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Il giudice dell´udienza predibattimentale non può partecipare al giudizio, configurando detta ipotesi una espressa causa di incompatibilità in seguito alla illegittimità costituzionale di tipo additivo dell´art. 34, co. 2 c.p.p.
Filippo Lombardi
Con la sentenza qui annotata, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 34, co. 2, c.p.p. nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio il giudice dell’udienza predibattimentale nel caso previsto dall’art. 554 ter, co. 3, c.p.p., vale a dire quando egli abbia disposto la prosecuzione del procedimento dinanzi al giudice dell’udienza dibattimentale. Si tratta dell’introduzione di una nuova causa di incompatibilità nel catalogo della norma censurata, nel senso che il giudice del dibattimento dovrà essere necessariamente una persona fisica diversa da chi ha celebrato il momento processuale antecedente.
In via consequenziale, la Corte ha anche dichiarato l’incostituzionalità della medesima norma nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio il giudice dell’udienza predibattimentale nel caso previsto dall’art. 554 quater, co. 3, c.p.p., quando cioè la sentenza di non luogo a procedere, impugnata, sia stata revocata dal giudice di gravame e il caso sia ritornato alla “fase” predibattimentale.
Va subito detto che il caso da cui prende le mosse la sentenza in esame è peculiare in quanto il cortocircuito interno che ha consentito la rimessione della questione alla Consulta è legato ad un casuale avvicendamento tra giudici, non risolvibile alla stregua delle tabelle organizzative dell’ufficio giudiziario.
Infatti, il giudice rimettente, dopo aver celebrato l’udienza predibattimentale, si era determinato a trasmettere il fascicolo al giudice dibattimentale per la prosecuzione del giudizio. Tuttavia, a causa dell’assenza giustificata di quel giudice persona fisica, era stato nuovamente investito della medesima causa, sulla base della disciplina interna, questa volta nel ruolo di giudice del dibattimento supplente.
Il rimettente ha quindi rilevato il vuoto normativo con riferimento all’esistenza di una norma che affermi l’incompatibilità, o comunque cristallizzi il dovere di astensione, al di fuori delle “gravi ragioni di convenienza”, certamente sussistenti ai sensi dell’art. 36, co. 1, lett. g), c.p.p.
Pertanto, l’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non annovera questa specifica ipotesi di incompatibilità, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, 101, 111 e 117 della Costituzione (quest’ultimo quale norma che impone il rispetto, per quanto qui di interesse, dell’art. 6 CEDU e 14, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici).
In via principale, il conflitto sarebbe con la garanzia del giusto processo. Infatti, come sostenuto dal giudice a quo, l’istituto dell’incompatibilità è funzionale a prevenire il pregiudizio in capo al giudicante e l’eccessiva soggettività della decisione, contribuendo ad attuare i valori costituzionali della terzietà e dell’imparzialità.
Mediante la disposizione ex art. 34 c.p.p., l’istituto è declinato secondo un elenco tassativo di situazioni, non colmabile in via analogica, ostativo alla funzione quando il medesimo giudice si trovi esposto alla «forza della prevenzione» avendo già assunto una decisione sulla medesima res iudicanda, valutando il contenuto della stessa ipotesi accusatoria.
Il principio condensato nella norma trova conforto sia nella giurisprudenza convenzionale sia in quella costituzionale.
La Corte di Strasburgo ha infatti rilevato la sussistenza di due approcci alla materia dell’imparzialità del giudice: da un lato, il versante soggettivo, che transita per l’adozione di tutti gli strumenti normativi che mirino a scongiurare l’interesse personale del giudice nella controversia; dall’altro lato, il versante oggettivo, a valenza – per così dire – residuale, che mira a fugare ogni legittimo dubbio sull’imparzialità del decisore, ad esempio quando egli abbia svolto più funzioni nell’ambito dello stesso processo (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 15 dicembre 2005, Kyprianou contro Cipro).
Nella giurisprudenza costituzionale, le condizioni dell’incompatibilità sono state meglio specificate; in particolare ci si riferisce all’avere il giudice nella medesima vicenda giudiziaria valutato atti e assunto una decisione di merito inerente all’accusa, una decisione cioè che non abbia riguardo «al mero svolgimento del processo o a un aspetto formale del procedimento».
Così dogmaticamente delineata la categoria e i riflessi costituzionali dell’incompatibilità, il giudice rimettente ha rilevato la portata decisoria del provvedimento di rinvio pronunciato ex art. 554 ter, co. 3, del codice di rito, la quale si ricava in negativo dall’assenza di condizioni per pronunciare una sentenza di non luogo a procedere. In questi termini, il provvedimento di rinvio sul ruolo del giudice dibattimentale per la prosecuzione sarebbe l’effetto della valutazione della pregnanza degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero ai fini della condanna dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio.
Oltre alla frizione con i paradigmi costituzionali riferibili alla garanzia della imparzialità, la norma, nella sua lacunosità, si porrebbe in conflitto con il principio di uguaglianza e ragionevolezza ex art. 3 Cost., siccome paleserebbe una disparità di trattamento rispetto all’udienza preliminare. Infatti, l’udienza preliminare assume la medesima funzione di udienza “filtro” ed è calibrata, quanto alla regola di giudizio adottabile, sulla medesima che il codice di rito somministra al giudice dell’udienza predibattimentale; e, quanto all’oggetto delle attività valutative, sul medesimo compendio investigativo racchiuso nel fascicolo delle indagini, conoscibile infatti sia dal giudice dell’udienza preliminare che dal giudice dell’udienza predibattimentale.
