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Italia condannata per condizioni inumane e degradanti, illecita detenzione ed espulsione collettiva degli immigrati trattenuti nell´hotspot di Lampedusa (ENG)

Noel Libera

 

“Molti italiani vorrebbero dare ai profughi in arrivo un calcio dritto nel sedere: un centro di prima accoglienza”.

È con questa celebre frase di un noto scrittore italiano, ormai nota ai più, che si manifesta il forte disprezzo e la parziale ritrosia italiana verso il migrante. Ed invero troppo spesso ci si dimentica della storia, quella nella quale i veri migranti eravamo proprio noi, gli italiani.

Talvolta però Giambattista Vico ci ricorda che la storia torna indietro, in un circolo infinito di suoi corsi e ricorsi, che prende a schiaffi la realtà ricordando a tutti quanto il disprezzo e la ritrosia non debbano mai tradursi in disumanità.

Ed è quanto altresì ricordato dalla nota sentenza del 30 marzo 2023 con la quale la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per i trattamenti disumani e degradanti dell’hotspot di Lampedusa, per la violazione della libertà personale e per la illegittimità del respingimento collettivo verso la Tunisia a cui erano stati sottoposti i ricorrenti nell’ottobre del 2017.

Ed invero la causa J.a. c/ Italia ha origine dal ricorso N. 21329/18 presentato da quattro cittadini tunisini i quali giunsero nell’hotspot di Lampedusa il 16 ottobre 2017 ed ivi restarono per circa 10 giorni durante i quali fu loro impedito, ex multis, di lasciare legalmente il centro perché privati della libertà personale; a ciò seguì la loro espulsione dal territorio per opera di decreti di respingimento che, al contrario, secondo il Governo italiano, furono correttamente notificati ai ricorrenti.

Il ricorso, pertanto, aveva ad oggetto la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ai sensi del quale “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti” nonché la violazione dell’art. 5§§1,2 e 4 della Convenzione e da ultimo dell’4 del prot. n. 4 alla Convenzione secondo cui “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”.

I trattamenti disumani e degradanti denunciati apparivano, a detta dei ricorrenti, evidenti; ed invero, richiamando la relazione del Garante del 2020, questi affermarono che nell’hotspot di Lampedusa vi erano bagni condivisi da circa 40 persone e che le stanze loro dedicate fossero o troppo fredde o troppo calde; inoltre non era stato loro concesso l’allontanamento da quelli stessi luoghi né avevano avuto alcuna possibilità di presentare ricorso ad un’autorità giudiziaria.

Dal proprio canto, il Governo richiamò il Rapporto relativo alle visite nei Centri di identificazione ed espulsione e neglihotspots in Italia con il quale il Garante nazionale dei diritti e delle persone detenute o private della libertà personale asseriva che i pasti fossero caldi e che i locali erano puliti ed ordinati; tuttavia, in quella stessa relazione si citava l’assenza, in realtà, di appositi locali da adibire a mensa e di tavoli o sedie da poter utilizzare.

Inoltre v’era la conclamata assenza di locali di socializzazione che rendevano assolutamente inadeguate le condizioni di vita nell’hotspot così come preoccupanti e inaccettabili erano le modalità di identificazione cui erano stati sottoposti i ricorrenti al momento di arrivo all’hotspot.

Ed invero, i migranti dovevano recarsi, uno alla volta, dinanzi a funzionari della Polizia di Stato i quali, con l’ausilio del mediatore, assumevano le informazioni necessarie all’identificazione; il mediatore sottoponeva poi allo straniero un foglio-notizie in bianco che doveva essere sottoscritto dal migrante e sul quale solo successivamente venivano apposte le informazioni precedentemente raccolte dai funzionari di Polizia, senza però fornire alcuna garanzia che quanto dichiarato fosse stato effettivamente compreso e riportato agli atti come era intendimento dei migranti esprimere.

Da ultimo, i ricorrenti lamentarono di esser stati sottoposti ad un respingimento differito equivalente ad un’espulsione collettiva, senza alcuna possibilità di impugnare il provvedimento di espulsione o di ottenerne copia.

