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Reddito d´impresa: niente incasso giuridico se il socio rinuncia al credito

Antonio Borghetti 

Il cd. “incasso giuridico” rappresenta una fictio iuris, quasi un ossimoro, a mente della quale la rinuncia ad un credito presuppone, in taluni casi, l’avvenuto incasso del credito medesimo e per l’effetto genera l’obbligo di sottoporre ad imposizione il relativo ammontare anche mediante applicazione della ritenuta d’imposta da parte del sostituto. La problematica emerge in particolare allorquando nella determinazione del reddito i due soggetti che tra loro si rapportano siano assoggettati a distinte e diverse modalità imputazione a periodo (d’imposta) delle componenti positive o negative (qualora possibile) giustappunto per la determinazione del reddito. Ci si riferisce quindi alla circostanza che un soggetto adotti il principio - per la determinazione del reddito od anche solo per una sua componente - “di competenza” e l’altro quello “di cassa”. È noto che il principio di competenza è di derivazione ragionieristica ed informa la genesi e la redazione del bilancio di esercizio delle imprese; da qui, l’adozione anche ai fini fiscali di tale metodologia di imputazione a periodo seppur temperata dalla previsione di talune deroghe volte ad evitare comportamenti discrezionali o abusivi (si pensi alla deduzione dei compensi amministratori, degli oneri fiscali e contributivi, degli interessi di mora e degli utili da partecipazione). Le persone fisiche che non esercitano attività di impresa sono invece, tendenzialmente, tassate secondo il principio di cassa a mente del quale i componenti reddituali vanno imputati al periodo di imposta nel quale avviene non tanto la loro maturazione quanto l’effettiva movimentazione finanziaria, e quindi il loro incasso od il relativo pagamento. L’assunto posto a fondamento della tesi dell’incasso giuridico prevede quindi una sorta di equiparazione dell’atto dispositivo del credito – nel caso di specie operato con una remissione del debito ex art. 1236 del codice civile – ad un “incasso de facto” del credito medesimo, postulando l’esistenza di una qualche utilità (anche postergata) atta a palesare, finanche con la rinuncia, una capacità contributiva qualificata da assoggettare ad imposizione. La scorciatoia adottata dal contribuente diviene inefficace per il fisco che ha consequenzialmente cura di ricercare quale sarebbe stato l’esito (evidentemente, l’attrazione ad imponibilità del componente reddituale) dell’alternativo (e meno diretto) comportamento: l’incasso del credito e la (solo) successiva disposizione della somma. Emblematica la sentenza qui commentata: “La teoria volta a dare rilievo fiscale, in caso di rinuncia dei soci ai crediti vantati nei confronti della società partecipata, al c.d. «incasso giuridico» riflette detta ambiguità e si fonda, pacificamente, su una fictio iuris atteso che la rinuncia, sul piano della tassazione, viene equiparata ad un incasso, pur materialmente inesistente, con conseguente imponibilità dello stesso. Il presupposto da cui muove la teoria dell’incasso giuridico – risalente alla circolare n. 73/E/430 del 27 maggio 1994 e fatta propria dalla giurisprudenza della Corte – è che i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione e per la società partecipata non costituiscono sopravvenienze. Ne consegue che detta rinuncia, ove abbia ad oggetto (come nel caso degli interessi su finanziamenti erogati dai soci, ma anche dei compensi spettanti agli amministratori) potenziali redditi soggetti a tassazione per cassa, determina un «salto d’imposta» in quanto il credito è correlato ad un elemento reddito deducibile per il debitore secondo il principio di competenza ed è tassabile per il creditore secondo il principio di cassa. Di qui la necessità, mediante una fictio iuris, di equiparare, ai fini fiscali, la rinuncia all’incasso e di sottoporne l’ammontare a prelievo fiscale, anche mediante ritenuta d’imposta. Secondo detta ricostruzione, la rinuncia al credito tassato per cassa determina effetti reddituali e, come tale, subisce il prelievo fiscale al pari del credito effettivamente incassato e riversato a titolo di apporto di capitale.”

Si badi che gli effetti della rinuncia possono essere di due tipi per il creditore remittente: “La natura reddituale o patrimoniale della rinuncia del socio al credito vantato nei confronti della società non è univoca. Infatti, se sotto il profilo formale la rinuncia determina una sopravvenienza, dal punto di vista sostanziale l’effetto coincide con quello che si realizzerebbe ove la società pagasse il suo debito ed il socio apportasse nuovo capitale.”

Occorre ora, prima di affrontare il casus belli indugiare sulle modifiche normative che hanno inciso significativamente sulle disposizioni normative da considerare per affrontare la tematica delle rinunce ai crediti. Ciò in quanto, la presente sentenza rappresenta la prima applicazione da parte del giudice di legittimità della novella introdotta dal d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (cd. decreto internazionalizzazione) entrata in vigore, per i soggetti solari, dal periodo di imposta 2016. Infatti, la pur rilevante ordinanza della Suprema Corte 14 aprile 2022, n. 12222 affrontava un caso riferibile all’anno di imposta 2011 ove il contribuente ivi rinunciava al trattamento di fine mandato degli anni 1998-2006. Va quindi ricordato che ante modifiche il combinato disposto degli artt. 88 comma 4, 94 comma 6  e 101 comma 7 del Testo unico delle imposte sui redditi prevedeva che l’ammontare relativo alla rinuncia del credito non fosse ammesso in deduzione in capo al socio rinunciante, ma andasse ad aggiungersi al costo fiscale della partecipazione: un vantaggio quindi postergato e da far valere in sede di determinazione dell’eventuale plusvalenza (o minusvalenza) rinveniente dalla (sempre eventuale) dismissione della partecipazione. Nell’ottica della società partecipata, detta rinuncia del socio non determinava in capo all’impresa una sopravvenienza attiva imponibile (sul punto anche le Risoluzioni 5 aprile 2001, n. 41/E e 22 maggio 2022, n. 152/E; vedasi in senso contrario la norma di comportamento n. 201 del 2018 dell’AIDC).

