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Bancarotta impropria: il dolo deve avere ad oggetto non solo il “fatto” societario, ma anche la volontà del dissesto

Antonio Verderosa 

Con la sentenza n. 18473 del 3 maggio 2023 la Quinta Sezione penale della Corte di Cassazione ribadisce gli elementi necessari a integrare il reato di bancarotta impropria da reato societario, soffermandosi in particolar modo sull’elemento psicologico richiesto dalla fattispecie incriminatrice.

La decisione origina dal ricorso per cassazione proposto dagli imputati, condannati quali extranei nel reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 1), L. Fall. con pronuncia della Corte di Appello confermativa della sentenza di primo grado emessa a seguito di giudizio abbreviato.

In particolare, i ricorrenti, dipendenti dello studio cui era stata affidata la stima del valore di immobili da trasferire da una società capogruppo a due società satellite in un’operazione di ristrutturazione di un gruppo societario, venivano ritenuti responsabili del reato suindicato nonché di quello di cui all’art. 377 c.p. per aver riportato valori non conformi a quelli effettivamente attribuibili ai beni oggetto di conferimento, così aggravando il dissesto delle due società beneficiarie. Dunque, gli imputati, debitamente messi al corrente della finalità delle operazioni di stima dal titolare dello studio presso cui prestavano servizio, avrebbero assecondato le richieste del titolare del gruppo societario, il quale aveva sollecitato i suoi esperti a sopravvalutare il valore dei beni da conferire, così concorrendo a determinare il dissesto delle società del gruppo.

Il ricorso proposto tramite l’unico difensore si articola in plurimi motivi, tra i quali risultano di particolare importanza ai fini della decisione quelli volti a confutare la sentenza della Corte territoriale in relazione alla sussistenza del dolo concorsuale richiesto per la configurazione della bancarotta impropria.

A dire il vero, la Suprema Corte non ravvisa lacune motivazionali della sentenza impugnata nella parte in cui si ritiene raggiunta la prova della consapevolezza da parte dei ricorrenti della falsità della loro relazione e della sopravvalutazione dei cespiti da conferire alle società del gruppo. A giudizio della Corte, i motivi del ricorso tesi a dimostrare la buona fede degli imputati nel compimento delle operazioni richieste non si confrontano con le argomentazioni non illogiche del giudice di secondo grado. Sul punto, la tesi difensiva si limita genericamente a definire apodittiche le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale, che avrebbe basato il proprio convincimento in merito alla sussistenza del dolo esclusivamente sul fatto che, da un lato, gli imputati si sarebbero attenuti acriticamente ai dati forniti dal committente per la stima dei beni, dall’altro, gli stessi sarebbero stati in conflitto di interessi con il titolare del gruppo, che si era rivolto allo studio presso cui i ricorrenti lavoravano per strutturare l’aumento di capitale delle società poi fallite. Al contrario, i giudici di legittimità ritengono che le argomentazioni della difesa non siano in grado di confutare le conclusioni, fondate su precisi elementi probatori, della pronuncia. Inoltre, nella parte in cui la difesa dei ricorrenti effettua un distinguo tra la figura dell’esperto estimatore cui deve rivolgersi il conferente ex art. 2465 c.c. ed il perito nominato dal giudice, che è soggetto a specifiche cause di incompatibilità, si accede ad un’interpretazione riduttiva del ruolo dell’esperto non supportata dal dato normativo. Infatti, l’incaricato della valutazione dei beni ex art. 2465 c.c., pur essendo nominato da un soggetto privato, tuttavia soggiace ad un obbligo di verità che trascende la relazione con il committente. Pertanto, l’esperto non può fare esclusivo affidamento sui dati forniti dalla committenza come fosse un  «mero passivo ricettore» di volontà, ma deve compiere tutte le operazioni e le verifiche per la stesura della relazione giurata di cui all’art. 2645 c.c. D’altro canto, secondo gli Ermellini, l’affermazione secondo cui la sussistenza del dolo in capo agli imputati sarebbe stata provata basandosi su di un presunto conflitto di interessi è smentita dalla stessa sentenza, che evoca tale conflitto solo per dimostrare la volontà del titolare dello studio presso cui i ricorrenti lavoravano di esercitare un controllo sulle operazioni di stima.

Quanto premesso dovrebbe condurre all’affermazione della penale responsabilità degli imputati qualora fosse stato contestato agli stessi il solo reato di formazione fittizia del capitale di cui all’art. 2632 c.c. Diversamente, la Corte di Cassazione ritiene non configurato il reato di bancarotta impropria per insussistenza dell’elemento soggettivo. Nello specifico, i giudici di legittimità analizzano la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 223, comma 2, n. 1) L. Fall. ponendo in evidenza la modifica normativa apportata dal D. Lgs. 61/2002, con cui è stato introdotto il dissesto della società quale evento consumativo del reato. L’ evento deve essere causalmente riconducibile al comportamento dell’agente, il quale deve aver posto in essere uno dei reati societari indicati nella disposizione penale. Proseguendo nel ragionamento, la Suprema Corte sostiene che la presenza di tale elemento permette di affermare l’autonomia del reato di bancarotta impropria rispetto ai singoli reati societari richiamati, da cui discende la diversa consistenza del dolo, che deve abbracciare non solo gli elementi costitutivi del reato societario presupposto ma anche il dissesto della società ed il nesso causale tra evento e fatto societario. I giudici di legittimità statuiscono infatti che « il dolo della bancarotta impropria da reato societario presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico». L’elemento volitivo così ricostruito, inoltre, è il medesimo richiesto per affermare la responsabilità penale dell’extraneus nei reati fallimentari che prevedono il dissesto quale evento consumativo, come ribadito da granitica giurisprudenza sul punto. Se così non fosse, il reato sarebbe inammissibilmente attribuito al concorrente esterno a titolo di responsabilità oggettiva, con buona pace dei principi costituzionali.

