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L'assenza di una
Francesca Saveria Sofia
Con sentenza n. 91 del 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), del codice penale – per violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. – nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto, che nei casi di minore gravità la pena da esso comminata sia diminuita in misura non eccedente i due terzi.
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Bologna chiamato a giudicare su un’imputazione di produzione di materiale pedopornografico.
Nel caso di specie, l’imputato, mediante l’utenza telefonica del padre e con uno pseudonimo, aveva contattato delle minorenni, inviando foto dei propri organi genitali ed ottenendo da alcune delle interlocutrici, su sua richiesta, foto ritraenti i loro «organi sessuali secondari», così inducendo le vittime a inviargli materiale pedopornografico.
Secondo il giudice a quo, le condotte poste in essere dal giovane imputato risultavano connotate da una minore gravità, in considerazione di una serie di circostanze attenuanti. In primo luogo, il Tribunale ha evidenziato la ridotta differenza di età tra l’imputato, appena diciottenne, e le persone offese, di tredici e quattordici anni. In secondo luogo, ha sottolineato che le immagini pedopornografiche ritraevano esclusivamente «organi sessuali secondari», senza contenuti di maggiore esplicitezza.
Ulteriori elementi oggetto di valutazione hanno riguardato l’assenza di finalità commerciali o divulgative, nonché la mancanza di tecniche particolarmente manipolative o di seduzione affettiva.
L’istigazione alla produzione delle immagini si sarebbe, dunque, concretizzata attraverso una semplice opera di persuasione, priva di particolare insistenza o insidiosità. La prima vittima avrebbe inviato le fotografie a seguito di una semplice richiesta, pur preceduta da un’ingannevole dichiarazione sull’età da parte dell’imputato; mentre, nel caso della seconda vittima, le immagini sarebbero state ottenute a seguito di una richiesta «sia pure insistente», ma non accompagnata da ulteriori condotte coercitive o manipolatorie.
A tal riguardo, il Tribunale ha evidenziato l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio che, nella sua eccesiva severità, preclude al giudice di commisurare la sanzione al caso concreto, mitigando la risposta punitiva in presenza di elementi oggettivi indicatori di una minore gravità del fatto. Si pensi, ad esempio, ai diversi mezzi e modalità esecutive, al grado di compressione della dignità e del corretto sviluppo sessuale della vittima, alle condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, alla “frequenza” delle condotte, occasionali o reiterate, nonché alla consistenza del danno arrecato, anche in termini psichici.
Inoltre, la disposizione oggetto di censura è stata formulata in modo tale da includere nel proprio ambito di applicazione situazioni particolarmente diverse fra loro “sul piano del grado di offesa al bene giuridico tutelato”, senza, tuttavia, prevedere una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di modulare la pena al fine di adeguarla alla gravità concreta del fatto illecito.
In ragione di ciò, il Tribunale Romagnolo ha ritenuto che il reato di produzione di materiale pedopornografico, così come formulato, violerebbe i princìpi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, sanciti rispettivamente dal primo e terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto «la sproporzione derivante dall’omissione censurata, da un lato, ostacolerebbe l’individualizzazione della pena, corollario del carattere personale della responsabilità penale, e, dall’altro, ne svilirebbe la funzione rieducativa posto che una pena sproporzionata rischia di venire percepita dal condannato come ingiusta».
Pertanto, secondo il Giudice rimettente, anche alla disposizione oggetto di censura si sarebbe dovuta estendere la possibilità di una diminuzione della pena, fino a un massimo di due terzi, nei casi di minore gravità, già prevista per i delitti di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne, disciplinati dagli articoli 609-bis e 609-quater c.p..
Le questioni di legittimità sono state ritenute fondate dalla Corte Costituzionale.
Ebbene, l’art. 600-ter cod. pen. al primo comma, punisce con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000, chi, utilizzando minori di anni diciotto, produce materiale pornografico.
La Corte Costituzionale, condividendo le argomentazioni del Tribunale di Bologna, ha effettivamente rilevato la mancanza di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di graduare la pena in base alla concreta offensività della singola condotta, pur essendo la disposizione censurata idonea a includere, nel proprio ambito applicativo, condotte marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore.
La Consulta ha successivamente richiamato l’evoluzione, tanto normativa quanto giurisprudenziale, della disposizione in esame, al fine di meglio coglierne la portata e la formulazione.
