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L'abrogato delitto di millantato credito “pretestuoso” (art. 346, co. 2. c.p.) non si pone in termini di continuità normativa con il traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) nè con la truffa (art. 640 c.p.)

Rosa Ambrosio

Con la sentenza in oggetto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano una delicata questione di successione di leggi penali nel tempo, chiarendo in via definitiva che la fattispecie del millantato credito c.d. “corruttivo”, disciplinata dal secondo comma dell’art. 346 c.p. (abrogato dalla l. n. 3/2019), non trova continuità normativa né nel reato di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) né nella truffa (art. 640 c.p.), se non a condizioni molto stringenti.

L’interrogativo da cui muove la Corte riguarda la possibilità di sussumere, a seguito dell’abrogazione, le condotte già previste dall’art. 346, co. 2, c.p. nell’ambito del riformato art. 346-bis c.p., come modificato dalla medesima legge.

La risposta è negativa: il legislatore del 2019 ha scelto consapevolmente di non trasporre nel nuovo assetto la figura del millantato credito pretestuoso, con conseguente applicazione dell’art. 2, comma 2, c.p. e dunque abolitio criminis.

“Alla stregua di tali principi, è possibile fondatamente sostenere che la scelta del legislatore del 2019 di abrogare l'art. 346 cod. pen. e contestualmente di modificare […] il contenuto dell'art. 346-bis cod. pen., ha comportato un fenomeno di abolitio criminis con riferimento ai fatti di millantato credito c.d. ‘corruttivo’”.

Tale conclusione si fonda su un’analisi strutturale e sistematica delle fattispecie, secondo un metodo interpretativo che rifugge da criteri meramente finalistici o basati sul bene giuridico, ritenuti “caratterizzati da troppo ampi margini di incertezza”.

Il millantato credito “corruttivo” si configurava come reato monosoggettivo, in cui l’agente, millantando una relazione con un pubblico ufficiale, riceveva denaro “col pretesto di dover comprare il favore” del pubblico agente. L’assenza di qualunque reale legame con quest’ultimo era elemento tipico della fattispecie.

Il nuovo art. 346-bis c.p., invece, punisce entrambe le parti dell’accordo illecito e non contiene la clausola “col pretesto”, decisiva secondo le Sezioni Unite per escludere ogni equivalenza:

“Nel nuovo art. 346-bis cod. pen. la formula «vantando relazioni […] asserite» non può considerarsi comprensiva anche dello specifico sintagma «col pretesto di comprare», espressione di una componente frodatoria […] del tutto assente nella nuova disposizione”.

Vieppiù, la struttura plurisoggettiva del nuovo delitto esclude che si possa punire la sola condotta ingannatoria del mediatore, tipica dell’art. 346, co. 2, c.p., senza coinvolgere il “committente”.

“Se la formula ‘vantando una relazione asserita’ fosse interpretata come inclusiva del caso del soggetto tratto in inganno dal mediatore, si finirebbe per sanzionare anche il committente solo per il disvalore delle sue intenzioni”.

Con riferimento alla fattispecie di truffa ex art. 640 c.p., la Corte chiarisce che non può operare alcuna “riespansione automatica” di tale fattispecie:

“Va negata la possibilità di una ‘automatica’ riespansione applicativa dell’art. 640 cod. pen., laddove risulti che i fatti siano stati addebitati […] solo in base alla disposizione abrogata […] e siano mancate una formale contestazione e un accertamento anche degli elementi specializzanti riconducibili al reato di truffa”.

Infatti, non sussiste un rapporto di specialità tra le due norme, ma un'interferenza reciproca: elementi come il “pretesto” e il “millantare” non coincidono con quelli richiesti per la truffa, quali l’induzione in errore, l’atto di disposizione patrimoniale e il profitto con altrui danno.

Ne deriva che, in difetto di formale contestazione e prova degli elementi costitutivi del reato di truffa, il giudice non possa riqualificare la condotta in termini di truffa ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p.

La decisione si segnala per la chiarezza metodologica e per la riaffermazione del principio di legalità in materia penale, evitando interpretazioni estensive in malam partem. Essa marca una cesura netta tra la vecchia e la nuova disciplina, lasciando penalmente scoperta una zona d’ombra che potrà rilevare, eventualmente, solo sul piano civilistico o disciplinare.

 

Argomento: Dei delitti contro la pubblica amministrazione
Sezione: Sezioni Unite

(Cass. Pen., SS.UU., 15 maggio 2024, n. 19357)

Stralcio a cura di Fabio Coppola 

“(…) La questione di diritto per la quale Il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è Il seguente: ”se sussista continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all'art. 346, secondo comma, cod. pen. - abrogato dall'art. 1, comma 1, Jett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3 - e il reato di traffico di influenze illecite di cui all'art. 346-bis cod. pen., come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. t) della citata legge". (…) Le due contrapposte soluzioni esegetiche impongono, preliminarmente, di considerare - sia pur in forma schematica - l'evoluzione normativa che la materia in esame ha avuto nel tempo. (…) Nel mlllantato credito c.d. "semplice", previsto dal primo comma dell'art. 346 cod. pen., il denaro e l'altra utilità erano ritenute Il prezzo della mediazione e il fatto era considerato punibile anche in assenza di impiego, da parte del millantatore, di particolari forme di artifici o raggiri. Nel millantato credito c.d. "corruttiva", disciplinato dal secondo comma dell'art. 346 cod. pen., il denaro o l'altra utilità erano indicate, invece, come il prezzo di una possibile corruzione: in tale seconda figura, dunque, il millantatore che intendeva trattenere per sé il prezzo, lo chiedeva non come corrispettivo per l'attività di mediazione che si impegnava a svolgere, ma con il "pretesto" di dover comprare il favore del pubblico agente o di doverlo remunerare; presentandosi, così, non come semplice intermediario capace di influire sulle determinazioni di funzionari pubblici, ma come "strumento" di corruzione di un pubblico agente, con il quale egli non aveva in realtà alcuna relazione (poiché In presenza di un rapporto effettivamente instaurato con il pubblico agente si sarebbero potuti configurare i più gravi reati della Istigazione alla corruzione o della stessa corruzione). In altri termini, nella ipotesi descritta dal secondo comma dell'art. 346 cod. pen. il mediatore agiva con l'intento di appropriarsi del denaro o dell'altra utilità promessa o ricevuta, sicché la sua condotta, nella quale era riconoscibile un profilo più spiccatamente lngannatorio e, comunque, maggiormente lesivo dell'interesse della pubblica amministrazione, era punita più severamente di quanto non avvenisse per quella descritta dal primo comma dello stesso art. 346 cod. pen. (…) La più volte citata legge n. 3 del [continua ..]

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