Ed invero i provvedimenti di respingimento sarebbero stati loro mostrati molto rapidamente al solo fine di ottenere le rispettive firme ed in assenza di un preventivo colloquio con le autorità competenti; peraltro, il breve lasso di tempo corrente tra la firma ed il loro allontanamento avrebbe impedito ai ricorrenti di impugnare le misure, essendo stati peraltro privati di appositi telefoni cellulari – restituiti solo una volta giunti in Tunisia - che consentissero, ex multis, di potersi avvalere di una difesa.

Alla luce delle predette considerazioni, gli autorevoli Giudici della Corte di Strasburgo scandagliarono le posizioni dei ricorrenti, del Governo italiano ed anche dei terzi intervenienti e, per mezzo di un’attenta disamina del sistema internazionale, europeo e nazionale delle fonti in materia di immigrazione, hanno condannato l’Italia per esser stata “disumana”.

Ed infatti, l’European Court of human rights “è convinta del fatto che, all’epoca in cui i ricorrenti sono stati collocati in tale luogo, l'hotspot di Lampedusa presentasse condizioni materiali inadeguate”. I ricorrenti infatti hanno fornito differenti prove a sostegno delle loro accuse, le quali son da subito apparse confermate dal CPT nel suo rapporto al Governo italiano relativo alla sua visita in Italia effettuata nel 2017 secondo il quale, nel periodo di 120 giorni compresi tra il 1° febbraio e il 1° giugno 2017, il centro ha operato al di sopra della sua capienza di 250 persone, calcolata in base al numero di posti letto disponibili, per oltre il 75% del tempo; per quasi la metà del tempo (vale a dire 56 giorni), l'occupazione è stata addirittura superiore al doppio della capacità dei posti letto, con un picco in aprile e all'inizio di giugno, quando oltre 1.000 nuovi arrivati ​​hanno soggiornato per diversi giorni nell'hotspot. Del pari, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, nel suo rapporto del 2017 sull’Italia ha manifestato forti preoccupazioni per le “asserite scadenti condizioni di vita in diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo e migranti irregolari, compreso nei ‘centri di crisi’ e nei centri per minori non accompagnati”. Ciò posto, considerando inoltre la mancata produzione, da parte del Governo, di elementi che sconfessassero tali accuse, la Corte ha ritenuto che, all'epoca dei fatti, l'hotspot di Lampedusa così adibito avesse riservato ai migranti un trattamento inaccettabile.

Non solo. Un’accurata disamina della Corte ha poi investito la violazione dell’art. 5§ §1,2 e 4 della Convenzione per aver il Governo impedito ai migranti di lasciare gli hotspots.

La Corte ha osservato che, mentre la regola generale enunciata nell'articolo 5§1 è che ogni persona ha diritto alla libertà, l'articolo 5§1, lett. f), prevede un'eccezione a tale regola generale, permettendo agli Stati di controllare la libertà degli stranieri nel contesto dell’immigrazione. Ad ogni buon conto, ogni privazione della libertà personale di un soggetto doveva comunque essere prevista dalla legge. Tuttavia, la Corte ritiene di non aver trovato alcun riferimento nel diritto interno citato dal Governo agli aspetti sostanziali e procedurali della detenzione o ad altre misure comportanti la privazione della libertà che avrebbero potuto essere attuate negli hotspots nei confronti dei migranti interessati. La mancata regolamentazione normativa degli hotspots era peraltro stata testimoniata dall’intervento di numerosi osservatori indipendenti i quali descrivevano “all'unanimità l'hotspot di Lampedusa come un'area chiusa con sbarre, cancelli e recinzioni metalliche che i migranti non sono autorizzati a lasciare, anche dopo essere stati identificati, essendo quindi sottoposti a una privazione della libertà non regolamentata dalla legge né soggetta a un controllo giurisdizionale”. La Corte tuttavia non negava la temporanea privazione della libertà personale allorquando essa fosse stata atta, ad esempio, all’identificazione, alla registrazione ovvero ad un colloquio in vista del successivo loro trasferimento; tuttavia, il problema in Italia era la mancanza di una norma che legiferasse sul punto ed indicasse, in concreto, le modalità e le tempistiche attraverso cui la limitazione di tale libertà dovesse avvenire.

