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Il rispetto delle linee-guida non esonera il medico da colpa grave in caso di morte del paziente se queste ultime si rivelano inadeguate al caso concreto. Il professionista ha infatti il dovere di discostarsene se le condizioni lo richiedono
Simone Rizzuto
La Terza Sezione penale della suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 40316, datata 24 settembre 2024 e depositata in Cancelleria il 4 novembre 2024, ha avuto modo di divisare un interessante percorso motivazionale in materia di responsabilità colposa dell’esercente la professione medica.
Nel corso del secondo giudizio di merito, la Corte di appello di Catania, in sede di rinvio, a seguito della sentenza di annullamento n. 4892/2020, pronunciata dalla Cassazione, condannava la ginecologa, S. R., in relazione al decesso di L. R., assolvendo il coimputato.
Al sanitario, in particolare, si rimproverava di non avere valutato correttamente i segni clinici e lo stato della gestante, L. R., «già cesarizzata due volte con algie pelviche, omettendo di predisporre ed eseguire in maniera costante il controllo cardiotocografico e il monitoraggio della ripresa del travaglio e dei suoi effetti sulla pregeressa cicatrice» e con la mancata tempestiva diagnosi di rottura della parete uterina, effettivamente occorsa, con conseguente shock emorragico e lipotimia, grave sofferenza ipossica a carico del neonato, per l’effetto deceduto.
La sentenza rescindente, dal canto proprio, evidenziava come le primigenie pronunce di merito non avessero fatto piena chiarezza in relazione al comportamento doveroso asseritamente omesso dall’imputata, soprattutto in relazione alla congruenza dello stesso rispetto alla contestata imputazione, rilevando una carenza motivazionale circa la sussistenza del nesso di causalità materiale, oltre che delle linee guida (o buone pratiche clinico-assistenziali) eventualmente applicabili al caso clinico trattato.
Durante il giudizio di rinvio, giova dar conto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con la nuova audizione dei consulenti tecnici, disposta dai giudici di appello, i quali operavano la delibazione giudiziale sulla scorta delle linee guida prodotte, secondo cui «il parto vaginale non è contoindicato nelle donne bicesarizzate e che il monitoraggio continuo è imposto solo in presenza di alcune condizioni, non ricorrenti nel caso si specie, ma che, tuttavia, pur in assenza di linee guida che imponessero di disporre il monitoraggio continuo, nel caso concreto, in presenza di donna bicesarizzata, con la testa del nascituro non impegnata, senza dilatazione, che spinge sulla cicatrice, secondo le linee guida del 2012, pacificamente applicabili al caso in esame, alla donna doveva essere garantita una adeguata sorveglianza clinica e un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva di travaglio e nella fase di "prodromi da travaglio", presenti nel caso in esame. Il monitoraggio attivo e continuo costituiva condotta doverosa, a livello di buone prassi, al fine di prevenire la rottura dell’utero».
La situazione della gestante, dunque, imponeva un diuturno monitoraggio fetale, suggerito dalle buone prassi in presenza di un concreto rischio di rottura dell’utero.
Ebbene, la condotta doverosa, omessa dalla ginecologa, ancorché non avrebbe potuto impedire la rottura dell’utero, sarebbe stata capace di porre in rilievo le alterazioni del tracciato, consentendo un tempestivo intervento cesareo che, dal canto proprio, avrebbe scongiurato conseguenze esiziali e, «con elevata probabilità», anche il decesso del nascituro.
Rebus sic stantibus, l’imputata, a seguito della condanna nel (secondo) giudizio di appello, interponeva ricorso per cassazione, deducendo, col primo motivo, la violazione dell’art. 627, comma III, c.p.p., il vizio di motivazione in ordine alla corretta qualificazione giuridica del fatto nel reato di cui all’art. 589 c.p. e di applicazione del compendio normativo di cui agli artt. 40 e 43 c.p.
Con il secondo motivo, le censure defensionali venivano ricondotte nel paradigma dell’art. 606, comma I, lettere b) ed e), c.p.p., in relazione all’art. 3 del decreto-legge 158/2012, convertito nella legge 189/2012 (cd. legge Balduzzi), ritenuto più favorevole dell’art. 590-sexies della codificazione penale, introdotto dalla legge 24/2017 (cd. legge Gelli-Bianco).
I sopra richiamati motivi di ricorso venivano rigettati in sede di legittimità, con un referto motivazionale gravido di interessanti valutazioni, in jure, con riguardo alla responsabilità penale colposa dell’operatore sanitario.
