non assicura che le dichiarazioni ivi contenute rispondano alle reali intenzioni delle parti. Di conseguenza l’interpretazione delle dichiarazioni fissate nel documento va condotta secondo i normali criteri ermeneutici e le vicende che contrastino con la genuinità delle dichiarazioni e con la loro corrispondenza alla verità possono essere provate i normali mezzi di prova.
Infatti, la Suprema Corte ha affermato che il referto di pronto soccorso di una struttura ospedaliera pubblica è atto pubblico assistito da fede privilegiata e, come tale, fa piena prova sino a querela di falso della provenienza dal pubblico ufficiale che lo ha formato, delle dichiarazioni rese al medesimo, e degli altri fatti da questi compiuti o che questi attesti avvenuti in sua presenza mentre non sono coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. III, 19 dicembre 2024, n. 33299)
Stralcio a cura di Ciro Maria Ruocco
Keywords: danno biologico - liquidazione - querela di falso