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Caso “Regeni”: si procede in assenza dell´imputato nel caso in cui l´assenza sia dovuta al-la mancata assistenza giudiziaria o cooperazione dello Stato di appartenenza o di residen-za dell´imputato, fatto salvo il suo diritto a un nuovo processo in presenza

Veronica Romano

La sentenza in epigrafe segna il punto di svolta di una vicenda che, tanto per la inaudita gravità dei fatti contestati quanto per i lunghi anni di stasi processuale, ha tenuto l’opinione pubblica con il fiato sospeso. In essa, la Consulta è stata chiamata ad operare il bilanciamento “tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto - non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano - all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini”.

All’origine della decisione si pone la mancata cooperazione da parte delle autorità egiziane nella notifica agli imputati degli atti italiani di fissazione dell’udienza preliminare e di richiesta di rinvio a giudizio; ciò che, fermo restando la presunzione di innocenza, avrebbe determinato di fatto una “immunità extra ordinem” degli stessi, non potendosi, a norma dell’art. 420-bis c.p.p., procedere in assenza dell’imputato che non abbia avuto effettiva conoscenza della vocatio in iudicium.

Invero, ai sensi della disciplina vigente (così come modificata conformemente ad una copiosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani di cui si dà contezza nei paragrafi 4 e 4.1. della sentenza), la celebrazione del processo in absentia è consentita - fermo restando l’operatività di taluni rimedi restitutori ex post (i.e., la riapertura del processo in caso di errata dichiarazione di assenza ovvero la restituzione nei termini per l’esercizio di facoltà processuali la decadenza dalle quali l’imputato abbia provato essere a lui non imputabili) - esclusivamente al ricorrere di una delle tre condizioni: a) l’imputato ha ricevuto la notificazione dell’avviso di udienza a mani proprie o di apposito delegato, ovvero ha espressamente rinunciato a comparire o a far valere un legittimo impedimento; b) il giudice, tenuto conto delle modalità della notificazione dell’avviso di udienza (quando non avvenuta in mani proprie), degli atti compiuti dall'imputato prima dell'udienza, della nomina di un difensore di fiducia e di ogni altra circostanza rilevante, ritiene comunque provata la conoscenza della pendenza del processo da parte dell'imputato; c) l’imputato si è reso latitante ovvero si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo.

Il silenzio legislativo in merito alla circostanza specifica sottoposta al vaglio della magistratura (i.e., l’atteggiamento ostativo delle autorità oltreconfine mediante opposizione del principio del ne bis in idem sulla base di un decreto di archiviazione, emesso dallo stesso organo inquirente e senza il vaglio di un giudice terzo) aveva determinato una sorta di limbo processuale, costringendo il G.u.p. del Tribunale penale di Roma ad una secca alternativa: emettere una sentenza inappellabile di non doversi procedere (destinata a divenire irrevocabile ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p., qualora gli imputati non fossero stati rintracciati entro il doppio dei termini di prescrizione dei reati contestati) ovvero sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione alla Convention against Torture, d’ora in poi CAT, siglata a New York nel 1984), dell’art. 420-bis c.p.p. nella parte in cui «non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato».

Mosso dall’esigenza di colmare questa “lacuna ordinamentale”, è la seconda rotta che il giudice capitolino ha deciso di intraprendere, invocando quale bussola il carattere universale dei diritti umani, la cui violazione non può ammettere alcuna “zona franca di impunità”, neppure a beneficio di “cittadini-funzionari” di uno Stato estero quale l’Egitto, peraltro tenuto ad osservare la CAT, che ha ratificato il 26 giugno 1986 (ben due anni prima dell’Italia).

Una siffatta immunità risulterebbe, invero, “ad un sol tempo, lesiva dei diritti inviolabili della vittima rispetto a un crimine estremo contro la dignità della persona (art. 2 Cost.); irragionevole a fronte del diritto-dovere rivendicato e assunto dalla Repubblica di perseguire tali misfatti (art. 3 Cost.); inosservante degli standard internazionali di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convention Against Torture (art. 117, primo comma, Cost.).”, quest’ultima prevedendo, inter alia, l’obbligo degli Stati parte di reciproca assistenza giudiziaria per la prevenzione e repressione degli atti di tortura.

La denunciata “aporia processuale” si porrebbe, inoltre, in contrasto con i canoni del giusto processo ex art. 111 Cost., giacché “[n]on vi è processo più "ingiusto" di quello che non si può instaurare per volontà di una [a]utorità di Governo”, tanto più ove si consideri che “il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità”.

Da ultimo, ma non per importanza, subordinare l’esercizio dell’azione penale al potere esecutivo di uno Stato straniero equivarrebbe, nelle parole del giudice rimettente, a vanificare la portata del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost.

Del resto, a presidio dello “statuto universale del crimine di tortura”, si pone anche l’art. 7, primo comma, numero 5), c.p., a tenore del quale è punito secondo la legge italiana lo straniero che commette in territorio estero un reato per il quale una speciale disposizione di legge o una convenzione internazionale stabilisca l’applicabilità della legge italiana.

