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Consenso all´utilizzo dell´immagine e cessione dei relativi diritti: basta il consenso tacito

Lorenzo Forlano

La recente e rilevante ordinanza n. 18276, emessa in data 3 luglio 2024 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, si inserisce in modo significativo nel dibattito giuridico contemporaneo, affrontando una questione di crescente rilievo e complessità nel panorama normativo e dottrinale italiano, ovverosia la delicata tematica del consenso tacito all’esposizione e alla diffusione dell’immagine personale. 

In un contesto storico e sociale contraddistinto dalla pervasiva diffusione e circolazione di contenuti fotografici, mediati da tecnologie digitali e piattaforme comunicative onnipresenti, appare imprescindibile, nonché di stringente urgenza, un approfondito e rigoroso esame delle implicazioni giuridiche connesse alla tutela della privacy e del diritto all’immagine, diritti che si collocano al crocevia tra la sfera intima dell’individuo e le dinamiche pubbliche di rappresentazione e valorizzazione economica. Tale pronuncia, pertanto, non si limita a ribadire principi consolidati, ma contribuisce altresì a delineare i confini normativi entro cui si deve muovere l’equilibrio tra libertà individuale e interesse collettivo, offrendo al contempo un punto di riferimento imprescindibile per l’evoluzione della giurisprudenza in materia.

La controversia in esame vede contrapposte le parti in ordine alla pubblicazione di un ritratto fotografico. La Corte d’Appello di Bologna, con pronuncia emessa in data 14 aprile 2022, aveva già respinto la pretesa volta alla tutela della riservatezza avanzata dalla parte attrice, statuendo che il consenso all’esposizione dell’immagine personale può legittimamente manifestarsi anche in forma tacita. Questo principio è stato successivamente riaffermato e ulteriormente elaborato dai giudici della Terza Sezione della Suprema Corte, i quali hanno fornito un’analisi approfondita circa i requisiti e le modalità distintive che contraddistinguono la validità di un consenso implicito di tal natura. 

Il giudizio di merito si snoda attorno al nodo giuridico cruciale rappresentato dall’interpretazione delle norme di riferimento, in particolare degli articoli 96, 97 e 110 della legge n. 633 del 1941 (cd. legge sul diritto d’autore) e del corrispondente art. 10 del Codice civile, delineando una cornice ermeneutica che integra la tutela dell’identità personale con le dinamiche contrattuali di sfruttamento economico.

La Suprema Corte richiama innanzitutto la strutturazione normativa del diritto all’immagine, quale diritto della personalità riconosciuto sia dal Codice civile all’art. 10, sia nella legge speciale a tutela del diritto d’autore. Si delinea così un sistema normativo di portata dualistica: da un lato, il Codice civile consacra la tutela della persona rispetto all’utilizzo indebito della propria immagine, e dall’altro, la legge n. 633 del 1941 introduce specifiche previsioni circa la riproduzione, l’esposizione e la messa in commercio dell’immagine, subordinando l’utilizzo all’autorizzazione del soggetto ritratto, sicché non sono ammesse deroghe al divieto di divulgazione (artt. 96 e 97 L. 633/1941).

La ratio di tale disciplina è evidentemente quella di bilanciare l’esigenza di salvaguardia dell’intimità, dell’onore e della reputazione con le necessità di informazione e pubblica conoscenza, laddove ricorrano i casi legittimanti indicati dalla legge, quali la notorietà del soggetto, l’esercizio di uffici pubblici o l’interesse pubblico connesso a fatti ed avvenimenti pubblici.

Gli Ermellini affermano con chiarezza che il diritto all’immagine, sebbene talvolta qualificato dalla dottrina come espressione del più ampio diritto alla riservatezza, possiede un proprio profilo autonomo e strutturato, caratterizzato da un duplice contenuto: negativo e positivo. Sotto il profilo negativo, esso tutela l’interesse del soggetto a non vedere diffusa la propria immagine senza il consenso, imponendo agli altri un dovere di astensione (situazione soggettiva passiva erga omnes). Sotto quello positivo, invece, il diritto si manifesta quale facoltà del titolare di apparire in pubblico e di autorizzare l’uso della propria immagine, anche per fini commerciali, configurando una situazione soggettiva passiva che impone un cosiddetto obbligo di pati, ossia una tolleranza nei confronti della diffusione.

