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La responsabilità penale in tema di circolazione stradale non si esaurisce nella verifica del nesso eziologico ma presuppone l´accertamento della c.d. causalità della colpa
Gabriele Monforte
Con la recente pronuncia n. 26920 del 2023, la Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata a precisare, in materia di reati commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, che la responsabilità penale per omicidio colposo del conducente non si esaurisce nella verifica del nesso eziologico tra la sua condotta e l’evento morte provocato ma presuppone, in ogni caso, che sia accertata in capo allo stesso la c.d. causalità della colpa.
Più in generale, sul piano sistematico, tale sentenza ha avuto il pregio di evidenziare il discrimen che corre, nell’ambito dei reati colposi di evento, tra la causalità oggettiva (o della condotta), la quale contribuisce a marcare la tipicità del fatto di reato, e quella soggettiva (o della colpa), il cui accertamento appare necessario ai fini della rimproverabilità della condotta all’agente e dunque in ordine alla valutazione di colpevolezza circa il delitto contestato.
In questa prospettiva, pertanto, con riferimento ai reati colposi di evento occorre distinguere tra i due giudizi di causalità, i quali devono essere valutati dal giudice, tenendo conto della loro diversa consistenza logico-giuridica, nel modo che segue.
Quanto alla causalità oggettiva (o della condotta), quest’ultima trova il proprio ancoraggio all’art. 40 c.p., in forza del quale nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione. Pertanto, in altri termini, è possibile ritenere l’evento dannoso come conseguenza della condotta dell’agente solo laddove l’organo giudicante possa desumere, a mente di un giudizio controfattuale ed ipotetico, che quest’ultima sia stata la condizione senza la quale l’evento non si sarebbe verificato.
In questo senso, è tale quella condotta senza la quale l’evento hic et nunc considerato non si sarebbe verificato (o si sarebbe verificato con modalità diverse rispetto a quelle in concreto accertate). Tale considerazione va coordinata con il disposto di cui all’art. 41, co. 2, c.p. a mente del quale le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità tra la condotta e l’evento quando sono state da sole sufficienti a determinarlo, dovendosi intendere per tali quelle circostanze successive all’azione dell’agente che, inserendosi tra la sua condotta e l’evento, siano tali da innescare il rischio della verificazione di un evento eccentrico, disomogeneo rispetto a quello che sarebbe derivato dalla condotta dell’agente. Di talché può concludersi nel senso che ricorre il nesso di causalità tra l’azione e l’evento non soltanto laddove quest’ultimo sia semplice conseguenza della condotta dell’agente, ma anche laddove, avuto riguardo alle cause sopravvenute, appaia conseguenza ordinaria (e non imprevedibile o eccezionale) della condotta posta in essere.
La sussistenza di tale causalità impinge direttamente sul giudizio di tipicità del fatto, inteso quale primo elemento costitutivo del reato. Ne segue, sul piano processuale, che la causalità della condotta, se riscontrata positivamente in giudizio, conduce all’affermazione di sussistenza del fatto. Per contro, qualora manchi è tale da portare all’assoluzione dell’imputato con la formula perché il fatto non sussiste.
Pertanto, logicamente, ne discende che le porte per il secondo apprezzamento in ordine alla sussistenza della causalità della colpa appaiono suscettibili di schiudersi solo qualora il giudice accerti la ricorrenza del primo nesso di causalità nei termini sopra precisati[1].
Con riferimento all’accertamento di tale ultima categoria, la cui positiva verifica incide sull’elemento soggettivo del reato (e più precisamente sull’esistenza della colpa), occorre effettuare un giudizio essenzialmente bifasico da apprezzarsi sulla scorta di due momenti: il primo si sostanzia nell’accertamento della c.d. concretizzazione del rischio della regola cautelare violata, e quindi dell’effettiva idoneità impeditiva dell’evento attraverso il rispetto della regola cautelare violata; il secondo concerne la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, avuto riguardo al parametro dell’agente modello.
Quanto al primo momento, occorre accertare a monte l’esistenza di una regola cautelare (generica o specifica) applicabile al singolo caso concreto oggetto di scrutinio del giudice e che l’evento verificatosi abbia concretizzato il rischio che tale regola cautelare mirava ad impedire[2]. Sicché, non ogni evento verificatosi può essere ricondotto alla condotta colposa dell’agente, ma solo quello che sia collegato causalmente alla violazione della specifica regola cautelare e che, più precisamente, rientri nel novero degli eventi astratti che la regola cautelare violata era volta a scongiurare. In ogni caso, il positivo accertamento del predetto criterio non è ancora sufficiente per valutare in termini di colpa la condotta dell’agente. In questo senso, infatti, qualora ci si accontentasse di punire il soggetto per la semplice violazione della regola cautelare, si finirebbe per trattare la colpa alla stregua di una mera colpa oggettiva o normativa. Ne consegue che una tale valutazione finirebbe per incriminare l’autore del reato a prescindere dalla concreta rimproverabilità allo stesso per essere rimasto colpevolmente insensibile agli obblighi di diligenza posti dall’ordinamento.