Si pensi, ad esempio, alla legge 6 febbraio 2006, n. 38 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet) che, nel modificare l’art. 600-ter cod. pen., ha eliminato, per la configurazione del reato, il riferimento allo “sfruttamento” del minore, sostituendolo con la nozione di “utilizzazione”, nonché la finalità «di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico».
Dal canto suo la Cassazione, in considerazione dell’evoluzione del contesto tecnologico e dello sviluppo del web, ha recentemente escluso la necessità di accertare in concreto il pericolo di diffusione del materiale pedopornografico prodotto. Secondo l’orientamento espresso, infatti, la potenzialità diffusiva è ormai intrinseca agli attuali strumenti tecnologici, rendendo superata e anacronistica la verifica del pericolo concreto di circolazione del materiale all’interno dei circuiti della pedofilia. Pertanto, ad avviso della Corte, la sola produzione del materiale implica, in re ipsa, il pericolo della sua diffusione.
Se, dunque, la disposizione censurata ha conosciuto un’evoluzione che ne ha in parte ampliato l’ambito di applicazione, in funzione delle legittime finalità di prevenzione e repressione di questo e di altri reati affini, è proprio tale ampliamento a far emergere, sotto il profilo della legittimità costituzionale, «la necessità di una “valvola di sicurezza” che, fermo il minimo edittale elevato che il legislatore nella sua discrezionalità ha voluto porre, consenta al giudice comune, attraverso la previsione di un’attenuante speciale, di graduare e “personalizzare” la pena da irrogare in concreto con riferimento ai casi di minore gravità, al fine di assicurare la proporzionalità della sanzione in una con la individualizzazione della pena e la sua finalità rieducativa».
Alla luce di quanto finora esposto, il caso concreto, posto all’attenzione del giudice a quo, è stato considerato emblematico proprio di quelle “irragionevoli conseguenze” che possono derivare dall’assenza della predetta “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di applicare una sanzione proporzionata alla condotta presumibilmente riconducibile, pur nel suo innegabile disvalore, ad un’ipotesi di minore gravità.
La Corte Costituzionale ha correttamente rilevato una violazione del principio di proporzionalità della pena, desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., con conseguente pregiudizio anche del principio di individualizzazione della sanzione, alla luce del carattere «personale» della responsabilità penale, sancito dall’art. 27, primo comma, Cost.
Con riferimento, invece, all’individuazione della diminuente, la Consulta ha ritenuto ragionevole fare riferimento all’art. 609-quater cod. pen., che prevede la medesima cornice sanzionatoria dell’art. 600-ter cod. pen., ma al tempo stesso dispone che, nei casi di minore gravità, la pena sia diminuita in misura non eccedente i due terzi.
I giudici costituzionali hanno, infine, precisato, che «l’invocata diminuente potrà trovare ragionevole giustificazione limitatamente alle ipotesi di disvalore significativamente inferiore a quello normalmente associato alla realizzazione di un fatto conforme alla figura astratta del reato, trattandosi di condotta che incide comunque sull’equilibrato sviluppo e sul benessere psicofisico del minore, nonché sulla sua libertà sessuale e sulla sua dignità».
La sentenza della Corte Costituzionale è senza dubbio condivisibile e in linea con i principi fondamentali del nostro ordinamento, in particolare con il principio di proporzionalità della pena e con la sua funzione rieducativa. Infatti, attraverso la sua decisione, la Consulta ha restituito quel doveroso bilanciamento tra le esigenze sociologiche legate alla rieducazione del condannato e le finalità preventive e sanzionatorie della pena.
La Corte Costituzionale si è, dunque, allineata a diverse sue pronunce, nelle quali, più volte, ha sottolineato come la finalità rieducativa, «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quanto nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quanto in concreto si estingue» (Corte Cost. n. 313/1990).
Il principio di risocializzazione della pena deve costituire una vera e propria “bussola” nella scelta del tipo e dell’entità della sanzione, legittimando l’intervento della Corte costituzionale ogniqualvolta la norma incriminatrice preveda un trattamento sanzionatorio manifestamente sproporzionato rispetto alla finalità rieducativa, come è avvenuto nel caso di specie.
Sezione: Corte Costituzionale
(C. Cost., 20 maggio 2024, n. 91)
Stralcio a cura di Roberto Zambrano