La vis solidaristica che conferisce portata extraterritoriale alla legge italiana a fronte di taluni reati è stata, peraltro, avvalorata dalla giurisprudenza di Strasburgo, in base alla quale “quando l'indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani, il "diritto alla verità" («the right to the truth») sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno il diritto di sapere cosa è accaduto”.

Avendo il divieto di tortura ormai acquisito natura di “ius cogens di formazione consuetudinaria”, l’ordinamento nazionale è tenuto a confrontarsi con gli obblighi procedurali che ne derivano sul triplice versante della prevenzione, dell’accertamento e della repressione dei fatti.

Vano sarebbe, di conseguenza, lo sforzo - pur compiuto da una parte della dottrina - di ritenere inapplicabile, in ossequio al divieto di retroattività in peius, la fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p., sulla base della circostanza che essa abbia integrato il corpus codicistico soltanto nel 2017, quindi dopo la commissione dei fatti (verificatisi nel 2016).

Al di là della qualificazione giuridica che gli organi inquirenti hanno potuto dare ai fatti oggetto di contestazione (contestando i reati di lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato), trattasi, in ogni caso, da un punto di vista sostanziale, di atti costituenti tortura ai sensi dell’art. 1 della CAT. Peraltro, giova ricordare che in relazione alle norme processuali vale il differente principio tempus regit actum.

Tutt’altro che politica (è, questa, una delle ulteriori accuse mosse alla sentenza), pertanto, pare la decisione della Consulta di accogliere la proposta di pronuncia additiva suggerita dal G.u.p. di Roma. Al contrario, con estrema prudenza la Corte, da un lato, ha circoscritto la declaratoria di incostituzionalità ai soli casi in cui i fatti per cui si proceda siano riconducibili alla nozione di tortura e siano commessi da un agente pubblico o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, dall’altro, ha precisato che, conformemente alla giurisprudenza europea e all’articolo 9 della direttiva 2016/343/UE, l’imputato processato in absentia “può far valere «direttamente» il diritto a un nuovo processo che conduca al riesame del merito della causa in presenza, mentre è onere delle autorità stesse, che intendano negare la riapertura del processo, allegare «indizi precisi e oggettivi» dai quali risulti che l'imputato, nonostante l'atteggiamento non cooperativo del proprio Stato di appartenenza, ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo”.

Alla luce delle ragioni fin qui esposte, si concorda con quanti ritengono che il bilanciamento tra i diritti in gioco sia stato operato dalla Corte nel pieno rispetto del principio di ragionevolezza.

Unica ricostruzione dottrinale convincente, alternativa a quella adottata dalla Corte, sarebbe quella di invocare la tesi amministrativistica dell’immedesimazione organica tra funzionario ed ente che il funzionario rappresenta, al fine di ascrivere al primo l’atteggiamento ostativo del secondo, fermo restanto il diritto ad un nuovo processo nei termini già formulati.

Pur nell’amara presa d’atto che l’impasse si sarebbe potuta risolvere in via diplomatica, in ossequio all’obbligo internazionale di attivarsi affinché gli autori dei reati di tortura non rimangano impuniti, la sentenza in rassegna inaugura un mutamento di rotta rispetto alla decisione n. 24/2014 che, con riferimento alla vicenda Abu Omar (sequestrato in Italia da nostri agenti del SISMI in concorso con la CIA per essere poi torturato in Egitto), aveva ritenuto legittima l’apposizione del segreto di Stato da parte delle nostre autorità. Una decisione, questa, che era costata all’Italia una severa condanna da parte dei giudici di Strasburgo.

Argomento: Processo penale in absentia
Sezione: Corte Costituzionale

(C. Cost., 26 ottobre 2023, n. 192)

Stralcio a cura di Fabio Coppola 

“Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 89 del 2023), il Giudice per le indagini preliminari [recte: Giudice dell’udienza preliminare] del Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, comma 3, dello stesso codice, «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento, dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato». (…). Questa Corte è chiamata a pronunciarsi su una fattispecie segnata dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini. Il punto di caduta di questa tensione attinge la disciplina del processo in absentia, che regola le ipotesi e le condizioni in costanza delle quali soltanto l’imputato può essere giudicato senza essere presente. (…) Per grandi linee, appunto in base alla scansione dei riferiti commi dell’art. 420-bis, possono individuarsi tre ipotesi di assenza non impeditiva: quella nella quale l’imputato ha ricevuto la notificazione dell’avviso di udienza a mani proprie o di apposito delegato, ovvero ha espressamente rinunciato a comparire o a far valere un legittimo impedimento; quella in cui il giudice, tenuto conto delle modalità della notificazione dell’avviso di udienza (evidentemente non avvenuta a mani proprie), degli atti compiuti dall’imputato prima dell’udienza, della nomina di un difensore di fiducia e di ogni altra circostanza rilevante, ritenga [continua ..]

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