L’art. 88 del Testo unico ha quindi subìto un’importante modifica con l’innesto del nuovo comma 4- bis, a mente del quale “la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione il valore fiscale del credito è assunto pari a zero”. In forza della conseguente modifica degli artt. 94 comma 6 e 101 comma 7 del Testo unico, per il socio che detiene la partecipazione in regime di impresa, l’importo oggetto di rinuncia viene a sommarsi al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione solo e “nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia”. La società beneficerà di una sopravvenienza non tassabile solo e nei limiti di detto valore. In conseguenza di ciò la rinuncia del creditore ad un credito con valore fiscale nullo (es. compenso amministratore imputabile a periodo “per cassa”), non incrementerà il valore fiscale della partecipazione. Non vi sarà pertanto nemmeno alcun obbligo di operare ritenute in qualità di sostituito di imposta.

Esaminata la disciplina applicabile a questo “doppio binario” civile e fiscale devesi affrontare la controversia affrontata dai giudici. Essa riguardava una società italiana che aveva ricevuto, nell’anno 2007, un finanziamento fruttifero da parte di una consociata lussemburghese; quest'ultima, nell’anno 2016, cedeva il credito residuo alla controllante e socia unica, anch’essa residente nel Granducato. Nell’anno 2017 la controllante rinunciava integralmente al credito sia in linea capitale che in linea interessi. La controversia, se ne tenga conto, riguardava due soggetti imprenditori: sia il creditore che il debitore erano tassati per competenza; la collocazione temporale della rinuncia rende applicabili le nuove disposizioni del decreto internazionalizzazione. La condotta della società italiana ricorrente in Cassazione è fiscalmente (e processualmente) prudente: sugli interessi che avrebbe dovuto corrispondere in assenza di rinuncia, applica la ritenuta del 26% - ex art. 26, comma 5, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 – e successivamente propone istanza di rimborso, assumendo, in particolare e per quanto di maggior interesse, che la ritenuta non fosse dovuta. Impugnato il silenzio rifiuto, la contribuente risultò vittoriosa in Commissione Provinciale e soccombente nel grado di appello; da qui il ricorso per Cassazione ancorato all’art. 360 n. 3) del codice di rito.

La Suprema Corte, con sentenza ricognitiva ed esaustiva ma non scevra di criticità[1] giunge a dirimere la controversia stabilendo il seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi di capitale – in ragione di quanto previsto dagli artt. 88, comma 4-bis, 94, comma 6, 101, comma 5, t.u.i.r. a seguito delle modifiche di cui all’art. 13 legge 14 settembre 2015, n. 147 – la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l'obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell'art. 26, quinto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d'imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all’asimmetria fiscale o “salto d’imposta” di cui al precedente regime.”

Il recepimento della novella normativa era, si ritiene, “atto dovuto” e la pronuncia ha fatto buon governo della chiara ratio sottesa al decreto internazionalizzazione; di contro, non paiono assolutamente condivisibile le argomentazioni svolte in punto dall’Amministrazione finanziaria nei precedenti gradi di giudizi (ed ancor prima nella fase di silenzio-rifiuto) e recepiti dalla Commissione Regionale.

[1] Per le quali, per motivi dimensionali, si rimanda a R. Damasi, Ancora “luci e ombre” in tema di incasso giuridico dei crediti rinunciati dai soci, Corr. Trib. n.12/2023, p. 1081.

Argomento: Del reddito d’impresa
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. Trib., 12 giugno 2023, n. 16595)

stralcio a cura di Ciro Maria Ruocco

“ (…) 6.4 - Con la modifica, il trattamento della rinuncia del socio non trova più collocazione nell’art. 88, comma 4, t.u.i.r., ma nel successivo comma 4-bis il quale prevede, nel testo applicabile alla fattispecie, che la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva solo per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Inoltre, il nuovo testo impone al socio di comunicare il valore del credito alla partecipata mediante apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio; in assenza di comunicazione, il valore assunto è pari a zero, con conseguente tassazione dell’intera rinuncia, fiscalmente qualificata come sopravvenienza attiva. Correlativamente, gli artt. 94, comma 6, e 101, comma 7, t.u.i.r. hanno previsto, sul versante del socio, che l’ammontare della rinuncia al credito che si aggiunge al costo della partecipazione è nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia; che la rinuncia non è ammessa in deduzione e che il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione sempre nei limiti del valore fiscalmente riconosciuto del credito. Il nuovo regime, pertanto, ha posto in correlazione il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia e la detassazione. A seguito della rinuncia, il socio aumenta il costo della partecipazione solo nei limiti del valore fiscale del credito e la società beneficia di una sopravvenienza non tassabile solo nei limiti di detto valore. Accade, pertanto, che la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa non incrementa il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime sia dalla Agenzia delle Entrate che da questa Corte a sostegno della teoria dell’incasso giuridico. Di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata. Le asimmetrie cui la regola dell’incasso giuridico intendeva porre rimedio sono state, pertanto, risolte dal legislatore mutando la disciplina dell’art. 88 t.u.i.r. sul versante della società partecipata e degli artt. 94 e 101 sul versante del socio creditore. 6.5. - Può affermarsi, pertanto, il seguente principio di diritto: « In tema di imposte sui redditi di capitale – in ragione di quanto previsto dagli artt. 88, comma 4-bis, 94, comma 6, 101, comma 5, [continua ..]

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