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La gelosia può integrare l'aggravante dei motivi abietti o futili quando sia connotata non solo dall'abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima od un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall'agente come atti di insubordinazione
Andrea Tigrino
IN FATTO: Con sentenza del 20 dicembre 2023, la Corte di Assise di Appello di Catanzaro aveva parzialmente riformato la sentenza della Corte di Assise di Catanzaro del 24 maggio 2022, decisione con la quale l’imputato, fra i numerosi capi d’imputazione contestatigli, era stato condannato per l’omicidio del nuovo compagno dell’ex moglie.
Nel dettaglio, a seguito del rinvenimento del cadavere di quest’ultimo all’interno di un’autovettura, le dichiarazioni dell’ex consorte e della figlia dell’imputato avevano immediatamente indirizzato le indagini verso di lui, che, di fronte ai Carabinieri, aveva confessato il delitto (asserendo di essersi adoperato per scoprire l’identità della vittima) e consentito il ritrovamento dell’arma impiegata a tale scopo. Tale confessione veniva successivamente corroborata dagli ulteriori elementi d’indagine raccolti e dagli accertamenti medico-legali effettuati; in particolare, il contenuto delle conversazioni intercettate in carcere confermavano l’astio nutrito nei confronti del nuovo compagno della donna. Quest’ultima, infine, riferiva di essere stata oggetto di pedinamenti e aggressioni da parte dell’ex marito circa venti giorni prima dell’omicidio, a conferma della mancata accettazione della relazione da lei intrattenuta.
Fra i quattro motivi di doglianza presentati dalla difesa dell’imputato, l’attenzione va riservata al quarto. Con esso si lamentava la violazione di legge con riferimento al riconoscimento dell’aggravante dei futili motivi (art. 61, n. 1 c.p.), che la Corte di Assise di Appello aveva ritenuto integrata dalla «abnormità dello stimolo possessivo» scatenante la condotta omicidiaria. Secondo il ricorrente, il dolo d’impeto che aveva sostenuto la condotta dell’imputato poco dopo la scoperta dell’identità della vittima sarebbe stato «incompatibile con l’essenza dell’aggravante in questione che richiede che la gelosia che anima l’agire sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo, ma che sia anche espressione di uno spirito punitivo, innescato da condotte tenute dalla vittima e percepite come atti di insubordinazione». Oltre a ciò, lo stesso difensore riteneva che il giudizio sulla futilità dei motivi dovesse essere formulato «anche in relazione alla soggettività e alla provenienza culturale del soggetto agente».
IN DIRITTO: Nel dichiarare inammissibile il ricorso, la Suprema Corte reputava manifestamente infondati tutti i motivi proposti. Con specifico riferimento al quarto, i giudici di Piazza Cavour concordavano con i giudici di merito, i quali avevano ritenuto sussistenti i futili motivi in ragione della frustrazione provata dall’imputato alla scoperta che proprio l’ex moglie aveva cercato le attenzioni della vittima: «ciò nella logica dell’imputato poteva solo significare che i due avessero avuto una relazione anche prima, quando cioè egli stava ancora con la moglie e tale fatto per lo stesso era inaccettabile». Secondo i togati calabresi, proprio questo «senso di possesso» avrebbe fatto scattare la «molla omicida» dell’agente, leso nella propria autostima dell’essersi visto sottrarre «qualcosa che egli riteneva suo e con cui la vittima si sarebbe divertita» (anche in considerazione delle parole pronunciate subito prima di ucciderlo: «bastardo ti sei divertito»). Evocando due decisioni pronunciate dalla medesima sezione, la Cassazione segnalava come l’aggravante dei motivi abietti e futili venga infatti apprezzata ogniqualvolta «la gelosia si manifesti nell’autore quale ingiustificata espressione di possesso e intento punitivo avverso la libertà di autodeterminazione della persona con la quale ha intrattenuto una relazione sentimentale» (Cass. pen., Sez. I, 19 ottobre 2023, n. 5514), ossia risulti «connotata […] dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima od un terzo che appaia ad essa legata», ivi compresi i «casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione» (Cass. pen., Sez. I, 1° ottobre 2019, n. 49673).