Tornando al caso di specie, a giudizio della Suprema Corte non può ritenersi raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio della rappresentazione in capo agli imputati di tale evento, pur a fronte di un consapevole contributo degli stessi a sopravvalutare fittiziamente il capitale delle due società fallite. Né è possibile dimostrare la volontà del dissesto partendo dalla volontà del fittizio aumento di capitale, come fatto palese dallo stesso legislatore, che ha previsto fattispecie incriminatrici distinte per fatti di reato autonomi. Sul punto, coglie nel segno il primo motivo di ricorso presentato dalla difesa, con cui si deduce un vizio motivazionale sulla sussistenza dell’elemento soggettivo. In particolare, la rappresentazione del dissesto in capo agli imputati sarebbe stata provata sulla base di una inammissibile doppia presunzione. Infatti, secondo la Corte territoriale i ricorrenti sarebbero stati messi al corrente dello scopo dell’operazione dal titolare dello studio presso cui lavoravano, il quale a sua volta avrebbe condiviso l’intento fraudolento del titolare del gruppo societario come dimostrato da indizi plurimi, gravi, precisi e concordanti. A riguardo, gli Ermellini rammentano che «il giudice, che ben può partire da un fatto noto per risalire ad uno ignoto, non può, in alcun caso, porre quest’ultimo come fonte di un’ulteriore presunzione sulla base della quale motivare una pronuncia di condanna». Dunque, le motivazioni fornite dal giudice di appello sono apodittiche nella parte in cui si ritiene raggiunta la prova del dolo della bancarotta impropria basandosi sulla consapevole sopravvalutazione dei beni da conferire e su generiche affermazioni di condivisione dell’intento fraudolento finale da parte degli imputati, del titolare dello studio e del titolare del gruppo societario. D’altro canto, le ulteriori argomentazioni indicate per ricostruire le interlocuzioni intervenute tra gli imputati e il titolare dello studio sono criticabili in quanto frutto di una “praesumptio de praesunto” contrastante con la regola della certezza dell’indizio, disciplinato ex art. 192, comma 2, c.p.p. Conseguentemente, la Corte di Cassazione dispone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.

Argomento: Reati fallimentari
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. V, 3 maggio 2023, n. 18473)

Stralcio a cura di Ilaria Romano

"4.1 Come noto la fattispecie di bancarotta impropria da reato societario integra un reato autonomo rispetto ai reati societari richiamati dall'art. 223, comma 2, n. 1) L. Fall., come reso definitivamente inequivoco dall'introduzione nel tessuto della medesima, ad opera del D.Lgs. n. 61 del 2002, di un evento rappresentato dal dissesto, posto in rapporto di derivazione causale con il "fatto" integrante l'illecito penale societario richiamato.Il dissesto della società deve essere conseguenza del comportamento dell'agente e presenta tutte le caratteristiche dell'evento consumativo del reato. Di riflesso, il dolo necessario per la sua sussistenza abbraccia tanto la commissione del "fatto" societario, quanto la causazione del dissesto. In altri termini nell'oggetto del dolo rientrano sia gli elementi costitutivi del "fatto" societario, sia quelli che caratterizzano la fattispecie fallimentare, ossia l'evento ed il suo collegamento causale con il "fatto" medesimo. Ed in tal senso, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, il dolo della bancarotta impropria da reato societario presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (…).4.2 La rappresentazione dell'evento quale conseguenza della condotta alla cui realizzazione presta il proprio consapevole e volontario contributo è poi elemento costitutivo anche del dolo dell'extraneus che concorre nel reato. Ed infatti oggetto quantomeno di rappresentazione da parte del concorrente deve essere l'intero fatto tipico previsto dalla disposizione incriminatrice, pena altrimenti la sua imputazione a mero titolo oggettivo, come peraltro costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla fattispecie di concorso dell'estraneo nei reati fallimentari che contemplano il dissesto come evento (…).4.3 Calando questi principi al caso di specie, non è dunque sufficiente che gli imputati abbiano consapevolmente contribuito, attraverso le false attestazioni motivatamente loro addebitate, al fittizio aumento del capitale delle due società fallite, ma deve essere altresì dimostrato che gli stessi si fossero rappresentati la ragionevole probabilità che l'operazione cagionasse o concorresse a cagionare il dissesto delle [continua ..]

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