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Motivazione: integrazione in corso di giudizio

Manuela Trombetta.

La controversa prassi della motivazione postuma del provvedimento amministrativo è al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale. 

La motivazione costituisce riflesso del principio di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, sancito dall’art. 97 Cost., nonché contenuto indefettibile di ogni provvedimento. Essa, invero, deve indicare, ai sensi dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. 

La sua carenza integra il vizio di violazione di legge, che può comportare l’annullamento del provvedimento (art. 21-octies della citata legge).  

La questione dell’integrazione della motivazione in corso di giudizio è stata di recente affrontata dai giudici di Palazzo Spada, chiamati a pronunciarsi per la riforma della sentenza del T.A.R. Lazio n. 1118 del 2018.  

Nel caso di specie, parte ricorrente segnalava all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che l’edizione italiana di una certa manifestazione promozionale avrebbe costituito una pratica commerciale scorretta, suscettibile di ingenerare nei consumatori un falso affidamento su marchi commerciali, orientandoli in maniera ingannevole verso determinati prodotti, scelti non già tra tutti quelli posti in commercio, bensì soltanto tra quelli iscritti ed ammessi alla competizione.  

Con una prima nota, l’Autorità comunicava all’associazione segnalante l’archiviazione per manifesta infondatezza, ai sensi dell’art. 5, co. 1, lett. c) del “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette, clausole vessatorie”, ritenendo “assenti gli elementi di fatto idonei a giustificare ulteriori accertamenti”. 

A fronte della lamentata insufficienza di motivazione, l’Autorità riesaminava la segnalazione e, con successiva nota, confermava l’archiviazione della suddetta istanza, integrando l’atto con ulteriori motivazioni.  

Nel caso in esame, viene, dunque, in rilievo la fattispecie della conservazione dell’atto amministrativo operata mediante un nuovo atto integrativo della motivazione insufficiente. 

Il Consiglio di Stato ha confermato la decisione di primo grado, rilevando che “l’integrazione della motivazione non costituisce l’esito di una rinnovata istruttoria e di valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine. L’Autorità ha semplicemente esplicitato con maggiore chiarezza i fatti – già acquisiti al procedimento – che a suo parere escludono in radice il carattere scorretto della pratica commerciale segnalata. Sul piano tecnico-giuridico,” l’atto di riesame “non ha <<sostituito l’archiviazione originariamente disposta con un nuovo provvedimento>> (come ritenuto dal giudice di prime cure), bensì ne ha semplicemente integrato la motivazione, per convalidarne gli effetti”. 

L’orientamento giurisprudenziale è sempre stato di segno negativo con riguardo all’ipotesi dell’integrazione della motivazione fornita dall’Amministrazione resistente attraverso gli scritti difensivi. Gli argomenti tradizionalmente addotti possono essere così sintetizzati: senza una motivazione anteriore al giudizio, verrebbero frustrati gli apporti (oppositivi o collaborativi) del partecipante al procedimento, essendo la motivazione della decisione strettamente legata alle risultanze dell’istruttoria; non si potrebbe consentire all’Amministrazione di modificare unilateralmente l’oggetto del giudizio rappresentato dall’atto originariamente adottato; si imporrebbe al privato di attivare la tutela giurisdizionale praticamente “al buio”, potendo questi conoscere le ragioni alla base della decisione soltanto nel corso del processo; ulteriore conferma, nel segno dell’inammissibilità, si traeva, poi, dall’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, il quale non ammetteva la convalida nelle more del giudizio se non con riguardo ai vizi di incompetenza.  

Il dibattito sulla motivazione postuma si è riproposto quando il legislatore, al fine di alleggerire il penso dei vincoli formali e procedimentali di una P.A. secondo una logica di “risultato” più che alla legalità “formale” dei singoli atti, ha introdotto la regola della non applicabilità della misura caducatoria in presenza di difformità dallo schema legale che non abbiano influenzato la composizione degli interessi prefigurata nel dispositivo della decisione, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, inserito dall’art. 14, comma 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15).  

L’indirizzo maggioritario della giurisprudenza amministrativa si è, tuttavia, orientato nel senso che il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti (ex plurimis, Cons. St., sez. III, 7 aprile 2014, n. 1629; sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4770; sez. III, 30 aprile 2014, n. 2247; sez. V, 27 marzo 2013, n. 1808). 

Anche la dottrina ha sostenuto l’inammissibilità della motivazione postuma, ritenendola in contrasto con le regole del giusto procedimento amministrativo, come delineato dal diritto euro-unitario (in particolare, l’art. 296 TFUE, che richiede la motivazione per tutti gli atti delle istituzioni comunitarie, inclusi quelli normativi, e il diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che qualifica la motivazione come forma sostanziale e motivo d’ordine pubblico, da esaminarsi d’ufficio (ex plurimis, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. VII, 11 aprile 2013, n. 652, C-652/11). 

Per quanto attiene il fenomeno della convalescenza dell’atto amministrativo, la dottrina pubblicistica ha sempre ritenuto ammissibile, in virtù del principio generale di economicità e conservazione dei valori giuridici, la possibilità per l’Amministrazione di concludere il riesame del proprio operato con una decisione di carattere conservativo.  

