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Al condannato ammesso alla liberazione condizionale si applica la libertà vigilata non quale misura di sicurezza, ma come misura alternativa alla detenzione per favorirne la risocializzazione

Annamaria Muraglia 

 

La sentenza della Corte Costituzionale in commento consente di interrogarsi sulla natura giuridica della libertà vigilata e sulla ratio legis alla base della sua concessione al condannato ammesso alla misura alternativa alla detenzione della liberazione condizionale.

La pronuncia interviene all’esito di un giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, promosso dal Tribunale di sorveglianza di Firenze che, nell’ambito di un procedimento di sorveglianza nei confronti di un condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale, ha sollevato la questione di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., escludendo di poter addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di legge censurate, nella parte in cui stabiliscono l’applicazione obbligatoria della libertà vigilata, con durata in misura fissa e predeterminata, e al contempo non prevedono la possibilità per il Magistrato di sorveglianza di verificare in concreto, durante l’esecuzione della misura, il permanere delle sue condizioni di adeguatezza alle esigenze di reinserimento sociale del reo, non consentendone – in caso contrario – la disposizione della revoca anticipata.

Come noto, infatti, l’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. include tra i casi in cui «deve» essere ordinata la libertà vigilata l’ipotesi del condannato ammesso alla liberazione condizionale, mentre, l’art. 177, secondo comma, cod. pen. stabilisce tassativamente che l’esecuzione della misura si protragga fino alla conclusione di un periodo di cinque anni, se trattasi di condannato all’ergastolo, senza che sia possibile ridurre la sua durata o disporne la revoca prima della sua naturale scadenza, nell’ipotesi di sopravvenienze positive in relazione al processo rieducativo del reo.

Il Giudice a quo muove dalla considerazione che la libertà vigilata sia fondata su un presupposto diverso da quello della pericolosità sociale, al quale tipicamente sono da ricondursi le misure di sicurezza, in quanto – nella fattispecie – la misura viene disposta in seguito ad una valutazione di “meritevolezza del beneficio maggiore”, consistente nel pieno ravvedimento del condannato. Al riguardo, rammenta che sia la Corte Costituzionale (con sentenza n. 282 del 1989), sia la Corte di Cassazione (con sentenza n. 343 del 1991), avevano in precedenza riconosciuto ad essa una funzione di controllo della condotta del condannato in libertà, volta ad accertare che il giudizio di ravvedimento trovi effettiva corrispondenza nella realtà.

Per il Giudice rimettente, quindi, la libertà vigilata applicata al condannato che abbia ottenuto la liberazione condizionale ex art. 230, co, 1 n. 2 c.p., assume carattere afflittivo, comportando notevoli restrizioni al condannato ammesso alla liberazione condizionale, e integra una sanzione penale a tutti gli effetti, che consegue alla commissione di un reato (quello che ha dato origine alla condanna oggetto di liberazione condizionale). E come tutte le sanzioni «lato sensu penali» (ampio genus in cui è comunque possibile comprendere le stesse misure di sicurezza), anche quella in esame deve rispettare i principi di rieducazione e risocializzazione del reo, nonché i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento punitivo. Principi, quest’ultimi, che escludono irragionevoli automatismi sanzionatori, i quali, accumunando la condizione di individui con diverso grado di risocializzazione raggiunto e con percorsi rieducativi eterogenei, oltre a confliggere con il dettato normativo dell’art. 27 Cost., violano anche la tutela dell’uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost., che richiede il trattamento differenziato di situazioni diverse (cfr. Corte Cost., sent. n. 222 del 2018, n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963, nonché Corte Cost., sent. n. 88 del 2019 in ambito di sanzioni amministrative accessorie).

Investita delle questioni di costituzionalità, la Consulta ha ritenuto le stesse non fondate.

Preliminarmente, la sentenza de qua precisa che, se da un lato la libertà condizionale è sicuramente ascrivibile al genusdelle misure alternative alla detenzione (art.176 c.p.), la libertà vigilata di cui all’art. 228 c.p. è da ritenersi in genere una misura di sicurezza personale di tipo non detentivo. Tuttavia, allorquando detta misura sia considerata unitamente alla liberazione condizionale, nell’ottica dell’art. 230, co. 1 n. 2 c.p., il quale stabilisce i casi in cui “deve” obbligatoriamente essere disposta la libertà vigilata, in particolare “quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale”, la sua ratio risponde ad una logica diversa. La finalità dell’istituto si traduce, in questo caso, in una sorta di “messa alla prova” del liberato condizionalmente, dal quale ci si aspetta una “conferma” del ravvedimento, attraverso l’analisi del suo comportamento in stato di libertà. 

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 11 del 1970, nonché con sentenza n. 78 del 1977, aveva già evidenziato alcune caratteristiche intrinseche della libertà vigilata correlata alla liberazione condizionale, descrivendola alla stregua di una fattispecie «tutta particolare», da ritenersi non coincidente con la “semplice” libertà vigilata, considerata nella sua singolarità. L’impostazione descritta, inoltre, ha più volte ricevuto conferme anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. Pen., sent. n. 343 del 1991; n. 17343 del 2009; n. 39854 del 2012; n. 13934 del 2017).

La sentenza in oggetto ha quindi chiarito che la libertà vigilata scaturente dall’ammissione alla liberazione condizionale è solo nominalmente ascrivibile al genus delle misure di sicurezza, soddisfacendo ben diverse necessità, tra cui quella di “garantire i terzi, la collettività tutta, dai pericoli derivanti dall'anticipata liberazione del condannato”. L’applicazione della libertà vigilata al condannato ammesso alla liberazione condizionale non dipende dunque “da una valutazione in concreto del rischio che egli nuovamente commetta reati, ma si lega inscindibilmente, derivandone quale conseguenza, alla condizione di liberato condizionalmente”.