Ciò posto, come osservato da attenta dottrina, affinché la detenzione di un richiedente asilo o di un immigrato prima che lo Stato concedesse l'autorizzazione all'ingresso fosse consentita, erano necessarie le seguenti condizioni: a) che il trattenimento fosse connesso allo scopo di impedire l'ingresso non autorizzato della persona nel Paese; b) che il luogo e le condizioni di trattenimento fossero adeguati; c) che la durata del trattenimento non eccedesse quella necessaria per lo scopo perseguito; d) che i trattenuti fossero in grado di contestare il motivi della loro detenzione de facto davanti a un tribunale.

Da ultimo, altrettanto illegittimi e standardizzati apparivano i provvedimenti di espulsione redatti in violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione giacché, come riferito dagli stessi ricorrenti, alcun colloquio sarebbe stato condotto preventivamente all’espulsione e tale circostanza non sarebbe stata, peraltro, neppure confutata dallo stesso Governo. Dunque, la situazione dei migranti non era stata valutata individualmente prima che fossero emessi i provvedimenti di respingimento, che, avvenuti congiuntamente, di fatto equivalevano a un'espulsione collettiva.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, come osservato da alcuni, la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per l’effettiva violazione dei diritti umani e aprì le porte ad un’interpretazione evolutiva della Convenzione come “strumento vivente”, in base alla quale i giudici di Strasburgo apparvero auspicare un giusto equilibrio fra gli interessi nazionali legati al controllo dei confini e gli eccessi di tali pratiche, nel rispetto, costante, dell’umanità.

Argomento: Immigrazione
Sezione: Corte EDU

(Corte EDU, 30 marzo 2023, J.A. and Others v. Italy: comunicato stampa)

Stralcio a cura di Fabio Coppola

“(…)In October 2017 the applicants left Tunisia on makeshift vessels. While at sea they ran into trouble and had to be rescued by an Italian ship. They were taken to the Italian island of Lampedusa, a “hotspot” meant for initial identification, registration and interviewing of migrants. They were placed there for ten days, during which they allege they were unable to leave and interact with the authorities. The conditions there were allegedly inhuman and degrading. (…) Article 3  The Court noted that the Government did not dispute the applicants’ submissions concerning the conditions (in particular poor hygiene and lack of space) at the hotspot in Lampedusa, where they had been held for ten days, as corroborated by independent national and international sources.  As the Court has previously stated, difficulties resulting from inflows of migrants and asylum-seekers did not absolve member States of their Article 3 obligations. As the Government had failed to show that conditions had been acceptable, the Court therefore found that there had been a violation. (…) Article 5 §§ 1, 2 and 4  The applicants had been kept for processing in the hotspot, which was surrounded by bars, fences and gates, and from which they had not been able to leave lawfully. This had not been a limited period to clarify the situation of the applicants or to send them to other centres, as permitted by law. The Court stated that clarification by the legislature of the nature of the hotspots and the substantive and procedural rights of the individuals staying there would have been beneficial.  There had therefore been no clear and accessible legal basis for the applicants’ ten-day detention, they were not informed of the legal reasons for their deprivation of liberty, they were not provided with sufficient information, and they were not able to challenge the grounds for their de facto detention before a court, in violation of Article 5 §§ 1, 2 and 4 of the Convention.  Article 4 of Protocol No. 4 to the Convention  The Court reiterated that collective expulsion occurred when the particular cases of the individuals concerned were not assessed separately. The Government did not refute the applicants’ allegation that no individual interviews had taken place before they had signed the refusal-of-entry orders. Those orders were formulaic and contained no individual information as [continua ..]

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