COMMENTO: La sentenza in commento impone anzitutto una riflessione sull’etimo dei lemmi “abietto” e “futile”, attributi fondanti la prima circostanza aggravante fra quelle elencate dall’art. 61 c.p.. Mentre l’aggettivo “abietto” evoca un movente «spregevole, ignobile, d’animo vile»[1], il connotato della futilità andrebbe invece ravvisato in seno a pulsioni di «poca o nessuna importanza, […] insignificanti, [di] scarsa rilevanza», derivanti «da capriccio» o comunque prive «di uno scopo preciso»[2]. I confini fra i due termini paiono invece maggiormente sfumati in seno ai Lavori preparatori al Codice del 1930, per cui «i concetti di abiezione e di futilità, intesi come sintomo di maggiore pericolosità, sono abbastanza determinati: l’uno indica un particolare grado di perversità, l'altro contiene in sé l'idea di sproporzione tra movente e azione criminosa, e può giungere sino alla brutale malvagità»[3]. A ben vedere, infatti, il concetto di “perversità” (che lo stesso Guardasigilli considerava «troppo generico» per essere utilizzato in luogo degli aggettivi poi apparsi nel Progetto definitivo) e quello di “malvagità” paiono pressoché sinonimi, nonostante la precisazione inerente alla “sproporzione” sussistente tra movente futile e azione criminosa. Pur irrilevante sotto il profilo delle conseguenze strettamente sanzionatorie derivanti dal riconoscimento dell’aggravante in esame, l’adesione alla definizione offerta dai Lavori preparatori rende comprensibile la qualificazione di un impulso di gelosia quale motivo futile (qualora la gelosia stessa, lungi dal manifestarsi quale comprensibile, contenuta reazione a un sospetto o a un’effettiva sofferenza sentimentale, prorompa in una reazione – appunto – sproporzionata per gravità del pregiudizio arrecato), mentre la condivisione dei significati di uso corrente avvicina maggiormente al connotato dell’abiezione: più specificamente, la gelosia non può, salvo casi che lambiscono la morbosità patologica, ritenersi figlia di stimoli “insignificanti” o frutto di un “capriccio” (come potrebbe dirsi, attingendo dalla giurisprudenza in materia di aggravanti comuni, per l’agente che getti sassi da un cavalcavia animato da sconsideratezza e/o noia), essendo piuttosto abietta l’eventuale risoluzione criminale attuata in contrasto con l’autodeterminazione del vecchio partner (nel caso di specie, impedire all’ex moglie di rifarsi una vita mediante l’uccisione del nuovo compagno).
Ciò premesso, la pronuncia in esame offre una soluzione pienamente condivisibile e in linea con la già citata giurisprudenza di legittimità, quest’ultima concorde nel ritenere integrata l’aggravante dei motivi abietti o futili qualora la gelosia, manifestatasi nelle forme di un abnorme stimolo possessivo verso la vittima o un terzo che appaia a essa legata, sia espressione di uno spirito punitivo scatenato da condotte della vittima stessa percepite quali atti di insubordinazione[4]. Rigettando il motivo di ricorso, la Sezione Prima ha inoltre implicitamente ribadito l’orientamento secondo cui la circostanza in parola sarebbe pienamente compatibile con il dolo d’impeto[5], sconfessando così la tesi difensiva relativa a una loro supposta frizione.
Gli ermellini sono rimasti silenti anche su un altro profilo evidenziato della difesa: quello della presunta parametrazione della futilità dei motivi in relazione alla “provenienza culturale” del soggetto agente. La questione – e più ampiamente il tema dei reati culturalmente orientati – non è di poco momento, se si considera il precedente di un tribunale tedesco che, chiamato a giudicare un cittadino sardo imputato per i reati di sequestro di persona, violenza sessuale e lesioni a danno della fidanzata lituana, aveva dato risalto alle «particolari impronte culturali ed etniche dell’imputato», queste ultime condizionanti il suo esasperato sentimento di gelosia: tale retaggio, pur non potendo «valere come scusa», fu tuttavia tenuto «in considerazione come attenuante»[6]. Al tempo stesso, un atteggiamento di cauta riserva verso tali aperture è suscitato dal rilievo in base a cui le origini del reo possono condurre a un contegno di maggiore – e intollerabile – suscettibilità rispetto a quello normalmente atteso dall’agente medio, come nel caso di risposte spropositate a dinamiche relazionali del tutto innocenti (si pensi alle percosse o alle lesioni inferte al/alla proprio/a compagno/a come conseguenza di uno sguardo rivolto a un terzo).