La novella del 2005 ha tipizzato la figura nel secondo comma dell’art. 21-nonies della l. 241/90, che fa espressamente “salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole” >>.   

L’efficacia consolidativa degli effetti della convalida opera di norma retroattivamente: il provvedimento di convalida, ricollegandosi all’atto convalidato, ne mantiene fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato (Cons. St., sez. V, 21 luglio 1951, n. 682). La decorrenza ex tunc è connaturale alla funzione della convalida di eliminare gli effetti del vizio con un provvedimento nuovo ed autonomo.  

La retroattività della convalida trova, tuttavia, un importante limite nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine perentorio, scaduto il quale anche il potere di convalida viene necessariamente meno.  

I giudici di Palazzo Spada rimarcano i limiti entro cui è possibile convalidare – ossia sottrarre al rimedio dell’annullamento (e dell’auto annullamento) – il vizio di insufficiente motivazione, sottolineando che “i) se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti), il difetto degli elementi giustificativi del potere non può giammai essere emendato, tantomeno con un mero maquillage della motivazione: l’atto dovrà comunque essere annullato; ii) se invece la carenza della motivazione equivale unicamente ad una insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto riepilogo della decisione presa, siamo di fronte ad un vizio formale dell’atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non riconoscersi all’amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila delle stesse risultanze procedimentali, munendo l’atto originario di una argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza dispositiva, in quanto riflette la corretta sintesi ordinatoria degli interessi appresi nel procedimento”. 

Sulla base di tali premesse, si conclude per l’emendabilità tramite l’atto di convalida del vizio di motivazione nel corso del giudizio già instaurato per il suo annullamento.  

Nell’impianto del nuovo processo amministrativo, diversamente dal modello primigenio, al privato è riconosciuta la possibilità di impugnare, mediante la proposizione di motivi aggiunti, tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti e connessi all’oggetto del ricorso stesso. L’interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare sia l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato -contestandone quindi la stessa ammissibilità - sia l’annullamento dell’atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità.  

L’ammissibilità di una motivazione successiva non comporta una dequotazione dell’obbligo motivazionale, sussistendo adeguati disincentivi alla sua inosservanza: sul piano individuale, perché restano ferme le ricadute negative sulla valutazione della performance del funzionario; sul piano processuale, in quanto il giudice potrà accollare (in tutto o in parte) le spese di lite alla P.A. che abbia con il suo comportamento dato origine alla controversia. 

È, dunque, possibile per la P.A. integrare la motivazione per due ordini di motivi: uno sostanziale, data la persistenza del potere amministrativo, l’altro processuale, vista la dequotazione dei vizi formali oltremodo protetti ex art. 21-octies della l. 241/90. 

Argomento: provvedimento
Sezione: Consiglio di Stato

(Cons. St., sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385) 

Stralcio a cura di Rossella Bartiromo

“Il problema dell’integrazione della motivazione dell’atto amministrativo in corso di giudizio, può essere tematizzato in relazione alle seguenti diverse fattispecie:  i) la motivazione postuma fornita dall’amministrazione resistente attraverso gli scritti difensivi;  ii) la statuizione del giudice di non annullabilità dell’atto viziato da carente motivazione, qualora «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (in applicazione, dunque, dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990);  iii) la possibilità di sanare la motivazione carente o insufficiente con un provvedimento di convalida.  6.2.‒ Con riguardo alla prima ipotesi (dell’integrazione della motivazione tramite atto difensivo), l’orientamento della giurisprudenza è stato sempre di segno negativo.  Gli argomenti tradizionalmente addotti possono essere così sintetizzati: senza una motivazione anteriore al giudizio, verrebbero frustrati gli apporti (oppositivi o collaborativi) del partecipante al procedimento, essendo la motivazione della decisione strettamente legata alle «risultanze dell’istruttoria»; non si potrebbe consentire all’amministrazione di modificare unilateralmente l’oggetto del giudizio rappresentato dall’atto originariamente adottato; si imporrebbe al privato di attivare la tutela giurisdizionale praticamente “al buio”, potendo questi conoscere le ragioni alla base della decisione soltanto nel corso del processo; ulteriore conferma, nel segno della inammissibilità, si traeva poi dall’art. 6, della legge 18 marzo 1968, n. 249, il quale non ammetteva la convalida nelle more del giudizio se non con riguardo ai vizi di incompetenza.  6.3.‒ Il dibattito sulla motivazione postuma si è riproposto quando il legislatore, al fine di alleggerire il peso dei vincoli formali e procedimentali di una pubblica amministrazione che si sarebbe voluta informata ad una logica di “risultato” più che alla legalità “formale” dei singoli atti, ha introdotto la regola della non applicabilità della misura caducatoria in presenza di difformità dallo schema legale che non abbiano influenzato la composizione degli interessi prefigurata nel dispositivo della decisione (si tratta, come [continua ..]

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