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Concessione di pubblico servizio, principio di invariabilità del canone e rischio della domanda
Gianpiero Gaudiosi.
Anche dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (nuovo Codice appalti), intriso di elementi di ispirazione unionale, non tramonta il vivido interesse suscitato in dottrina e in giurisprudenza dal dibattito attorno ai profili discretivi tra appalti e concessioni di pubblici servizi.
La costante riemersione della tematica trova plausibile spiegazione nella difficoltà di ricostruire in chiave dogmatica l’istituto concessorio, sebbene la normativa di settore – recependo le indicazioni stratificatesi sulla scorta di tre generazioni di direttive in materia di appalti – vi abbia dedicato una apposita disciplina agli artt. 164 e ss., riconducendolo all’alveo dei contratti pubblici e mettendone chiaramente in risalto gli elementi qualificanti. In specie, l’analisi è resa decisamente più articolata in virtù del fatto che al concetto di concessione si accompagna in questo caso il concetto di “servizio pubblico”, connotato – come testimoniato anche dall’ampia letteratura formatasi in subiecta materia – da notevole mutevolezza tanto sul versante temporale, quanto su quello geografico.
Scendendo nel dettaglio della vicenda giunta all’attenzione del Consiglio di Stato, l’aspetto che conferisce maggior rilievo alla sentenza in commento investe un aspetto peculiare dell’indagine: la natura del rapporto intercorrente tra le parti.
Sebbene i fatti vadano ad inquadrarsi ratione temporis sotto la vigenza del d.lgs. 163/2006, l’analisi condotta dai giudici amministrativi è validamente spendibile anche nell’odierno contesto normativo.
Nel caso di specie, una società concessionaria del servizio di raccolta ed avvio a trattamento dei rifiuti delle navi approdanti in un porto aveva rivolto all’Autorità portuale una istanza di adeguamento tariffario, in ragione della sopravvenuta antieconomicità dell’attività prestata.
Secondo la concessionaria, l’insostenibilità del servizio in rapporto ai costi preventivati e alle prospettive sussistenti al momento della presentazione dell’offerta era da imputarsi con ogni probabilità alla drastica contrazione del numero degli scali registratasi tra l’anno di sottoscrizione del contratto e il momento dell’affidamento. Ciò avrebbe imposto all’Autorità concedente, secondo la tesi del concessionario, di provvedere al rialzo delle tariffe da quest’ultimo praticabili agli utenti in base alla Convenzione di servizio.
Rimanendo inevasa la suddetta istanza, la società – oltre a ricorrere “contra silentium” – chiedeva al giudice di prime cure la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da ritardo asseritamente subito.
È proprio a partire dall’istituto della revisione dei prezzi che trae abbrivio la sentenza in commento.
In generale, il meccanismo revisionale dei prezzi, congegnato dal legislatore al precipuo scopo di prevenire alterazioni del sinallagma negoziale durante la fase di esecuzione di un contratto, contribuisce ad arricchire di un nuovo e importante “angolo visuale” lo studio della dicotomia tra appalti e concessioni.
La prospettazione del ricorso, come sopra riproposta, è stata giudicata infondata dal Tribunale di prima istanza che ha escluso la configurabilità in capo alla concessionaria di qualsivoglia aspettativa giuridicamente tutelabile. Nella sentenza di rigetto giocano un ruolo nevralgico, in prima battuta, le argomentazioni agganciate al dato testuale.
Difatti, il Tar ha giudicato la pretesa revisione tariffaria «vanamente vantata» dalla società ricorrente, in quanto fondata su un ragionamento che, ove condiviso, sarebbe valso a snaturare la stessa causa giustificativa del contratto di concessione, fisiologicamente connotato invero «dal trasferimento in capo al concessionario del c.d. “rischio operativo”».
Secondo la definizione datane all’art. 3, comma 1, lett. zz) del nuovo Codice appalti, tale rischio – declinabile nel caso in esame nell’accezione di “rischio di domanda” – si traduce, in termini pratici, nella differenza tra il valore che il concessionario introita dall’utenza ed il corrispettivo da questi pagato all’Amministrazione.
Come ben noto, detta modalità di remunerazione tradizionalmente appartiene alle “concessioni calde”, da contrapporre alle “concessioni fredde”, così denominate in quanto tipicamente associate ad opere prive della capacità di generare reddito.
Dall’assoggettamento del privato gestore del servizio ai rischi connaturati alla fluttuazione del mercato in cui opera deriva, quale logico corollario, la riconducibilità nel paradigma concessorio del principio della invariabilità del canone, ad eccezione delle ipotesi di «comprovata ricorrenza di eventi eccezionali e straordinari» esorbitanti rispetto alla tipica alea contrattuale. Prova che, a giudizio del Tar, sarebbe difettata nel caso in esame.
L’impianto motivazionale di prime cure è integralmente confermato anche in appello.
