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Malversazione ai danni dello Stato: è integrata solo quando l´interesse pubblico risulti irreversibilmente compromesso

Rossella Marchese

Con la sentenza 6955/2023, la Suprema Corte si è occupata del reato di malversazione ai danni dello Stato sancito dall’art. 316-bis c.p. Nel caso di specie, l’impresa era accusata di aver distratto larga parte di un ingente finanziamento di 2.000.000,00 di dollari, erogato da una società a partecipazione pubblica, allo specifico fine di realizzare i progetti contrattualmente previsti nel territorio degli Stati Uniti. Per questo motivo, il Tribunale di Ancona, in veste di giudice del riesame del sequestro già impartito dal giudice delle indagini preliminari, confermava con ordinanza il sequestro a carico dell’impresa destinataria del “profitto della malversazione ai danni dello Stato”, ossia di quelle “somme che sarebbero state usate per ripianare i debiti infragruppo e canalizzare parte delle somme nei conti bancari” dell’impresa.

Avverso l’ordinanza in epigrafe presenta ricorso l’impresa stessa, per il tramite del suo legale, articolando quattro precipui motivi, di cui uno in particolar modo costituirà la base di accoglimento del ricorso.

In via preliminare, il ricorrente afferma che il movimento che concreterebbe la distrazione, ossia il prestito inter-company, non ha rappresentato uno sviamento dall’obiettivo pattuito alla base dell’erogazione. Al contrario, esso sarebbe stato effettuato proprio al fine di conseguire tale finalità. L’operazione, che aveva come solo effetto quello di evitare di depositare il denaro su conti bancari statunitensi e di pagare interessi negativi, avrebbe scongiurato “il rischio di un parziale depauperamento dei fondi ricevuti dall’ente partecipato”. Invero, grazie a tale operazione l’impresa ha lucrato interessi positivi, i quali sono stati comunque utilizzati per acquistare i macchinari necessari all’opera e realizzare così il piano strategico concordato con l’ente erogatore, al quale il prestito è stato altresì restituito. Tali argomentazioni avevano come scopo quello di escludere l’ipotesi di inadempimento dell’impresa beneficiaria e, soprattutto, di ribadire che nessuno dei movimenti contestati avrebbe concretato “un’operazione di salvataggio, ristrutturazione o consolidamento di passività tra le società del gruppo Clabo, in violazione delle clausole contrattuali”.

Alla luce di queste considerazioni, la difesa rileva l’insussistenza del fumus commissi delicti di malversazione, ossia nega la presenza di indizi di colpevolezza tali da giustificare l’applicazione di una misura cautelare. Infatti, in base a una lettura avallata in dottrina e in giurisprudenza, i finanziamenti di cui all’art. 316-bis, ossia quelli la cui distrazione configura reato devono presentare il carattere dell’”agevolazione”, cioè essere “caratterizzati da una convenienza economica/onerosità attenuata per il destinatario”. A questo proposito, la difesa rileva che le erogazioni effettuate a favore dell’impresa sono state concesse a condizioni di mercato, non essendo state previste agevolazioni di alcun tipo. Tuttavia, la Corte rileva che la ratio della norma incriminatrice spinge l’interprete a ritenere integrato il carattere agevolato dell’erogazione anche quando il beneficiario goda di “una qualche forma di vantaggio”.

Questione particolarmente controversa sul punto consiste nel raffronto della fattispecie di malversazione ai danni dello stato con quella (similare) di truffa aggravata (640-bis c.p.). Le suddette norme possono sembrare, ad una prima lettura, equipollenti, ma così non è, in quanto mirano a neutralizzare reati commessi in momenti, per così dire, differenti. Dunque, l’art. 640-bis c.p., come si può rilevare dalla lettera della norma, è finalizzato a “neutralizzare le frodi commesse nel periodo antecedente il provvedimento di concessione del finanziamento”.[1] Invece, l’art. 316-bis, come suggerisce la locuzione “avendo ottenuto”, si occupa delle condotte consumate “dopo l’erogazione del finanziamento e che si concretizzano in uno sviamento della pubblica pecunia dagli scopi per cui è stata elargita”.[2] Altresì, si ritiene che il minimo comune denominatore delle due fattispecie sia l’attribuzione di condizioni di favore nella prestazione e che, qualora così non fosse, si sarebbe al di fuori dalla rilevanza penale del fatto, essendo assente uno “scopo legale tipico”. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che tali condizioni di favore possano essere di vari tipi, atteso il carattere non tassativo dell’elencazione legislativa.