Ed infatti, muovendo dalla fondamentale premessa in forza della quale l’art. 3 della legge Balduzzi debba considerarsi norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies c.p., i giudici di legittimità sottolineano come «la sentenza impugnata ha individuato la condotta omissiva, come descritta nel capo di imputazione, ha accertato l’esistenza di linee guida che regolavano il comportamento del sanitario, evidenziando, peraltro, che le predette linee guida non imponevano, in assenza delle condizioni ivi previste, il monitoraggio continuo. Tuttavia la buona prassi medica, anche riportata nelle linee guida del 2012, imponeva, nella concreta situazione di rischio della paziente Lan. Ro., un’adeguata sorveglianza clinica e un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva di travaglio sicchè in presenza di specifici fattori di rischio e di prodromi di travaglio, le specifiche condizioni della La. Ro. imponevano, secondo i giudici di merito, nella condivisione delle conclusioni dei consulenti, a livello di buone pratiche, il monitoraggio continuo atteso il rischio potenziale dei due tagli cesarei e la conseguente rottura dell’utero.
In conclusione, pur non sussistendo una indicazione del comportamento doveroso nelle linee guida per il caso concreto, le specifiche condizioni della paziente imponevano al sanitario di adeguare le stesse secondo le buone prassi mediche riportate nelle linee guida del 2012. Il monitoraggio continuo avrebbe avuto con elevata probabilità effetto salvifico, con dimostrazione del nesso di causa naturalistico e psichico».
Partendo dalle considerazioni condensate nei sintagmi sopra riportati, i giudici di legittimità, ribadiscono, ancora una volta, l’applicabilità dell’art. 3 della legge 189/2012, focalizzando l’attenzione sulla corretta natura giuridica da conferire alle raccomandazioni contenute nelle linee guida, le quali «non hanno carattere precettivo come quello delle regole cautelari codificate, poiché hanno un più ampio margine di flessibilità». Viene enfatizzata, segnatamente, la circostanza per la quale questi strumenti di soft law possiedano soltanto un «rilievo sul piano orientativo della condotta dell’operatore sanitario facendo salve le specificità del caso […]».
A questo punto, gli Ermellini procedono al richiamo dell’invalso indirizzo pretorio in forza del quale la pedissequa applicazione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida non destituisce, ex se, di rilevanza penale il contegno dell’operatore sanitario che, nel singolo caso clinico, avrebbe avuto, diversamente, discostarsi da quelle stesse indicazioni scientifiche per perseguire percorsi, trattamentali e terapeutici, diversi e maggiormente funzionali a preservare la salute del paziente (cfr. Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 24455, del 22 aprile 2015, Plataroti).
La Corte specifica il fatto che «Qualora la regola cautelare, posta in via astratta e non esaustiva dalle linee guida, si riveli inadeguata in relazione allo specifico profilo di rischio, valutato in rapporto alla situazione concreta, l’errore del sanitario nell’adattamento delle linee guida rispetto al caso concreto esonera la sua responsabilità solo se "lieve"».
Nel caso in esame, il grado di culpa del soggetto agente viene reputato grave, «essendo mancata, da parte del medico, non solo la valutazione dell’adeguatezza delle linee guida al caso concreto, ma altresì l’individuazione della regola cautelare per prevenire il rischio specifico della rottura del’utero che, nel contesto specifico, non era affatto imprevedibile». Ad avviso dei giudici, nella ricorrenza dei fattori sopra richiamati, «si imponeva, pertanto secondo buone prassi mediche, quella concotta doverosa, il monitoraggio costante della paziente».
La sentenza avversata, in conclusione, «ha ritenuto, sulla scorta di un percorso argomentativo per nulla cadente e/o manifestamente illogico che, in presenza della situazione di fatto accertata, e non oggetto di contestazione (paziente bicesarizzata con algie pelviche, con testa impegnata e dilatazione zero, e con testa che spinge sulla cicatrice) è norma cogente, come indicato nella buona prassi medica del 2012, il controllo continuo, controllo che avrebbe rilevato le anomalie e la conseguente rottura dell’utero e consentito un intervento rapido con effetti salvifici sul feto con elevato grado di probabilità».
A fisiologico corollario delle superiori statuizioni, i giudici di Piazza Covour procedevano al rigetto dell’interposta impugnazione, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. III, 04 novembre 2024, n. 40316)
Stralcio a cura di Giuseppe Tuccillo
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