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Provvedimenti disciplinari e difesa del lavoratore: la genericità degli addebiti equivale all'inesistenza dei fatti contestati e giustifica la reintegra sul posto di lavoro
Martina Scaffidi
Nell’ordinanza in commento, la Cassazione affronta il tema della legittimità del licenziamento disciplinare in assenza di specifica contestazione da parte del datore di lavoro.
Secondo la Suprema Corte, la contestazione generica tale da impedire al lavoratore di difendersi equivale all’insussistenza dei fatti addebitati, con conseguente diritto del dipendente alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Nel merito, la vicenda trae origine dal licenziamento intimato da una società ad un suo dipendente, per non avere quest’ultimo adeguatamente supervisionato le attività di sviluppo di un software per le quali era stata incaricata una società terza, con conseguente mancato rispetto delle tempistiche aziendali programmate.
Sia in primo grado, sia in appello, i giudici accoglievano la tesi sostenuta dal lavoratore, ossia la genericità della contestazione disciplinare fondata sulla totale indeterminatezza delle condotte ascritte al dipendente, nonché delle insufficienti risultanze probatorie atte a fondare il nesso di causalità tra le omissioni ascritte al lavoratore e il mancato raggiungimento del risultato aziendale perseguito.
Pertanto, nei primi due gradi di giudizio, i magistrati concludevano per l’illegittimità del licenziamento del lavoratore, con conseguente diritto alla reintegrazione di quest’ultimo e del pagamento di un’indennità risarcitoria.
L’impresa soccombente ricorreva pertanto alla Corte di Cassazione, articolando quattro motivi di ricorso.
Segnatamente, con il primo motivo di ricorso, la società sosteneva la non genericità dell’addebito contestato, ritenendo al contrario che il suo contenuto fosse sufficiente a giustificare il licenziamento.
La Suprema Corte, sul punto, allineandosi alle conclusioni dei precedenti gradi di giudizio, ha dichiarato inammissibile il primo motivo di doglianza, in quanto non sufficientemente argomentato e basato su una mera contrapposizione alle valutazioni del giudice di merito. Ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., ai fini della contestazione di un provvedimento giudiziario non è sufficiente la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate ma occorrono “specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie, diversamente impedendosi alla Corte di Cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione”.
Sul punto, prosegue la Corte, attività quali a titolo esemplificativo “la ricognizione dei contenuti espressi in una lettera di contestazione disciplinare, l’apprezzamento in ordine al rispetto del canone della specificità della contestazione, la valutazione della corrispondenza dei fatti addebitati rispetto a quelli che sono posti a fondamento del licenziamento” sono da intendersi come “operazioni ermeneutiche riservate al giudice del merito la cui valutazione è sindacabile in Cassazione solo mediante precisa censura, senza limitarsi a prospettare una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata”.
Con il secondo motivo di ricorso, il datore di lavoro contestava la mancata ammissione in appello della prova testimoniale, affermando l’impossibilità di produrre in giudizio prova documentale della condotta omissiva tenuta dal dipendente.
A riguardo, gli Ermellini aderiscono nuovamente alle motivazioni della sentenza di appello, statuendo che anche nel caso di loro ammissione, i mezzi di prova proposti dal datore di lavoro non sarebbero stati comunque sufficienti a confermare la sussistenza dei fatti contestati, e dunque la responsabilità disciplinare del lavoratore.
Come ribadito dalla Cassazione, invero, per poter contestare una condotta omissiva avente rilevanza disciplinare, il datore di lavoro avrebbe dapprima dovuto impartire al dipendente istruzioni precise e con scadenze temporali definite. Inoltre, parte ricorrente avrebbe dovuto provare il nesso di causalità tra le condotte disciplinari contestate e il mancato raggiungimento dell’obiettivo aziendale perseguito.
Al contrario, la Cassazione rileva come le censure di parte ricorrente si riducano ad un mero dissenso dalle valutazioni di merito dell’Autorità giudiziaria, che in quanto tali sono insindacabili se non sulla base di “erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico, in concreto non denunziati e comunque non ravvisabili”.
Con il terzo motivo di ricorso, la società lamentava l’insussistenza della giusta causa di licenziamento nonché, quale quarto ed ultimo motivo di doglianza, il diritto all’applicazione della tutela indennitaria in luogo della ben più gravosa tutela reintegratoria.
Sul punto, in primo luogo, la Cassazione ha rilevato l’impossibilità di procedere alla verifica delle condotte tenute dal lavoratore alla stregua di un principio di giusta causa (o giustificato motivo soggettivo) di cui all’art. 2119 c.c., e ciò a causa della genericità delle contestazioni, tali da non consentire neppure l’individuazione delle condotte ascrivibili al dipendente, ancor prima di poter valutare le stesse sulla scorta di un parametro di “giusta causa”.
Inoltre, la mancata puntuale individuazione delle condotte specificamente ascrivibili al dipendente impedisce a quest’ultimo l’esercizio del proprio diritto di difesa, ipotesi dalla giurisprudenza ritenuta analoga a quella di illegittimità del licenziamento per inesistenza dei fatti contestati.
Tali considerazioni, proseguono gli Ermellini, implicano l’applicazione della tutela reintegratoria per “carenza di deduzione e la inidoneità delle circostanze capitolate al fine della prova orale” nonché per “la connessa, assoluta mancanza di prova del fatto oggetto di addebito, con conseguente insussistenza dei fatti contestati”.
In conclusione, ai fini della individuazione della tutela applicabile, in caso di accertata carenza di deduzione e inidoneità delle circostanze capitolate, se la parte onerata dal giudice non è in grado di dare prova dei fatti oggetto di addebito, trova applicazione la tutela reintegratoria, secondo la disciplina di cui all’art.3, comma 2 del D.Lgs. n. 23 del 4 marzo 2015. Nel caso in cui, invece, sia rilevato un radicale difetto di specificità della contestazione, tale ipotesi va ritenuta equivalente a quella di insussistenza del fatto, anch’essa sottoposta alla disciplina reintegratoria.
In sintesi, con l’ordinanza n. 33531 del 20 dicembre 2024, la Cassazione riafferma la necessità di rispettare le garanzie procedurali nel contesto del licenziamento disciplinare, richiamando l’obbligo dei datori di lavoro di formulare contestazioni disciplinari chiare e specifiche, nonché di dimostrare la sussistenza dei fatti contestati. A fondamento di tali considerazioni risiede l’inevitabile necessario equilibrio da mantenere tra il diritto dell’imprenditore di dare seguito ad una propria vision aziendale e il diritto del lavoratore alla difesa del posto di lavoro, a fronte di ingiustificate ipotesi di licenziamento.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. Lav., 20 dicembre 2024, n. 33531)
Stralcio a cura di Giovanni Pagano
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