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L´irretroattività della riduzione di un sesto della pena per la mancata impugnazione

Riccardo Di Stefano

 

Con la pronuncia in commento, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito il regime intertemporale del nuovo comma 2-bis dell’art. 442 c.p.p., introdotto per effetto dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, escludendo la sua applicabilità retroattiva sia nell’ambito dei procedimenti pendenti in fase di impugnazione, sia nell’ambito dei procedimenti già definiti con condanna passata in giudicato.

La questione è stata affrontata in relazione ad un ricorso avverso una pronuncia della Corte di Appello di Milano, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Pavia – resa in data 23 dicembre 2020 all’esito del giudizio abbreviato – con la quale l’imputato è stato dichiarato responsabile dei reati di tentato omicidio aggravato dai futili motivi e di porto ingiustificato del coltello utilizzato per commetterlo, aggravato dal nesso teleologico.

In sede di conclusioni scritte il difensore, oltre ad insistere per l’accoglimento dei motivi di impugnazione, «ha chiesto la restituzione nel termine «per eventualmente rinunciare alla presente impugnazione e/o, in ogni caso, voglia rinviare gli atti avanti alla Corte di Appello di Milano per eventualmente rinunciare all'atto di appello a suo tempo proposto», in vista della ulteriore riduzione della pena ex art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150; il difensore contesta, in particolare, l'applicabilità del principio stabilito da Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537, poiché la norma in questione ha natura sostanziale là dove incide sul trattamento sanzionatorio, sicché si invoca l'applicazione dell'art. 2 cod. pen.».

Il difensore ha dunque posto le questioni della natura e della funzione della diminuente, del conseguente regime di diritto intertemporale applicabile e dell’operatività o meno dell’istituto della restituzione nel termine.

Preliminarmente, i giudici di legittimità si sono focalizzati sul contenuto del comma 2-bis dell’art. 442 c.p.p., ai sensi del quale “quando né l'imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell'esecuzione” con provvedimento emanato de plano (artt. 676, comma 1, e 667, comma 4, c.p.p.). La ratio della nuova disposizione, introdotta dalla c.d. riforma Cartabia, è quella di accorciare le tempistiche processuali, «favorendo la definizione della causa dopo la decisione di primo grado, così da non dare luogo alla fase delle impugnazioni […] quando esse, alla luce della valutazione rimessa all’imputato e al difensore, non siano giustificate da un concreto interesse».

La funzione prettamente “processuale” della diminuente, insieme alle innegabili ripercussioni sotto il profilo sanzionatorio, orientano la Corte verso l’affermazione di una sua natura “mista”, sia sostanziale che processuale.

Ciò comporta anzitutto la piena applicazione del principio tempus regit actum, così come configurato dalle Sezioni Unite Lista, in base al quale il punto di riferimento per l’applicazione della novella sono «le sentenze di primo grado che siano divenute irrevocabili dopo l'entrata in vigore della legge di riforma, anche se pronunciate in data anteriore». Una simile conclusione è giustificata dalle condizioni processuali poste dalla legge per la riduzione di pena, consistenti nella combinazione tra un elemento negativo (mancata presentazione dell’impugnazione) e un elemento positivo (irrevocabilità della sentenza). Tali condizioni, infatti, non sono sussistenti nel caso di specie perché il ricorrente ha proposto impugnazione, impedendo così il passaggio in giudicato della condanna.

Esclusa la retroattività della novella legislativa, a causa dell’esaurimento della fase processuale rilevante per la sua applicazione, occorre chiedersi se la preclusione sia compatibile con il principio – di natura sia “domestica” che convenzionale – di retroattività della legge penale favorevole, e se cioè risponda ad un canone di ragionevolezza, stante la connotazione anche sostanziale della diminuente.

Il collegio giudicante risponde in modo affermativo, precisando, anzitutto, che la ragionevolezza della deroga non deve essere valutata alla stregua del parametro convenzionale, rappresentato dall’art. 7 CEDU, perché la sua «ristretta portata» «concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono».

Rimangono così estranee al campo di applicazione della legalità convenzionale «le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità». Qui i giudici di legittimità sembrano tuttavia dimenticare che il “leading case” in materia, rappresentato dalla sentenza Scoppola c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ricompreso nell’ambito dell’art. 7 CEDU una norma processuale avente ripercussioni sostanziali, proprio come quella in esame[1].

In ogni caso, un’incompatibilità costituzionale della disciplina in esame, derivante dai suoi mancanti effetti retroattivi, non va ravvisata nemmeno «con riguardo agli artt. 3, 25 e 27 Cost.», i quali definiscono le coordinate del principio interno di retroattività della lex mitior.

Da un lato, il limite del giudicato sancito in via generale e astratta dall’art. 2, comma 4, c.p. impedisce l’applicazione del comma 2-bis dell’art. 442 c.p.p. ai procedimenti già definiti con sentenza irrevocabile.

