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L'invio di 21 sms alla persona offesa, circa uno ogni 4 giorni, non è sufficiente di per sé a configurare il reato di molestie di cui all'art. 660 c.p.; il giudice di merito è tenuto ad effettuare una valutazione circa l´inutilità dei messaggi inviati o se, invece, non siano correlati a reali esigenze organizzative tra le parti
Chiara Vittoria Costa
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, si è pronunciata sulla corretta configurazione del reato di cui all’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone) in relazione ad una condotta consistente nell’invio di 21 messaggi telefonici da parte dell’imputato alla ex moglie in un arco temporale di 3 mesi. Tale pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza di legittimità che esige una rigorosa e non apodittica verifica del fatto nella configurazione del reato di cui all’art. 660 c.p. con particolare riferimento all’elemento oggettivo della petulanza.
La Corte è chiamata a valutare la legittimità di una sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Vallo della Lucania, che aveva riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato per aver reiteratamente inviato, nel periodo compreso tra il 31 ottobre 2020 e il 29 gennaio 2021, 21 sms alla ex moglie, in violazione di un precedente ammonimento del Questore notificato oltre due anni prima. Il Tribunale aveva ritenuto che la sola insistenza e frequenza delle comunicazioni integrassero il requisito della molestia petulante, prescindendo dal contenuto concreto dei messaggi.
La Corte ha annullato la sentenza, rilevando una motivazione meramente assertiva in quanto recepisce le dichiarazioni della parte offesa senza un adeguato esame critico e senza considerare gli argomenti difensivi quali l’esistenza di finalità legittime come la gestione del figlio; rileva, inoltre, l’omessa valutazione critica dei contenuti dei messaggi, della loro effettiva finalità e del contesto relazionale e familiare nel quale si collocavano.
Il Collegio ha ribadito che per “petulanza” si intende un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà (cfr. Sez. 1, n. 6064 del 06/12/2017, dep. 2018, Rv. 272397), tenuto con la consapevolezza di arrecare disturbo, senza che rilevi l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o di esercitare un proprio diritto e che la sussistenza di tale elemento non può desumersi unicamente dalla quantità dei contatti o dalla presenza di precedenti ammonimenti amministrativi, ma richiede un’analisi qualitativa del contenuto delle comunicazioni e della loro necessità o pretestuosità. Nel caso di specie, i contenuti articolati dei messaggi avrebbero richiesto un’analisi attenta da parte del giudice, non essendo stati esaminati elementi che dimostrino che le diverse esigenze proprie o del figlio fossero addotte pretestuosamente. In più il numero complessivo, pari a 21 sms, corrispondenti più o meno ad 1 ogni 4 giorni, non può essere univocamente significativo. Per integrare la fattispecie di cui all’art. 660 c.p., è necessaria la presenza di una condotta molesta o petulante, idonea ad arrecare disturbo alla sfera privata altrui. Il principio di diritto implicitamente affermato è che la molestia ex art. 660 c.p. non può ritenersi integrata in assenza di un vaglio analitico del contenuto comunicato. Il dato quantitativo, se non accompagnato da una valutazione del loro contenuto o del contesto, non è sufficiente ad integrare la fattispecie incriminatrice.
Altro aspetto centrale mosso dalla Corte di Cassazione riguarda la carenza di motivazione nella sentenza impugnata per ciò che riguarda l’utilizzo delle dichiarazioni della persona offesa e cioè quando la responsabilità dell’imputato si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, il giudice di merito ha l’obbligo di fornire una motivazione rafforzata che esamini criticamente la coerenza e la credibilità di tali dichiarazioni, anche mediante confronto con altri atti del processo. Ciò significa che va verificata in concreto e attentamente l’attendibilità intrinseca della narrazione, la credibilità soggettiva della persona offesa e soprattutto vanno confrontate criticamente le dichiarazioni rese in udienza con altri elementi oggettivi agli atti come il contenuto testuale della querela e il contenuto effettivo dei messaggi. Nel caso in esame, la motivazione impugnata è stata censurata anche perché il Tribunale ha accolto in modo acritico le dichiarazioni rese dalla persona offesa, senza averle confrontate con quanto contenuto nella querela agli atti contenente i messaggi nella loro interezza da cui avrebbe potuto fare un’analisi più attenta. A conclusione di tale iter loico motivazionale, la Corte ha disposto annullamento con rinvio per nuovo giudizio da celebrarsi davanti ad un diverso Giudice monocratico del medesimo Tribunale, cui è demandato un rinnovato esame dei fatti, dei profili e delle statuizioni.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. I, 15 novembre 2024, n. 44953)
Stralcio a cura di Giuseppe Tuccillo
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