Il Consiglio di Stato, proseguendo sulla scia dell’orientamento fatto proprio dal primo giudice, rimarca anzitutto la linea di confine esistente tra concessioni e appalti, invocando il ben noto criterio strutturale, in ossequio al quale il tratto distintivo attiene alle relazioni intersoggettive tra le parti.
Detto criterio fa leva sulla circostanza che mentre l’appalto ha carattere bifasico, nel caso delle concessioni risalta la dimensione triadica del rapporto (Amministrazione, concessionario, utenza finale).
A ben vedere, trattasi di parametro che – pur affondando solide radici nella Plenaria n. 13 del 2013 – ha assunto un rilievo residuale, apparendo inoltre insoddisfacente in relazione a quelle ipotesi in cui la prestazione sia diretta all’utenza ma la remunerazione del concessionario provenga dal soggetto concedente (tipico è il caso ad esempio delle concessioni fredde, citate poc’anzi, ad esempio i servizi carcerari od ospedalieri).
Contemporaneamente, i giudici di Palazzo Spada nel caso in commento aprono la strada ad una migliore comprensione delle coordinate ermeneutiche già tracciate dal Tribunale Regionale con il criterio incentrato sulle modalità di remunerazione del servizio. Tale criterio conduce ad escludere che nella fattispecie possa configurarsi un obbligo, di matrice convenzionale o pubblicistica che sia, di procedere alla richiesta revisione tariffaria da parte dell’Autorità.
Verso una siffatta conclusione convergono un insieme di elementi che la Quarta Sezione ha modo di apprezzare valorizzando tanto il piano fattuale quanto i dati testualmente evincibili dalla documentazione di gara.
Prima di tutto, i giudici osservano che la tariffa applicata al servizio sia «stata indicata dalla stessa ricorrente in sede di gara» e che proprio in virtù di una tale offerta la società si sia aggiudicata la concessione. In secondo luogo, valutano rilevante, altresì, il fatto che il lasso di tempo intercorso tra l’aggiudicazione e la formulazione della richiesta di revisione sia stato oggettivamente breve e tale da non rendere attendibili le motivazioni poste a sostegno dell’istanza.
Quanto detto vale ad escludere che dal punto di vista del concessionario la fluttuazione della domanda possa aver rappresentato in sé una dinamica patologica e imprevedibile, tale da giustificare la revisione del prezzo.
Venendo alle considerazioni legate alla lex specialis, il Collegio sconfessa la tesi della ricorrente che aveva interpretato l’indicazione di un preciso riferimento numerico di approdi all’interno del capitolato tecnico prestazionale alla stregua di un “minimo garantito”. Interpretazione questa superata alla luce del fatto che il dato numerico non riveste alcun valore negoziale idoneo a far sorgere diritti od obblighi in capo alle parti contraenti, ma opera in funzione puramente endoprocedimentale in vista dello scopo ultimo di fissare il prezzo posto a base di gara.
Ancora, come fa constatare il Consiglio di Stato, non deve ingenerare confusione quanto previsto dal Disciplinare di gara e dalla Convenzione, laddove ammettono una particolare forma di modificazione tariffaria. Quest’ultima, per vero, si atteggia come una sorta di «rimodulazione dell’importo nominale della tariffa in funzione dell’intervenuta variazione del potere di acquisto della moneta» che non comporta alcun reale vantaggio per il concessionario.
Da ultimo, il Collegio chiosa rimettendo alla ricorrente la scelta se «tutelare le proprie assunte ragioni con gli altri mezzi previsti dall’ordinamento». Tra le azioni di impronta civilistica che l’impresa potrebbe decidere di percorrere quale ipotesi sussidiaria si può immaginare, ad esempio, alla possibilità di formulare dinanzi al giudice civile una richiesta di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ex art. 1467 c.c.
Evidenti ragioni di completezza impongono di svolgere un’ultima considerazione. Come agevolmente si ricava dalla lettura del nuovo Codice, la concessionaria – per quanto esposta ad una tipologia di rischio imprenditoriale diversa da quella riscontrabile nel contratto di appalto – non risulta oggi priva di mezzi da far valere a sostegno delle proprie ragioni economiche.
Al variare delle condizioni sottese al contratto di concessione, ove ricorrano le condizioni scolpite a chiare lettere dall’art. 165 co. 6, l’eventuale disequilibrio economico-finanziario può trovare perequazione attraverso la revisione o l’aggiornamento del Piano Economico Finanziario (P.E.F.) e il conseguente adeguamento dei termini della concessione. A tale strumento si aggiungono i corrispondenti rimedi – convenzionali e di legge – e le soluzioni (anche estreme, come lo scioglimento del rapporto) per le ipotesi di mancata soddisfazione delle legittime pretese della concessionaria.
Sezione: Consiglio di Stato
(Cons. St., sez. IV, 22 marzo 2021, n. 2426)
Stralcio a cura di Davide Gambetta
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