È proprio attraverso questa duplice valenza che la giurisprudenza ha esteso la tutela riconosciuta al diritto all’immagine, riconoscendo la meritevolezza di tutela anche agli interessi patrimoniali connessi allo sfruttamento commerciale, configurando di fatto, seppure in via indiretta, la figura del cosiddetto right of publicity di derivazione americana, come dimostrato dalla costante evoluzione giurisprudenziale che ha ammesso la risarcibilità del danno economico derivante dalla mancata corresponsione del compenso per l’utilizzo dell’immagine (Cass. n. 22513/2004; n. 1875/2019).

L’ordinanza prende poi in esame il caso concreto, nel quale la controversia ruota attorno alla domanda risarcitoria avanzata dal ricorrente, volto a ottenere un compenso per l’utilizzo commerciale della propria immagine, lamentando l’assenza di prova scritta della trasmissione dei diritti di sfruttamento. Tale questione si inserisce nella più ampia tematica relativa alla circolazione dei diritti patrimoniali sull’immagine e alla forma richiesta per la manifestazione del consenso.

L’eccezione di inammissibilità della richiesta di prova scritta della cessione viene puntualmente confutata dalla Suprema Corte, la quale ribadisce la prassi giurisprudenziale consolidata secondo cui non è richiesta una forma particolare per la manifestazione del consenso al trattamento dell’immagine da parte del titolare, essendo sufficiente anche un consenso tacito, purché espresso in modo inequivoco e con manifestazione di volontà chiara e sufficientemente concludente.

In particolare, si richiama la sentenza Cass. n. 10957 del 2010, che ha chiarito come l’art. 110 della legge sul diritto d’autore, che impone la forma scritta per la prova dei contratti relativi alla trasmissione dei diritti d’utilizzazione economica, sia volto a disciplinare esclusivamente i rapporti tra i diversi pretesi titolari del diritto di sfruttamento e non il rapporto tra il soggetto ritratto e il terzo utilizzatore.

Ne deriva una conclusione di fondamentale rilievo: la mancata forma scritta non preclude la validità del consenso, il quale può essere manifestato anche tacitamente, purché la volontà sia chiara e inequivoca. Questo principio consente di contemperare la tutela del diritto all’immagine con le esigenze di flessibilità tipiche delle operazioni commerciali contemporanee, evitando formalismi eccessivi che potrebbero inibire l’effettività dell’utilizzo economico dell’immagine.

Inoltre, la Cassazione sottolinea come la prestazione di un consenso ampio e scritto da parte dei genitori del soggetto minorenne, e successivamente dallo stesso maggiorenne, comporti la perdita del controllo sull’ulteriore circolazione dell’immagine, salvo che non emergano elementi di pregiudizio diretto e specifico per il titolare.

Sul piano probatorio, infine, la Corte di Cassazione esclude che il soggetto leso possa esigere la prova scritta del passaggio dei diritti lungo la catena dei trasferimenti, rafforzando così la tutela della circolazione economica delle immagini e sancendo una netta distinzione tra la prova del consenso al trattamento e la prova della titolarità dei diritti di sfruttamento.

L’ordinanza in discorso, quindi, si pone come un autorevole contributo dottrinale, delineando un quadro interpretativo coerente e giustificato dalla prassi giurisprudenziale, ma apre altresì a riflessioni critiche e prospettive di sviluppo future. In primo luogo, emerge la tensione insita tra la tutela della dignità e dell’identità personale e le dinamiche di mercato che conducono alla valorizzazione economica dell’immagine quale bene immateriale.

