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Prima della pronuncia delle SS.UU. del 2017 “Savarese” non era prevedibile e pertanto non è retroattivamente applicabile l´interpretazione giurisprudenziale che estende la punibilità dell´art. 615 ter c.p. alle ipotesi di accesso al sistema informatico lecito nelle modalità esecutive, ma abusivo per le ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso è attribuita

Andrea Castaldo

La Corte di cassazione affronta, con tale pronuncia, l’ipotesi del mutamento giurisprudenziale sfavorevole tra due pronunce, entrambe delle Sezioni unite, affermando l’esclusione della colpevolezza per il fatto commesso in presenza del precedente orientamento giurisprudenziale che ne escludeva la tipicità. In altre parole, la Corte chiarisce che in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico, prima dell’intervento – nel 2017 – delle Sezioni Unite “Savarese” non era in alcun modo ragionevolmente prevedibile nessuna interpretazione giurisprudenziale estensiva che punisse l’accesso ad un sistema informatico da parte di un soggetto abilitato ma avvenuto per scopi e/o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.  

La decisione in esame prende il via dal ricorso per cassazione dell’imputato – Sovraintendente della Polizia di Stato – avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli che lo condannava in merito al reato di cui all’art. 615 ter c.p., per essersi introdotto abusivamente in un sistema informatico, aver svolto una ricerca nonché una interrogazione abusiva della Banca Dati SDI. Tale piattaforma è stata istituita per consentire agli appartenenti di più Forze Armate di immettervi dati e fruire reciprocamente di documenti o notizie utili nello svolgimento delle indagini e delle attività di pubblica sicurezza, le normative base di riferimento sono la Legge n. 121/1981 e il D.P.R. n. 378/1982.

Secondo i giudici territoriali, il fatto del pubblico ufficiale che interroga una banca dati per finalità estranee a quelle istituzionali – le sole per le quali può considerarsi legittima la sua facoltà di introdursi e di mantenersi nel sistema informatico – integra la fattispecie criminosa contestata, nella declinazione ermeneutica risultante dalle Sezioni Unite “Savarese”, intervenute a mutare il precedente proprio indirizzo suggellato, diversi anni prima, con la sentenza “Casani”.

L’utilizzo improprio del sistema, per scopi non istituzionali, ma personali, integra senz’altro una condotta illecita, ma il percorso giurisprudenziale intrapreso per inquadrare la normativa applicabile ai vari casi verificatisi è stato caratterizzato da diversi orientamenti, in merito ai quali la Corte di cassazione si è pronunciata più volte, si pensi alle sentenze nn. 41210/2017 e 694/2012, nonché alla sentenza n. 5390/2022.

Sul punto, la Corte territoriale competente confermava la sentenza impugnata, ma senza tener conto dell’evoluzione giurisprudenziale che ha avuto ad oggetto il reato previsto e punito dall’art. 615 ter c.p., in particolar modo nel tempo in cui l’imputato aveva commesso i fatti (2016).

Il momento di verificazione del reato riveste un ruolo fondamentale in virtù della possibilità o meno di ritenere l’accesso ad un sistema informatico ai fini della consultazione di una banca dati senza una motivazione preventiva, una fattispecie delittuosa o meno, in virtù del mutamento giurisprudenziale prevedibile o meno. Ciò in quanto con Cass., Sez. Un., 18 maggio 2017, n. 41210 “Savarese” e Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2011, n. 4694 “Casani”, nonché alla luce del più recente intervento della Cassazione con la sentenza de qua, si è andati incontro ad un mutamento giurisprudenziale.

La Cassazione ha quindi avuto modo di pronunciarsi sull’incidenza del mutamento giurisprudenziale in senso peggiorativo, determinato dalle Sezioni Unite, in relazione a fatti commessi in data anteriore al cosiddetto overruling.

La decisione della Corte è nel senso di annullare, senza rinvio, la condanna con riferimento al reato di accesso abusivo a sistema informatico o telematico ex art. 615 ter c.p., in quanto la condotta si è tenuta successivamente alla decisione delle Sezioni Unite del 2012, ma anteriormente alla svolta giurisprudenziale impressa dal Supremo Consesso pochi anni dopo.

Un mutamento giurisprudenziale rilevante per il caso concreto, dal momento che, per effetto della nuova interpretazione fornita dalla Cassazione, la condotta, inizialmente non costituente reato, alla luce della regola fissata nel 2012, è divenuta penalmente rilevante con la decisione del 2017.