Ne consegue che liberazione condizionale e libertà vigilata sono da considerarsi, nel loro insieme, come un unicum annoverabile, a seguito della legge n. 354 del 1975, tra le misure alternative alla detenzione, essendo finalizzato “a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena” (cfr. sent. n. 32 del 2020; ord. n. 97 del 2021).

In tal senso, se la liberazione condizionale trova la sua ratio legis nel principio costituzionale sancito dall’art. 27, co.3, Cost. di risocializzazione del condannato, allo stesso modo le prescrizioni e gli obblighi derivanti dalla concessione della libertà vigilata del condannato ammesso a liberazione condizionale trovano la loro ragion d’essere “nel sostegno e controllo che essi possono e devono offrire alla prova in libertà del condannato” (cfr. Corte Cost., sent. n. 282 del 1989).

Ciò premesso, la Corte Costituzionale ritiene comunque che l'applicazione di detta misura, pur vincolata nell'an e nel quantum, non lo sia nel quomodo, in quanto il suo contenuto, non tipizzato né dalle disposizioni del codice penale, né da quelle del codice di rito, permette in ogni caso al magistrato di sorveglianza di individualizzarne la portata e proporzionare il grado di afflittività in base alle esigenze del caso concreto, nonché in coerenza con la specifica situazione personale ed ambientale del vigilato.

Ed infatti, nell’ambito delle prescrizioni dettate dalla legge per la persona sottoposta a libertà vigilata, che peraltro «possono essere […] successivamente modificate o limitate» (cfr. art. 228 cod. pen.), l’art. 190 norme att. cod. proc. pen. si limita a stabilire un divieto di trasferimento della propria residenza o dimora in un comune diverso, senza autorizzazione del magistrato, e un divieto di variazione di abitazione nell’ambito dello stesso comune senza informare le autorità di pubblica sicurezza. La disciplina prevede poi anche un obbligo di conservazione e, all’occorrenza, di esibizione della carta precettiva, riepilogativa delle prescrizioni impartite. Fatta eccezione per queste previsioni “minime”, tuttavia, come pure osserva la Corte, il legislatore ha scelto di non definire analiticamente quali obblighi il giudice debba imporre al vigilato, al fine di non rendere difficoltosa la ricerca di una occupazione e di attenersi alle prescrizioni della vigilanza con la «necessaria tranquillità» (cfr. art. 190, ultimo comma, disp. att. cod. proc. pen.). Si tratta quindi di uno strumento flessibile nelle mani del magistrato di sorveglianza, il quale può modificare le prescrizioni inizialmente impartite in funzione della graduale rieducazione e reinserimento sociale del condannato.

Bisogna inoltre ricordare che la liberazione vigilata concessa al soggetto ammesso alla liberazione condizionale è definita, ex art. 55. Ordin. Penit. “assistita”. Infatti la disposizione in questione, (all’uopo già valorizzata nella citata pronuncia della Corte Costituzionale n. 78 del 1977), nel sancire che «il servizio sociale svolge interventi di sostegno e di assistenza» al fine di garantire il corretto reinserimento sociale del reo, evidenzia come la funzione dell’istituto in esame sia diretta ad offrire al condannato uno strumento concreto di guida ed accompagnamento verso la sua rimessione nella società.

Proprio per tali ragioni, la Corte Costituzionale ritiene che il regime codicistico della libertà vigilata applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale ex art. 230 primo comma, numero 2), del codice penale, non costituisce ostacolo alla risocializzazione della persona (art. 27 Cost.) e non viola in alcun modo il principio di trattamento differenziato di situazioni diverse, desumibile dall’art. 3 Cost.

Argomento: Delle misure di sicurezza personali
Sezione: Corte Costituzionale

(C. Cost., 11 aprile 2023, n. 66)

Stralcio a cura di Ilaria Romano

“1.– Il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), cod. pen. Le due disposizioni sono censurate, innanzitutto, nella parte in cui stabiliscono l’obbligatoria applicazione della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale. Così disponendo, esse violerebbero gli artt. 3 e 27 Cost., poiché prevedrebbero un «automatismo ex lege» in forza del quale al condannato in questione la libertà vigilata è applicata non già in base alla sua concreta situazione e in virtù di specifici elementi rivelatori di esigenze di difesa sociale, bensì sulla scorta del dato «meramente formale» legato alla concessione della misura. In secondo luogo, gli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), cod. pen. violerebbero di nuovo gli artt. 3 e 27 Cost. in quanto stabiliscono la durata della libertà vigilata in misura predeterminata e fissa. (…) Ne risulterebbe, in particolare, il contrasto con i principi di individualizzazione e proporzionalità della sanzione penale, che rendono «indiziata di illegittimità» ogni fattispecie sanzionata con pena fissa. (…) Infine, è lamentata la violazione dell’art. 3 Cost., poiché le due disposizioni accomunerebbero «situazioni soggettive differenti che, pur nel presupposto comune del sicuro ravvedimento, sono invece caratterizzate da percorsi rieducativi eterogenei». (…) 5.– La decisione delle odierne questioni richiede che questa Corte chiarisca la natura della libertà vigilata, quale si rivela nelle fattispecie come quella in esame, cioè quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale. Se, infatti, la libertà vigilata si presenta ordinariamente come misura di sicurezza a tutti gli effetti, più controversa è la sua natura laddove essa risulti disposta ai sensi dell’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. In generale, le misure di sicurezza trovano la loro «peculiare ragion d’essere» nella «funzione di contenimento della pericolosità sociale [del soggetto]» (sentenza n. 22 del 2022), con la conseguenza che esse operano se e [continua ..]

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