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Anche l´espressione di uso comune per il contesto nel quale è proferita può risultare intrinsecamente offensiva e integrare il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale

Marco Piliero

 

La sentenza sopra richiamata muove dal caso di un soggetto condannato per i reati di oltraggio a pubblico ufficiale e false dichiarazioni sulla identità o su qualità proprie o di altro, rispettivamente previsti dagli articoli 341-bis e 496 del codice penale, per aver offeso l’onore ed il decoro di due appartenenti alla Polizia di Stato, intervenuti per un controllo alla sua autovettura in sosta in area non consentita, in quanto, nella circostanza, profferiva al loro indirizzo le espressioni “che cazzo volete…? Andate a prendere i delinquenti anziché rompere i coglioni mentre lavoro” e, quando richiesto, rendeva false dichiarazioni circa la propria identità, non prima, peraltro, di aver riferito di non avere al seguito alcun documento d’identità.

Avverso la pronuncia di secondo grado, che confermava la condanna, l’imputata proponeva ricorso innanzi la Corte di cassazione, lamentando anzitutto l’affermazione di responsabilità per il delitto di false dichiarazioni sull’identità personale.

Brevemente, è opportuno rammentare che l’articolo 496 del codice penale configura un'ipotesi di reato comune plurioffensivo, atteso che, secondo l’orientamento interpretativo più diffuso, tutela insieme la pubblica fede e la pubblica amministrazione.

Ricalcata sull'articolo 495, la fattispecie de qua presenta l'elemento specializzante dell'interrogazione, non per forza orientata alla formazione di un atto pubblico, da parte del pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio ed è punita a titolo di dolo generico.

Per la configurazione del reato in parola è necessario che la falsa dichiarazione sia resa ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, che abbia interrogato il soggetto agente in ordine all’identità o ad una qualità, propria o altrui.

Come già rilevato da giurisprudenza ormai risalente (cfr. Cass. n. 7780/1983), ma tuttora valevole, l'interrogazione non dev’essere per forza verbale, potendo consistere anche nella compilazione di moduli o questionari predisposti per il migliore andamento del servizio amministrativo dall'ufficio cui appartiene il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio.

L'oggetto della falsa dichiarazione riguarda l'identità propria o altrui o le qualità personali. Rientrano nel concetto di identità quegli elementi volti a distinguere un soggetto da un altro, come lo sono i dati anagrafici, mentre nel concetto di altre qualità sono ricomprese quelle che completano lo stato e l'identità della persona, come ad esempio la professione e il grado accademico.

Si deduce da quanto detto che non è attribuita rilevanza penale al silenzio o alla dichiarazione spontanea.

Alla luce di ciò, il reato si ritiene integrato, come avvenuto nel caso di specie, in caso di false dichiarazioni aventi ad oggetto i dati anagrafici rese ad un pubblico ufficiale nel corso di un normale controllo effettuato dalle forze di polizia.

Secondo la tesi difensiva, però, il reato sarebbe insussistente in quanto la ricorrente avrebbe declinato, anziché il nome reale, una sua versione vezzeggiativa, da sempre più gradita, denotando mancanza di dolo nel riferire agli agenti di polizia dati di poco dissimili rispetto a quelli reali; a fortiori, due ulteriori elementi: la presenza all’atto del controllo del difensore, che avrebbe egli stesso declinato le esatte generalità dell’assistita, ed il fatto che i dati anagrafici di quest’ultima erano già noti agli operatori di polizia in ragione degli accertamenti amministrativi operati presso l’esercizio commerciale teatro dei fatti.

Nel rigettare questa interpretazione, i giudici di legittimità richiamano un orientamento più che quarantennale sul punto, che a sua volta conferma la lettera della disposizione normativa, secondo cui ai fini della sussistenza del delitto de quo è sufficiente il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di rendere dichiarazioni difformi dal vero su qualità personali giuridicamente rilevanti, mentre non occorre il dolo specifico di trarre in inganno il destinatario della dichiarazione o altri soggetti.

Venendo al caso specifico, chiari indicatori della volontà dell’imputata di confondere gli operatori di polizia che stavano redigendo un verbale di violazione al codice della strada sono stati il fornire un nominativo non corrispondente, seppur di poco, a quello reale ed il riferire di non avere al seguito i documenti di identità, invece esibiti subito dopo all’arrivo del difensore e di una seconda pattuglia di polizia.

A ciò si aggiunge, come di recente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 23353/2022), che il delitto si intende consumato nel momento in cui la falsa dichiarazione, resa su richiesta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, perviene a questi ultimi, non rilevando in alcun modo ai fini della sussistenza del reato l'eventuale ritrattazione successiva.

Il secondo motivo di censura avanzato dalla ricorrente attiene, invece, all’affermazione di responsabilità in ordine al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale e si fonda sull’asserita mancanza di valenza offensiva delle espressioni pronunciate all’indirizzo degli operatori di polizia.

Al riguardo, è utile premettere che ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’articolo 341-bis del codice penale è necessario che l’offesa incida sull’apprezzamento del pubblico ufficiale, sia nella sua dimensione personale che in quella funzionale e sociale. Ciò in ragione del fatto che la tutela assicurata dalla fattispecie sopracitata, rafforzata rispetto a quella offerta ai comuni cittadini, si può giustificare soltanto allorché sia minata, più che la reputazione del singolo esponente, quella dell’intera pubblica amministrazione per il suo tramite.