La Cassazione evidenzia altresì che al momento in cui i fatti furono commessi il principio di diritto, stabilizzatosi con la sentenza “Casani” era quello per cui il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p. era configurabile solo per colui che, pur essendo abilitato, avesse avuto accesso o si fosse mantenuto in un sistema informatico protetto violando le condizioni ed i limiti imposti dal titolare del sistema, restando assolutamente privi di rilievo, ai fini della configurazione del reato, gli scopi e le finalità che avessero spinto il soggetto ad accedere al sistema.

Nel 2017 le Sezioni Unite decisero di estendere la punibilità del soggetto facendo rientrare nella norma incriminatrice anche i casi in cui i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio accedono al sistema e vi si trattengono abusando della propria qualità soggettiva, rappresentando ciò uno sviamento di potere, in quanto avvenuto oltre gli interessi prettamente pubblicistici del ruolo rivestito.

Il delitto in esame risulta quindi configurato anche dalla condotta del soggetto che, anche se abilitato ad accedere al sistema, vi si introduca per raccogliere dati protetti per fini estranei alle ragioni per cui possiede le chiavi di accesso, utilizzando dunque il sistema per finalità diverse da quelle consentite.

La produzione di un effetto in malam partem rispetto alle letture precedenti della norma incriminatrice ha inciso ovviamente in concreto sulla posizione di numerosi imputati che potevano ben fare legittimo affidamento sull’arresto giurisprudenziale per cui la loro condotta non configurasse reato alcuno.

Alla luce di ciò, la Sesta Sezione penale ha ritenuto che integri causa di esclusione della colpevolezza, ai sensi dell’art. 5 c.p., il mutamento di giurisprudenza in malam partem, nel caso in cui l’imputato, al momento del fatto, poteva fare legittimo affidamento su una interpretazione stabilizzatasi delle Sezioni Unite, che escludeva la rilevanza penale della condotta e soprattutto, non vi erano segnali, concreti e specifici, che inducessero a prevedere un mutamento esegetico futuro da parte della Corte stessa in senso peggiorativo.

L’approdo è l’affermazione secondo cui la “possibilità di fare affidamento” su una regola stabilizzata di giurisprudenza, in quanto “norma vivente” che opera in concreto, impedisce “di formulare un giudizio di colpevolezza-rimproverabilità soggettiva”, poiché “il consociato, un sovraintendente di Polizia, non era tenuto – nemmeno in astratto – in quel momento a rappresentarsi l’eventualità della condanna”.

Precedenti arresti sul medesimo tema avevano però negato l’esistenza di un overruling sfavorevole imprevedibile, ad es.: Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 20212/2022 e Sez. V, n. 47510/2018. Tali decisioni, su un quesito identico, si sono espresse ritenendo che deve escludersi la sussistenza di un overruling operato dalle Sezioni Unite “Savarese” rispetto ai principi affermati in precedenza con la sentenza “Casani”, così come la violazione dell’art. 7 CEDU, alla luce del fatto che le Sezioni Unite “Savarese” hanno solo puntualizzato ed approfondito l’analisi della precedente sentenza “Casani”, senza procedere ad una evoluzione e/o ribaltamento dell’orientamento interpretativo vigente.

La decisione della Corte è di assoluto rilievo e consente una serie di plurime riflessioni sia per quanto riguarda il diritto penale nazionale che il diritto sovranazionale con il richiamo alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU).

Si suol parlare di due differenti possibili overulling che possono aversi in giurisprudenza.

Infatti, da un lato, vi è il cosiddetto mutamento evolutivo, che si ha in presenza di interpretazioni estensive, di adattamento e specificazione. Mutamento che comunque però rispetta il principio di ragionevolezza rappresentando un’evoluzione fisiologica del dato legale ed è assolutamente prevedibile.

Dall’altro lato, vi è il mutamento innovativo, che si verifica soprattutto in presenza di vuoti normativi, quindi inerzia legislativa o, come nel caso in esame, per correggere e modificare una precedente opzione interpretativa considerata errata, insoddisfacente, non più condivisibile. In tal caso, dunque, questa seconda tipologia di mutamento rende penalmente rilevante ciò che prima era lecito e soprattutto non è considerato prevedibile. Ciò che è poi particolarmente rilevante sono gli effetti pratici e teorici che ne conseguono. Infatti, se si considera il mutamento giurisprudenziale innovativo ed imprevedibile al pari di una norma penale sfavorevole sopravvenuta, alla luce della tutela dell’affidamento incolpevole e della prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, trova applicazione l’art. 2 c.p. e, dunque, l’irretroattività della applicazione della “norma” sopravvenuta ai fatti in precedenza commessi.