Con il secondo motivo, la difesa contesta la qualificazione di ente pubblico attribuita all’ente erogatore del finanziamento e, dunque, viene addotta violazione dell’art. 316-bis c.p. e dell’art. 3 d.lgs. n. 163/2006. Tale operazione si baserebbe su una lettura formale della norma e non terrebbe in adeguata considerazione gli indici rivelatori della natura pubblica di un ente elaborati in giurisprudenza, che sono stati individuati ne: “le finalità di pubblico interesse perseguite dall'ente; il fatto che l'ente è stato costituito per volontà di Stato o delle Regioni o di altri enti pubblici; la sottoposizione dell'ente a poteri di ingerenza, di vigilanza, di controllo da parte di Stato, Regioni o altri enti pubblici; il finanziamento pubblico dell'attività dell'ente.” Nessuno di questi indici, secondo la difesa, sarebbe riscontrabile nell’ente erogatore. Non vi sarebbe infatti alcuna ingerenza diretta o controllo da parte dello Stato, e l’impresa opererebbe secondo criteri di convenienza economica e non di interesse pubblico. Secondo la Corte, questo motivo va disatteso in quanto, se è vero che si è affermata una nozione “funzionale” di ente, con l’emersione degli indicatori sopra menzionati, è pur vero che, ai fini penalistici, questa corte, in numerosi arresti, qualifica anche società di Cassa Depositi e Prestiti come ente pubblico “addirittura nell’esercizio dell’attività di bancoposta”. Per questa ragione, correttamente l’ordinanza impugnata ha qualificato la società erogatrice come organismo di diritto pubblico.   

Con il terzo motivo, il ricorrente elabora un significativo ragionamento in ordine al momento consumativo del reato di malversazione ai danni dello Stato, deducendo erronea applicazione della legge penale. Difatti, la natura omissiva del delitto di cui all’art. 316-bis impone che la consumazione del reato presupponga logicamente la scadenza di un termine. Di conseguenza, il delitto può dirsi integrato quando risulti “irreversibilmente compromessa la possibilità di realizzare l’interesse pubblico per cui il finanziamento è stato erogato”, a nulla rilevando l’ipotesi in cui il valore ricavato dal beneficiario attraverso l’operazione di cui sopra sia stato o meno interamente devoluto, nel termine essenziale previsto, alla realizzazione dell’opera, “esulando dall’area della incriminazione gli impieghi temporanei esauriti prima della sua scadenza”.                                      La restituzione, nel caso in esame, è stata effettuata entro i termini e non ha compromesso la realizzazione dell’opera concordata. D’altronde, è stata proprio questa l’argomentazione che ha indotto la Corte a disporre l’annullamento dell’ordinanza impugnata. La Corte censura, infatti, l’orientamento giurisprudenziale a cui è parso aderire il Tribunale di Ancona, secondo il quale si fa coincidere il momento consumativo del reato di malversazione “con quello in cui le somme erogate dall’ente pubblico sono state impegnate dal beneficiario per fini diversi da quelli istituzionali”. Ad ogni modo, la Corte, attraverso l’analisi della ratio della fattispecie, conferma le considerazioni avanzate dal ricorrente in ordine al fatto che la norma mira a tutelare l’interesse concreto che l’ente pubblico persegue attraverso l’erogazione di quel contributo. Dunque, “finché l'interesse pubblico sotteso all'opera o servizio non risulta frustrato con certezza, non può sussistere il reato, tantomeno nella forma consumata”. Se così non fosse, si attribuirebbe alla fattispecie dell’art. 316-bis c.p. un carattere eccessivamente formale e verrebbe meno il principio del diritto penale come extrema ratio, poiché l’illecito penale e l’illecito civile finirebbero per sovrapporsi. Anche qualora si volesse ritenere che le somme siano state distratte dalla società al fine di riparare le passività della società, è pur vero che questo integrerebbe una violazione civilistica, ponendosi in contrasto con quanto specificamente previsto dal contratto e non verrebbe frustrato in alcun modo l’interesse pubblico concreto sotteso all’erogazione.