Il bilanciamento tra interesse individuale e funzione sociale del diritto all’immagine trova qui un equilibrio pragmatico, ma non privo di criticità: la delega tacita all’utilizzo e alla cessione dei diritti di immagine potrebbe generare situazioni di difficoltà di controllo e tutela, soprattutto alla luce delle nuove frontiere tecnologiche e delle dinamiche digitali, dove la circolazione incontrollata delle immagini assume dimensioni globali e virali.

In secondo luogo, la nozione giurisprudenziale di consenso tacito, seppur funzionale a garantire la certezza e la fluidità dei rapporti, pone in rilievo l’esigenza di criteri interpretativi rigorosi e di un rigoroso accertamento fattuale, onde evitare abusi o indebite lesioni dei diritti di personalità. La prova concludente della volontà manifestata deve essere attentamente valutata, anche alla luce di recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali in materia di protezione dei dati personali e tutela della privacy.

L’ordinanza n. 16136/2024 rappresenta, dunque, un autentico punto di riferimento nel panorama giuridico italiano ed internazionale in materia di diritto all’immagine, confermando la necessità di un approccio integrato e interdisciplinare che sappia contemperare diritti della personalità, tutela giuridica ed esigenze economiche.

La Corte di Cassazione, con la sua autorevole pronuncia, rafforza il principio secondo cui il diritto all’immagine si configura come un bene complesso, la cui utilizzazione economica richiede un consenso non necessariamente formalizzato in forma scritta, purché manifestato con sufficiente chiarezza e conclusione di volontà. Tale principio, oltre a favorire una più agevole circolazione dei diritti patrimoniali, protegge altresì la dignità e i diritti fondamentali della persona, salvaguardandone l’intimità e la reputazione quando ciò sia necessario.

La decisione costituisce, quindi, un paradigma ermeneutico e applicativo imprescindibile per tutti gli operatori del diritto, chiamati a confrontarsi con la tutela dell’immagine nell’era digitale, ove l’immagine personale assume un ruolo centrale nella sfera pubblica.

Argomento: Dell’efficacia del contratto
Sezione: Sezione Semplice

(Cass. Civ., Sez. III, 03 luglio 2024, n. 18276)

stralcio a cura di Ciro Maria Ruocco

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“(…) 7. - Premessi i fatti e i motivi di ricorso, ai fini del corretto inquadramento delle questioni oggetto del ricorso, va ricordato che il diritto all’immagine è tutelato nel nostro ordinamento nel codice civile (art.10) e nella legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto d’autore (artt.96 e 97), che detta il completamento della disciplina codicistica. Dal combinato disposto della disposizione del codice civile e delle disposizioni della legge speciale, si desume la regola che pone il divieto di esporre o pubblicare l’immagine di una persona. Il divieto non è assoluto nell’ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione non rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esposizione o la pubblicazione e ammessa quando sussista il consenso della persona medesima (art.96 legge n. 633 del 1941) o quando ricorra una delle fattispecie tassativamente stabilite dalla legge in deroga al divieto stesso (notorietà della persona; ufficio pubblico da essa ricoperto; necessità di giustizia o di polizia; sussistenza di scopi scientifici, didattici o culturali; collegamento della riproduzione con fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico: art.97, primo comma, L. n.633 del 1941). Il divieto e, invece, assoluto nella contraria ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esigenza del rispetto dell’intimità della persona prevale sull’esigenza sociale di pubblica conoscenza della sua immagine, sicché non sono ammesse deroghe al divieto di divulgazione (art.97, secondo comma, L. n.633 del 1941). Il diritto all’immagine - configurato in dottrina talora come manifestazione del più ampio diritto alla riservatezza, talaltra come autonomo diritto della personalità - ha un duplice contenuto, negativo e positivo. Sotto il primo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare a che la sua immagine non venga diffusa o esposta in pubblico; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un dovere di astensione. Sotto il secondo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare ad apparire in pubblico nella [continua ..]

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