Dall’altro, per i procedimenti pendenti in fase di impugnazione, «la compatibilità costituzionale dell'applicazione non retroattiva della disposizione […] è assicurata proprio dai principi di eguaglianza e di responsabilità penale». Sotto il profilo dell’eguaglianza, la situazione dell’appellante è diversa da quella del condannato in via definitiva non appellante, per cui può ben giustificarsi – in ottica deflativa – una riduzione di pena prevista solo per il primo. Sotto il profilo della responsabilità penale, «il condannato non può percepire come "ingiusto" il trattamento sanzionatorio irrogato proprio perché, a differenza di colui che non ha proposto impugnazione, ha perseguito il medesimo obiettivo (e fors'anche quello di ottenere una pronuncia più favorevole in senso assoluto) secondo un diverso percorso, sicché non può attendersi l'ulteriore riduzione prevista per colui che l'impugnazione non abbia proposto».

Coerentemente con tali argomentazioni, i giudici di legittimità escludono altresì la possibilità di accogliere la richiesta di restituzione nel termine per rinunciare all’impugnazione presentata dal difensore, perché esorbitante rispetto alla ratio dell’istituto. La restituzione nel termine è infatti finalizzata al compimento di un atto che non è stato posto in essere per caso fortuito o per forza maggiore, piuttosto che all’eliminazione ex tunc di un atto processuale tempestivo «solo perché la parte pretende di revocare, ora per allora, l'atto di impugnazione che ha validamente proposto e che a detta fase ha dato corso».

Ne derivano, in conclusione, la manifesta infondatezza della questione concernente l’applicazione retroattiva della nuova diminuente introdotta dall'art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, nonché l’inammissibilità della richiesta di restituzione nel termine.

Questa pronuncia si iscrive nel solco di quella consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità che attribuisce al principio di retroattività della legge penale favorevole una “consistenza” meno robusta, suscettibile di deroghe e bilanciamenti con interessi contrapposti[2], rispetto al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, tutelato in via assoluta ed espressa dall’art. 25 della Costituzione.

Al netto della discutibile menomazione del “test” di ragionevolezza – svolto senza confrontarsi con l’ingombrante interlocutore convenzionale – la Corte perviene ad un risultato equilibrato, in linea con lo spirito della riforma e non discriminatorio nei confronti del ricorrente, il quale ha comunque avuto la possibilità di contestare la condanna inflitta nel primo grado di giudizio e confermata in appello.

In altri termini, l’irretroattività della riduzione di un sesto della pena per la mancata impugnazione risulta giustificata dalla diversità delle situazioni che il ricorrente mirava a parificare, evitando al contempo irragionevoli regressioni procedimentali.

 

[1] Cfr. C. EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, ric. n. 10249/03, in Cass. Pen., 2010, p. 841 e ss.. Adottando un’impostazione tipicamente “antiformalistica” della nozione di “materia penale”, i giudici di Strasburgo hanno affermato l’applicabilità del principio convenzionale di legalità all’art. 442 comma 2 c.p.p., nella vigenza dell’art. 30 l. n. 479 del 1999 (c.d. legge Carotti), che ammetteva l’accesso al rito abbreviato per i condannati all’ergastolo, disponendo la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trent’anni di  reclusione senza differenziazioni tra ergastolo semplice ed ergastolo con isolamento diurno.

[2] Su tutte, cfr. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393, in Cass. Pen., 2007, p. 424 e ss.

Argomento: Riforma Cartabia
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. I, 14 aprile 2023, n. 16054)

Stralcio a cura di Giovanni de Bernardo

“(…) 2. È inammissibile la richiesta di restituzione nel termine presentata con le conclusioni scritte ed è manifestamente infondata la questione, posta anche in relazione ai parametri costituzionali, di applicazione retroattiva della diminuente di cui all'art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. 2.1. L'art. 442 cod. proc. pen. è stato modificato mediante l'introduzione del comma 2-bis, per effetto dell'art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022 in base al quale «quando né l'imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell'esecuzione», che vi provvede de plano ex art. 676, comma 1, e 667, comma 4, cod. proc. pen. (…) 2.2. È evidente, quindi, che il presupposto, per l'applicazione dell'ulteriore sconto di pena, è l'irrevocabilità della decisione di primo grado per mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato (quando è ammessa l'impugnazione personale) e del difensore. La riforma introdotta dal d.lgs. n. 150 del 2022 ha, infatti, lo scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo la decisione di primo grado, così da non dare luogo alla fase delle impugnazioni (appello, ove previsto, o giudizio di legittimità) quando esse, alla luce della valutazione rimessa all'imputato e al difensore, non siano giustificate da un concreto interesse: a fronte della mancata impugnazione della sentenza di primo grado l'imputato otterrà, in sede esecutiva, una ulteriore riduzione di un sesto della pena irrogata. 2.3. Il legame esistente tra la mancata proposizione dell'impugnazione e l'irrevocabilità della sentenza di primo grado, elementi che rendono applicabile l'ulteriore sconto di pena disposto dal giudice dell'esecuzione, rende evidente che, nel caso in esame, non può porsi nessuna questione di restituzione nel termine, posto che l'atto che impedisce l'accesso alla riduzione di pena è già stato compiuto e ha introdotto la fase processuale dell'impugnazione, fase che la norma premiale vuole evitare. Manca, del resto, l'ulteriore requisito processuale dell'irrevocabilità della sentenza di primo grado, sicché la richiesta della difesa è del tutto infondata. 2.4. D'altra parte, la questione dell'ulteriore riduzione di un sesto si [continua ..]

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