Ma la Cassazione nel caso di specie considera non possibile alcuna equiparazione tra mutamento innovativo e disposizione sopravvenuta con effetto negativo, aderendo quindi ad un profilo inerente alla colpevolezza, alla calcolabilità delle conseguenze giuridiche e alla prevedibilità delle decisioni. Facendosi rilevare l’art. 5 c.p., frutto della pronuncia di incostituzionalità della Consulta n. 364 del 1998, e considerando l’ignoranza inevitabile come ipotesi di scusabilità dell’ignoranza della legge penale, c.d. coscienza dell’antigiuridicità del fatto, cioè la consapevolezza del disvalore penale della propria condotta.

La novità della pronuncia oggetto di commento consta proprio in questa lettura fornita dalla Corte di cassazione che si traduce nell’equiparazione del mutamento sfavorevole ad una causa di esclusione della colpevolezza.

Il ragionamento e le conclusioni a cui è addivenuta la Corte di cassazione sono apprezzabili ancora di più alla luce del vincolo nascente dalla partecipazione dell’Italia alla Convenzione Europea dei Diritti Umani (di seguito, CEDU), atto pattizio del Consiglio d’Europa, il cui ampio dettato dell’art. 7, soprattutto riguardo al concetto di “diritto”, ha fortemente condizionato gli sviluppi del diritto penale nazionale. Infatti, la nozione di “diritto” che è stata utilizzata nell’art. 7 ricomprende infatti sia il diritto di origine legislativa che giurisprudenziale e implica delle condizioni qualitative, tra cui quelle di accessibilità e di prevedibilità.

Si chiede dunque al giudice di verificare se il soggetto agente, sulla base di criteri oggettivi, sia in grado di prevedere l’applicazione di una norma penale nei suoi confronti e/o di un mutamento giurisprudenziale estensivo della fattispecie incriminatrice.

Nel caso di specie, si era innanzi ad un orientamento stabilizzatosi nel tempo e il soggetto non poteva ragionevolmente prevedere tale applicazione estensiva dovuta ad un overruling in malam partem.

Argomento: Cybercrimes
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594)

Stralcio a cura di Fabio Coppola

“(…) Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il reato di cui all'art. 615 ter cod. pen. (…) Sotto altro profilo si evidenzia che, rispetto ai fatti per cui si procede - avvenuti nel 2016 - prima cioè della pronuncia della sentenza delle Sezioni unite "Savarese", intervenuta nel maggio del 2017, i vertici delle Forze dell'ordine non avevano emanato circolari e direttive che rendessero non più scusabile un abuso al sistema informatico in assenza di una preventiva motivazione. Nel caso di specie difetterebbe comunque il dolo del reato, non essendo ravvisabile la finalità di c.d. sviamento di potere che la Corte di cassazione ha ritenuto come elemento costitutivo per i casi di accesso da parte di soggetti legittimati ad introdursi nel sistema. (…) È invece fondato il secondo motivo di ricorso, relativo al reato di cui all'art. 615 ter cod. pen. I Giudici di merito hanno spiegato in punto di fatto come, in un dato momento, si fosse manifestata l'esigenza investigativa di verificare la regolarità degli accessi alle banche dati da parte degli appartenenti al Commissariato di (…), essendo emerso che il sostituto commissario (…) aveva fornito a tale (…)  informazioni sui procedimenti penali che interessavano questi. Nel corso delle indagini era emerso che anche l'odierno imputato aveva interrogato il (…) tre volte, in rapida successione, la banca dati in ordine alla posizione di (…), figlio di (…). Sulla base di tale quadro di riferimento è stato formulato il giudizio di responsabilità. Si tratta di un ragionamento viziato. Al momento in cui i fatti furono commessi il principio di diritto, stabilizzatosi con la sentenza delle Sezioni unite n. 4694 del 27/10/2011 - dep. 2012, Casani, Rv. 251269 era quello per cui il delitto previsto dall'art. 615 ter cod. pen. era configurabile solo per colui che, pur essendo abilitato, avesse avuto accesso o si fosse mantenuto in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che avessero soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema. In particolare, le Sezioni unite, [continua ..]

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