Ne deriva che, per integrare la fattispecie di malversazione occorrerebbero due ipotesi: la prima è che le somme erogate non siano state restituite oppure, seconda ipotesi è che le stesse siano state utilizzate per finalità diverse da quelle previste nel contratto entro il termine in esso previsto. Nel caso di specie, nessuna delle due ipotesi può dirsi verificata.

Con il quarto motivo, il ricorrente adduce violazione di legge in relazione all’art. 321, comma 2-bis c.p.p., nella parte in cui l’ordinanza trascura di accertare il presupposto del periculum in mora, richiamando quanto statuito dalle Sezioni Unite n. 36959 del 24/06/2021, Ellade, Rv. 281848 “sull'obbligo di motivare le ragioni per cui non è possibile attendere il provvedimento definitorio del giudizio”. Tale motivo, in ragione dell’accoglimento del precedente, risulta assorbito.

 

[1] R. Giovagnoli, Manuale di diritto penale, Parte speciale, ITA edizioni, Padova, 2023, pp. 156-157.

[2] Id.

Argomento: Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Pen., Sez. VI, 17 febbraio 2023, n. 6955)

Stralcio a cura di Ilaria Romano

“2.1. Vero è che (…) in altre branche del diritto si è da tempo fatta strada una nozione "funzionale" di ente, che dunque viene ritenuto pubblico ad alcuni fini e privato ad altri fini. (…) Tuttavia, ai fini penalistici, questa Corte qualifica Cassa Depositi e Prestiti come ente pubblico addirittura nell'esercizio dell'attività di bancoposta (…). In modo corretto l'ordinanza impugnata ha ravvisato altresì in Simest Spa i requisiti del c.d. organismo di diritto pubblico di cui al D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 3, comma 21, rifluito nel D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 3, lett. d), (Codice dei contratti pubblici) (…). Quanto alla ritenuta insussistenza dell'oggetto materiale della condotta di malversazione ai danni dello Stato (art. 316-bis c.p.), sebbene il dato testuale dell'art. 316-bis c.p. richiami in modo esplicito il carattere agevolato dell'erogazione, dalla ratio dell'incriminazione si desume pacificamente che il suo beneficiario deve godere di una qualche forma di vantaggio, non comprendendosi, diversamente, le ragioni del rimprovero penale (…). [I]l vantaggio per il beneficiario delle erogazioni può essere di vari tipi, potendo consistere in una contribuzione a fondo perduto o in un finanziamento per la cui restituzione sono disposti tassi di interesse agevolati, ma potendo anche concretarsi, ad esempio, sul piano delle condizioni per l'accesso al credito ovvero delle garanzie che lo assistono. 4.1. (…) [Un] orientamento giurisprudenziale (…) fa coincidere il momento consumativo della fattispecie di malversazione ai danni dello Stato (art. 316-bis c.p.) sempre e comunque con quello in cui le somme erogate dall'ente pubblico sono state impegnate dal beneficiario per fini diversi da quelli istituzionali. In realtà, la ratio della fattispecie di cui all'art. 316-bis c.p. (…) è (…) la frustrazione dell'interesse concreto che lo Stato, l'ente pubblico o l'organismo Europeo perseguiva attraverso il finanziamento dell'opera o servizio. Finché l'interesse pubblico sotteso all'opera o servizio non risulta frustrato con certezza, non può sussistere il reato, tantomeno nella forma consumata. A ragionare diversamente, nella migliore delle ipotesi, si finirebbe con il sovrapporre indebitamente l'illecito penale all'illecito civile; nella peggiore, la rilevanza penale della condotta potrebbe addirittura trascendere [continua ..]

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