Pertanto, al fine di adeguare la valutazione sull’esistenza della colpa al principio di colpevolezza, resta salva l’ulteriore valutazione dell’elemento psicologico del reato che si articola attraverso il duplice scrutinio della prevedibilità ed evitabilità dell’evento. In questo senso l’evento può intendersi come prevedibile ed evitabile soltanto laddove, assumendo come parametro un soggetto particolarmente accorto e perito in relazione alla singola attività svolta (c.d. homo eiusdem professionis et condicionis), possa ritenersi che se avesse operato quest’ultimo, in luogo dell’agente concreto, si sarebbe reso conto della regola cautelare da applicare e con la sua attuazione (c.d. comportamento alternativo lecito) avrebbe impedito o ridotto il rischio del verificarsi dell’evento delittuoso concretamente realizzato. In ultima analisi, resta ferma la necessità per l’interprete di vagliare anche l’esigibilità del comportamento alternativo lecito avuto riguardo alle singole circostanze del caso concreto. Ad esempio, quest’ultimo non sarebbe comunque esigibile laddove l’agente non sia riuscito a conformare la propria condotta a quella doverosa in ragione del caso fortuito o della forza maggiore.
Acclarata la predetta disamina di teoria generale, le citate coordinate ermeneutiche devono ora essere apprezzate in relazione al caso che ha impegnato la sentenza in commento.
In questa prospettiva, l’imputata veniva dichiarata colpevole del reato di cui all’art. 589 bis, comma 1, c.p. con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e nell’inosservanza delle norme inerenti la circolazione stradale (artt. 141, commi 2 e 11 C.d.S.), atteso che mentre percorreva con la propria autovettura un tratto stradale, quest’ultima dopo un improvviso slittamento durante una curva volgente a destra e l’invasione della corsia opposta, a causa dell’impatto con la terra e la roccia presenti al di fuori della sede stradale, si ribaltava causando il decesso di un passeggero.
In proposito, la Corte di merito ha ritenuto provata la responsabilità dell’imputata, non risultando suffragata da alcun elemento la tesi difensiva del distacco di massi sulla rete stradale addotta quale causa di esclusione della colpevolezza, concludendo nel senso che la dinamica dei fatti doveva essere ricostruita nel senso che la velocità di guida dell’imputata, sebbene di poco inferiore al massimo previsto nel tratto di strada di pertinenza, non ha consentito alla stessa di conservare il controllo del veicolo nel momento in cui si stava apprestando ad affrontare la curva.
La Cassazione in esame, intervenuta a censurare l’operato della citata Corte territoriale, ha rilevato che un simile modo di argomentare non appare idoneo a dimostrare la concreta ricorrenza nel caso di specie della causalità della colpa. In questa prospettiva, infatti, il mero rilievo che vi era stato uno slittamento dell’auto condotta dall’imputata da ascriversi alla sua azione imprudente “in quanto evidentemente non era stata in grado di conservare il controllo del veicolo al momento del fatto così invadendo la corsia di marcia opposta ed andando a collidere contro una roccia situata sul terrapieno posto al di fuori della sede stradale”, riesce a spiegare soltanto in termini di mera causalità materiale il rapporto tra la condotta dell’imputata e l’evento morte del passeggero, “senza che sia stata individuata la regola cautelare violata nonché la sua imputabilità soggettiva alla medesima”.
Di qui ne è derivato l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello competente, la quale ai fini dell’accertamento della causalità della colpa è chiamata ad individuare la concreta regola cautelare violata e a motivare puntualmente in ordine: alla sua efficacia impeditiva dell’evento; alla possibilità per il soggetto di rendersi conto della sua esistenza e di adeguare il proprio comportamento a quello doveroso, in ossequio al parametro dell’agente modello nei termini sopra precisati.
Ne consegue che solo nel rispetto di tali condizioni potrà dirsi compiuto il relativo giudizio bifasico sulla causalità della colpa e integrato il reato in esame sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo.
[1] In questa prospettiva, infatti, come ben illustrato dalla sentenza in commento, “la causalità della colpa identifica un concetto che va al di là di quelli che tradizionalmente sono i concetti che identificano l’elemento oggettivo del reato (condotta, evento e nesso causale) implicando, invece, sul piano soggettivo il dovere di osservanza della regola cautelare e la individuazione preventiva della stessa regola cautelare e del suo atteggiarsi in relazione all’area di rischio considerata”.
[2] La violazione della regola cautelare da parte dell’agente prende il nome in dottrina di colpa oggettiva o normativa. In proposito, a dispetto del nomen che sembra ricondurre la violazione in esame al giudizio sulla causalità della condotta, giova ribadire che in realtà la stessa si inserisce nel primo momento inerente alla verifica della causalità della colpa, la cui mancanza refluisce non già sul piano dell’elemento oggettivo del reato ma su quello soggettivo, conducendo il giudice a concludere il processo penale pronunciando l’assoluzione dell’imputato con la formula perché il fatto non costituisce reato.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. IV, 19 giugno 2023, n. 26290)
stralcio a cura di Annapia Biondi
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