Nel tentativo di compiere un’actio finium regundorum fra le forme di gelosia “fisiologica” e quelle scaturite in episodi di violenza quali quello oggetto di studio, i principali dubbi interpretativi sono senz’altro posti dal concetto di “abnormità” dello stimolo possessivo, la cui ambiguità rende inevitabile un approccio di natura casistica sostenuto dai pareri degli esperti psicologi. La vicenda in questione evidenzia come la gelosia ossessiva non sorga necessariamente da un’afflizione fra quelle classificate dal DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), potendosi al contrario ravvisare in capo a qualunque individuo il quale, soverchiato da una rabbia amorosa, si riveli incapace di contenere le manifestazioni maniacali da essa generate. Difatti, qualora la gelosia sia espressione di simili malattie o incida sulla psiche di un individuo già afflitto da tare di tal fatta, la stessa ben potrà essere giudicata come sintomo di patologia psichiatrica, rilevando non già quale stato emotivo e passionale (art. 90 c.p.) bensì quale vizio parziale o totale di mente (artt. 88-89 c.p.) tale da scemare grandemente o escludere la capacità d’intendere e di volere[7]. Ciò consente di cogliere un ultimo ma fondamentale spunto di riflessione suscitato dal tema, ossia quello delle differenti qualificazioni giuridiche cui la gelosia si presta a seconda delle specifiche condizioni soggettive dell’agente. A tal proposito, vale segnalare come la stessa, oltre all’inquadramento come aggravante testé vagliato e a quello come causa di esclusione dell’imputabilità appena richiamato, possa anche essere soppesata come una circostanza attenuante, confluendo nell’alveo dell’art. 62-bis c.p. qualora «concorr[a] con circostanze di natura ambientale e sociale che abbiano influito negativamente sullo sviluppo della personalità del reo»[8].
[1]Battaglia, S., voce “abietto”, in Grande Dizionario della Lingua Italiana, Vol. I, Torino, UTET, 1961, p. 40; parimenti, De Mauro, T., voce “abietto”, in Grande dizionario italiano dell’uso, Vol. I., Torino, UTET, 1999, p. 14.
[2]Battaglia, S., voce “futile”, cit., Vol. VI, 1970, p. 511.
[3]Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di Procedura penale, Vol. V, Parte I, Roma, Tipografia delle Mantellate, p. 111.
[4]Così, oltre alle due decisioni già menzionate nel testo della pronuncia, anche Cass. pen., Sez. I, 27 marzo 2013, n. 18779; Cass. pen., Sez. V, 3 luglio 2020, n. 23075.
[5]Ex multis, Cass. pen., Sez. I, 28 maggio 2009; Cass. pen., Sez. V, 26 gennaio 2010, n. 17686; Cass. pen., Sez. I, 21 novembre 2018, n. 12930.
[6]Trib. Bückeburg, 25 gennaio 2006, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2008, p. 1441 ss., con nota di Parisi, Colpevolezza attenuata in un caso dubbio di motivazione culturale. Per approfondire il tema del reato culturalmente orientato, si rimanda a Bernardi, A., Il “fattore culturale” nel sistema penale, Torino, Giappichelli, 2010; De Maglie, C., I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, ETS, 2010.
[7]A commento di Corte di Assise di Brescia, 9 dicembre 2020 e del particolare clamore mediatico da essa suscitato, vedasi Melchionda, A., Omicidio ed assoluzione “per gelosia”. Dai motivi aggravanti, alle psicopatie invalidanti, nel focus delle “impugnazioni mediatiche”, in Archivio penale, 1/2021.
[8]In tal senso, vedasi già Cass. pen., Sez. I, 2 marzo 1971, n. 217; Cass. pen., Sez. I, 15 novembre 1982, n. 2897 e, più recentemente, Cass. pen., Sez. I, 5 aprile 2013, n. 7272 (in cui i giudici hanno tenuto conto del turbamento correlato a una pressoché contestuale malattia oncologica); Cass., Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 27932; Cass., Sez. I, 29 gennaio 2018, n. 4149.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 2024, n. 41873)
Stralcio a cura di Claudia Scafuro
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