E ancora, per la medesima finalità, la giurisprudenza ritiene che l’offesa all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale debba avvenire alla presenza di una pluralità di soggetti. Detto requisito si intende soddisfatto allorquando assistano all’offesa almeno due persone, a condizione che siano estranee alla pubblica amministrazione (cosiddetti “civili”) ovvero che, pur rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, siano presenti in quel determinato contesto spazio-temporale non per lo stesso motivo d’ufficio in relazione al quale la condotta oltraggiosa sia posta in essere dall’agente; diversamente, non possono computarsi quei soggetti che, pur non direttamente attinti dall’offesa, assistano alla stessa nello svolgimento delle loro funzioni, essendo integrato il requisito della pluralità di persone unicamente da persone.

Nel caso di specie, la condotta dell’imputata è consistita nel profferire le espressioni “che cazzo volete…? Andate a prendere i delinquenti anziché rompere i coglioni mentre lavoro” all’indirizzo degli operatori di polizia, allorquando questi ultimi, raggiuntala all’interno del bar ove ella stava esercitando la propria attività professionale, alla presenza di molteplici avventori, la stavano invitando a spostare immediatamente l’auto che, poiché parcheggiata in area ove la sosta non era consentita, stava creando pericolo per la circolazione stradale.

Quelle riferite dalla ricorrente costituiscono senza dubbio espressioni di insofferenza volgare e astiosa che, per il contesto ed i luoghi, come appena descritti, in cui sono state pronunciate, e nonostante il loro utilizzo sia ormai sempre più frequente nel linguaggio di uso comune, appaiono sicuramente idonee a ledere l’onore ed il prestigio che deve essere riconosciuto in società agli agenti, i quali erano in divisa e nell’esercizio delle loro funzioni; peraltro, come si è detto sopra, proprio la salvaguardia della dignità sociale del destinatario della norma e, attraverso di lui, la considerazione della pubblica amministrazione, costituisce l’esigenza sottesa alla tutela offerta dalla fattispecie incriminatrice.

Alla luce delle considerazioni finora riportate, i giudici di legittimità dichiaravano il ricorso inammissibile ed affermavano i seguenti principi di diritto: con riferimento al reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il principio secondo cui sono da considerarsi connotate da valenza offensiva quelle espressioni che, seppur entrate a far parte del linguaggio comune, per le circostanze in cui sono pronunciate, sono tali da incidere negativamente sul consenso e sulla credibilità che il pubblico ufficiale si riconosce debba avere nella società; con riferimento al reato di false dichiarazioni sulla identità o su qualità proprie o di altri, il principio secondo cui integra il reato anche la condotta consistente nel riferire dati anagrafici di poco difformi da quelli reali, come un vezzeggiativo del proprio nome, purché denoti la consapevolezza dell’agente di rendere dichiarazioni difformi dal vero, senza che sia necessaria la volontà di trarre in inganno il destinatario della dichiarazione.

Argomento: Dei Delitti Contro la Pubblica Amministrazione
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. V, 26 giugno 2023, n. 27548)

stralcio a cura di Annapia Biondi 

“(…) Le parole rivolte ai due assistenti della Polizia di Stato, OMISSIS e OMISSIS, sono tali da rientrare nell’oggettiva tipicità del reato di cui all’art. 341-bis cod. pen.; la ricorrente si è espressa nei loro confronti con espressioni volgari di insofferenza (“ma che cazzo volete?!... ma non rompetemi i coglioni…”), sicuramente idonee, per il contesto ed i luoghi nei quali sono state pronunciate (all’interno di un bar e alla presenza di più persone avventori), a ledere l’onore ed il prestigio dei due assistenti della Polizia di Stato, i quali erano in divisa e nell’esercizio delle loro funzioni (la stavano invitando a spostare immediatamente l’auto che era parcheggiata nei pressi del bar in modo pericoloso per la viabilità). Ed infatti, dal punto di vista dell’oggettiva carica offensiva delle frasi pronunciate contro gli operanti di polizia, le espressioni già richiamate integrano senza dubbio, per le circostanze nelle quali sono state pronunciate, quelle parole di insofferenza volgare ed astiosa che, pur frequenti oramai nell’uso comune, sono tali da incidere in senso negativo sul consenso e la credibilità che il pubblico ufficiale si riconosce debba avere nella società; esigenza che costituisce l’in se  della ratio incriminatrice. Si ribadisce che, in tema di oltraggio a pubblico ufficiale un’espressione intrinsecamente offensiva, anche se di uso corrente nel linguaggio moderno, ha una valenza obiettivamente denigratoria e minatoria, e non perde il carattere di antigiuridicità quando è pronunciata in circostanze che, esulando dai limiti della critica anche accesa, siano tali da incidere in senso negativo sul consenso che il pubblico ufficiale deve avere nella società (Sez. 6, n. 51613 del 8/11/2016, Ene, Rv. 268358).” “(…) Inoltre, ancora dal punto di vista oggettivo, ricorrono gli elementi di tipicità ulteriori richiesti dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'offesa all'onore ed al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire alla presenza di almeno due persone, tra le quali non possono computarsi quei soggetti che, pur non direttamente attinti dall'offesa, assistano alla stessa nello svolgimento delle loro funzioni, essendo integrato il requisito della pluralità di persone unicamente da persone estranee alla pubblica [continua ..]

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