La Corte costituzionale passa innanzitutto in rassegna la natura dell’udienza predibattimentale e le attività espletabili nel corso della stessa. Essa costituisce un’udienza filtro nella quale trovano esplicazione, in particolar modo, i momenti della verifica della regolare costituzione delle parti, del vaglio sulla rispondenza degli atti di indagine alla descrizione fattuale del capo di imputazione e alla qualificazione giuridica assegnata, e infine – risolte le questioni preliminari e in assenza di definizione con riti alternativi – della decisione sulla necessità del dibattimento, alla luce degli atti di indagine, che sono posti all’attenzione del giudice con la formazione stessa del fascicolo del dibattimento.
Su quest’ultimo aspetto, occorre osservare che al giudice sono assegnati ampi margini definitori, potendo egli adottare ogni formula di proscioglimento – avuto riguardo all’improcedibilità dell’azione, all’estinzione del reato, alla sussistenza di fattori che impongano l’assoluzione, anche in applicazione di cause di non punibilità in senso stretto, inclusa quella ex art. 131 bis c.p. – da adoperare ai fini della pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere.
Tra le novità spicca la menzione, da parte del legislatore, del penetrante criterio della ragionevole previsione di condanna, che dovrà guidare l’interprete nella decisione.
Più nello specifico, il giudice dell’udienza predibattimentale pronuncia sentenza di non luogo a procedere non soltanto quando dalla lettura degli atti di indagine emerga una causa che impone, secondo un canone di evidenza, il proscioglimento, ma anche quando gli elementi cristallizzati nel fascicolo del pubblico ministero non consentano di svolgere una ragionevole previsione di condanna: allo scopo di assegnare alla riforma “Cartabia” (decreto legislativo n. 150 del 2022) una reale portata innovativa coerente con la funzione deflattiva dell’udienza in esame, si è ritenuto – nella prima letteratura formatasi sul tema – che osta alla ragionevole previsione di condanna il compendio investigativo dal quale emerga il ragionevole dubbio che imporrebbe l’assoluzione all’esito del giudizio.
Tale criterio, tra l’altro, innerva tutte le fasi del procedimento e costituisce il canone di giudizio per tutti i soggetti che intervengono nel procedimento penale nelle fasi anticipate rispetto al dibattimento: pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari in sede di archiviazione; giudice dell’udienza preliminare; giudice dell’udienza predibattimentale.
Ciò premesso, il Giudice delle leggi passa a scandagliare la disciplina della incompatibilità, allo scopo di verificare se l’attività già svolta dal giudice dell’udienza predibattimentale gli consenta, già in astratto, di partecipare al giudizio.
L’istituto dell’incompatibilità mira a garantire che il giudice operi in assenza di interessi propri nella controversia e «sgombro da convinzioni precostituite»; detto altrimenti, esso mira ad evitare che la già cennata forza della prevenzione conduca il giudice a riportarsi ad una sua precedente decisione, confermandola. Perché vi sia incompatibilità, occorre il perfezionamento di più condizioni: a) il giudice deve avere svolto valutazioni su atti, non essendo sufficiente che li abbia soltanto conosciuti; b) le valutazioni già adottate devono avere ad oggetto la stessa res iudicanda; b) la valutazione deve essere stata svolta in una diversa “fase” del procedimento; c) la valutazione deve aver condotto ad una decisione non formale sul merito dell’accusa.
La garanzia di cui si discorre ha sempre assunto rilievo costituzionale nella giurisprudenza della Consulta, che la agganciava in passato agli artt. 3, 25, 101 e 108 della Carta fondamentale; a partire dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1999, ha assunto dignità autonoma all’art. 111 Cost. che menziona l’imparzialità del giudice. Del resto, essa è valorizzata anche a livello sovranazionale dall’art. 6 CEDU e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il sistema processuale vigente preserva l’imparzialità del giudice agli artt. 34, 35 e 36 del codice di rito; i primi due articoli annoverano situazioni che pregiudicano ex se la capacità di equilibrio del giudice, imponendogli del resto di astenersi ex art. 36, lett. g), c.p.p., potendo altrimenti essere ricusato.
In questo catalogo di condizioni, difetta quella inerente all’incompatibilità tra giudice dell’udienza predibattimentale e giudice dell’udienza dibattimentale, nonostante il primo svolga, per quanto già esposto, un «vaglio penetrante del merito dell’accusa», sufficiente a condizionarlo qualora egli si ritrovi a svolgere anche la successiva attività dibattimentale.
Tale vulnus non è compensato né dalla possibilità per il giudice di astenersi ex art. 36, lett. h), c.p.p., che costituisce una norma di chiusura (la cui efficacia è peraltro rimessa alla personale “sensibilità” del giudicante e non implementata dal potere delle parti di ricusare il giudice) operante nei casi in cui l’imparzialità del decisore non possa dirsi compromessa già sul piano generale e astratto; né dall’art. 554 ter, co. 3, c.p.p., che richiede che il giudice del dibattimento sia «diverso» da quello che gli ha trasmesso il fascicolo, non trovando la disposizione una forma di tutela certa che sancisca in via predeterminata e generale la grave incompatibilità tra le due figure di giudicanti.
Incide sull’accoglimento della questione di legittimità costituzionale anche quanto affermato dal giudice di prime cure in ordine alla disparità di trattamento rispetto all’udienza preliminare, connotata dalla medesima natura e dai medesimi scopi dell’udienza predibattimentale, ma unica delle due ad essere annoverata nell’art. 34 c.p.p. quanto all’incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare a celebrare il dibattimento.
La Corte costituzionale, sulla base delle esposte motivazioni, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p. nei termini di cui in premessa.
Sezione: Corte Costituzionale
(C. Cost., 14 novembre 2024, n. 179)
Stralcio a cura di Fabio Coppola